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Autore: Part of the Masterplan    02/07/2014    6 recensioni
“Qualcuno ti ha fatto stare male?”
“No. A te?”
Incontro i suoi occhi grandi e scuri, arrossati, ma sempre quei mondi immensi in cui precipito. “No.”
“Ti manca?”
“No. Non mi manca.”
Qualcosa dentro di me si compiace con impunita soddisfazione, sentendolo con me, qua, ora. Non più negli Stati Uniti. Non più da Arielle. Da nessuna, se non qua. Con me.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Turner, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allungo una gamba intorpidita verso l’esterno del letto, il lenzuolo mi è sceso sui fianchi e coricata a pancia in giù apprezzo il lieve soffio di aria fresca proveniente dalla finestra socchiusa accarezzarmi la pelle nuda. Ho sete e caldo.
Sul pavimento, intricati tra loro e abbandonati, ci sono la mia gonna a vita alta, il mio top nero, la sua t-shirt, il giubbotto di pelle sulla poltrona vicino alla porta. Quando siamo insieme mi piace farlo, mi piace guardare da coricata tutto ciò che di nostro è mescolato e lasciato ai piedi del letto, quando siamo senza barriere e differenze, quando siamo senza ostacoli e maschere. Mi sento una spettatrice privilegiata, lo avverto nelle vene, quando mi volto e incontro il suo corpo che si muove appena, lentamente, con i capelli ormai non più fissati dalla gelatina, con le labbra socchiuse e una mano allungata verso di me, senza toccarmi, solo per sincerarsi di avermi vicino.
Mi tiro a sedere con calma per non svegliarlo, reprimendo la voglia di affondare le dita tra i suoi capelli chiedendogli di baciarmi ancora. Afferro una maglietta lunga abbastanza da coprirmi in parte le cosce e silenziosamente, a piedi nudi, raggiungo la cucina. Una bottiglia di birra fredda tintinna non appena apro l’anta del frigo, con una pallida luce giallognola accompagnata da un ronzio sommesso. Le mie unghie laccate di rosso stappano con un movimento deciso la bottiglia e un generoso sorso di liquido mi scorre in gola. Respiro forte, appoggiata con la schiena al lavello nella stanza debolmente illuminata dall’esterno.
E’ sempre così il nostro ritrovarci. Perderci per mesi magari, non sentirci, mandarci al diavolo per qualunque sciocchezza, per quella gelosia che in fondo è un po’ complice perché sa che l’altro tornerà sempre. Tornerà nei momenti in cui la vita sembra scappare lontano, quando ti senti abbandonata, sola, quando hai bisogno di sfogare ciò che ti assilla, quando devi allontanare ogni spirito maligno.
Cosa siamo io e lui? Chi lo sa.
Chi l’ha mai saputo?
Sono arrivata nella sua classe quando il primo anno di liceo era già iniziato, ricordo ancora gli occhi incuriositi dei miei compagni osservarmi e studiarmi. Poi c’era quella coppia affiatata e inscindibile: Turner e Helders, laggiù, all’ultimo banco, scambiandosi occhiate e risatine si capivano con un’alzata di sopracciglio. Io ero all’angolo opposto dell’aula, eppure quando mi voltavo – e non accadeva così raramente – incontravo gli occhi di uno dei due a guardarmi. I primi tempi pensai che avrebbe dovuto solo farsi gli affari suoi, poi però diventò un bel modo per cercarsi, per giocare, per indugiare un attimo di più occhi negli occhi per poi voltarsi rapidamente e coprire il viso arrossito appena con i capelli.
La pace sotto il mio balconcino mi invoglia a uscire e ad accucciarmi a terra, sopra di me un cielo violaceo raccoglie la potenza delle luci della città, non troppo lontane.
Ci scambiavamo poche parole, sembravano così inutili. A noi piaceva guardarci e capirci. Forse già a quell’età mi piaceva spogliarlo e comprenderlo di più. E pensare che non era neanche il mio tipo. Non il ragazzo per cui avrei fatto follie, né quello per cui avrei scommesso avrei perso la testa, né quello che mi faceva sospirare con tono innamorato.
Eppure c’era un’attrazione, una calamita. Continui, implacabili. Sempre così, anno dopo anno, sempre più intensamente, incontri fugaci, serate passate insieme. Mai un bacio, al massimo un abbraccio troppo stretto, che faceva trasparire qualcosa a cui non sarei stata capace di dare un nome. Cos’era?
Turner e Helders avevano anche formato una band, gli Arctic Monkeys, non mi perdevo neanche una loro prova. Erano bravi e si divertivano a fare ciò che facevano. Prima dell’arrivo del successo spiazzante, di quelli che ti attaccano al sedile come la partenza delle montagne russe, una sera gli anni passati a guardarci arrivarono a chiederci il conto. Era il momento di pagare, cadere nel vuoto o cadere indietro, un movimento era necessario.
I ragazzi avevano suonato in un locale a Sheffield, una serata come altre, qualche drink, canzoni cantate tutti insieme, un omaggio agli Strokes e uno agli Oasis. Mi aveva cercato insistentemente con lo sguardo, mentre cantava con le labbra appoggiate al microfono. Voleva me, a guardarlo. Come sempre mi feci trovare pronta, attenta, capace di cogliere anche il minimo cenno.
Questo è il cielo da cui scappo? O è quello in cui mi ritrovo?
Un rumore lento a qualche metro da me, il suo viso spunta dalla finestra, assonnato, gli occhi socchiusi.
“Stai bene?”
Annuisco, accompagnando il movimento della testa con un mugugno e bevendo un sorso. Mi imita, uscendo sul balconcino con i pantaloni raccattati dal pavimento e la maglietta a maniche corte. Si lascia cadere accanto a me con pesantezza, l’alcol forse gli fa ancora girare la testa. Eppure la mia sbronza è passata, in questo momento mi sento lucidamente estranea da me stessa.
“Dimmi cosa c’è.” sussurra con quella voce roca dal tono basso, stropicciandosi le palpebre ripetutamente.
“Volevo prendere un po’ d’aria fresca.”
Appoggia la mano calda sulla mia coscia tatuata, pacatamente, le sue dita sembrano aggrapparsi alla mia pelle fredda. “Qualcuno ti ha fatto stare male?”
“No. A te?”
Incontro i suoi occhi grandi e scuri, arrossati, ma sempre quei mondi immensi in cui precipito. “No.”
“Ti manca?”
“No. Non mi manca.”
Qualcosa dentro di me si compiace con impunita soddisfazione, sentendolo con me, qua, ora. Non più negli Stati Uniti. Non più da Arielle. Da nessuna, se non qua. Con me.
“Allora, come si chiama l’ultimo?”
“L’ultimo?” domando, cercando una risposta sul suo volto avvolto dal buio.
“L’ultimo con cui sei andata. Nel posacenere ci sono delle Chesterfield. Senza il segno del rossetto.”
Lascio ciondolare la testa in avanti, le labbra che sfiorano l’orlo del collo della bottiglia, il freddo del vetro che si fonde alle mie labbra tremanti. “James.”
“Ironico.” Sento la sua mano muoversi dalla mia coscia e accendersi una sigaretta, un bagliore arancione solo per un attimo sprizza con un movimento deciso rischiarando l’atmosfera, filtrando tra i capelli sciolti che mi coprono il viso. La sua mano si posa di nuovo sulla mia gamba, questa volta più veementemente, quasi con rabbia. “Come il protagonista del tuo ultimo racconto.”
“E’ stata solo una coincidenza.” Sussurro, la voce che cambia coloritura entrando e rimbombando nella bottiglia.
“Quanto è durata?”
Sto zitta, le mie dita stringono più forte la bottiglia. Mi sento sotto pressione.
“Oh, non dirmi solo una notte.”
“Fino a colazione.” Sorrido, voltando il capo e incontrando il suo viso piegato, la sigaretta tra le labbra e gli occhi socchiusi.
“Sei incorreggibile.”
I polpastrelli giocano con i contorni del mio tatuaggio, colorato e ben visibile sulla carnagione bianca da northerner. Uno per ogni dolore, uno per ogni ricordo.
“Come si chiama l’ultima, Alexander?” allungo le dita verso la sigaretta, ma le poso sulle sue labbra.
“Penso che tu la conosca… Scrive racconti, vive lontano da Sheffield e a scuola era seduta al primo banco. Si chiama… Sì, mi pare si chiami Beth.” sorride ancora, sfilando la sigaretta dalle labbra e posandola tra le mie. Faccio due soli tiri, gliela ripasso come mille altre volte ho fatto. Le nostre dita si sfiorano per un attimo, per poi ritornare nella loro posizione precedente.
“Quando riparti?”
“Domani sera, ho il volo delle otto e mezza.”
“Mmm,” soffia fuori il fumo dalle labbra sottili “io riparto tra due giorni. Abbiamo qualche data da aggiungere al tour.”
Il suo avambraccio allungato mostra il tatuaggio che reca la scritta Sheffield. Identico al mio, che porto sul tricipite, fatto insieme a lui per ricordarci chi siamo, da dove veniamo.
Beth, dovremmo tatuarci sulla pelle questo posto. mi disse, la testa appoggiata sulle mie gambe, mentre sorseggiavo il terzo gintonic. Sapeva che un’idea del genere non me la sarei mai lasciata sfuggire.
Avanzo lentamente con il busto, quel tanto che basta per sfiorare con le labbra quella macchia di colore sottopelle che contrasta cupamente accentuata dal buio notturno. Rimane impassibile, guardando davanti a sé. Bacio il nostro marchio, la nostra unione, la nostra promessa. Beth, Alex e Sheffield.
Mentre alzo il capo, il suo braccio segue il mio movimento, circondandomi le spalle e tirandomi a lui, permettendomi di appoggiare la testa sulla sua spalla ossuta. “We’ll figure it out.” si lascia scappare con il suo accento britannico che a volte ricompare, scacciando via la posa da americano. Non so a cosa si riferisca, ma è come una rassicurazione tacita di un problema che conosce, che mi ha letto dentro.
“Il protagonista del tuo nuovo racconto… Questo James… Nella tua mente, che fine ha fatto?”
“Ha scelto la sua anima gemella.” rispondo distrattamente. James, come ogni mio altro personaggio, ha vissuto nella mia mente e lo porto ogni giorno con me. E’ parte di me, come potrebbe non esserlo?
“Ha preso quel treno, quindi?”
Nelle ultime righe del mio ultimo racconto James, inglese pieno di sogni e povero di certezze, sale in macchina trafelato per raggiungere la stazione dei treni e andare dal suo grande amore.
 
Guardò l’ora che lampeggiava sul cruscotto con ansia, maledicendo il traffico delle sei di sera.
Non era troppo tardi.
Forse.
 
“Forse.” ripeto ad alta voce, dopo aver visualizzato nella mia mente quelle righe incise sulla carta giallognola.
“Perché diamine non me lo dici?”
“Perché puoi scegliere tu. La scelta sta a te. Tu avresti preso quel treno?”
Mentre gli rivolgo questa domanda lo guardo negli occhi, forse sfidandolo. Sfidando il nostro passato, sfidando quel giorno che tra noi cambiò tutto.
Quello in cui perse il treno. O forse non lo prese. E io lo aspettavo, aspettavo che scendesse da quel maledetto treno puntuale e mi baciasse e mi dicesse che sì, sarei dovuta rimanere, perché ciò che eravamo, ciò che siamo, era tutto ciò che importava.
Non fu così.
Piansi su una panchina scrostata, chiusi la mia valigia marrone e partii. A Sheffield rimase questo monolocale semi vuoto che affogava nel buio.
 
I’m sorry I was late
But I missed the train, and then the traffic was a state
 
“Sì, l’avrei preso.”
 
And I can’t be arsed to carry on in this debate that reoccurs
Oh, when you say I don’t care
But of course I do, I clearly do!
 
Ritorno qualche volta, saltuariamente, quando so che posso trovarlo qua, posso sentirlo suonare alla porta con tre trilli distinti e una bottiglia d’alcol da centinaia di euro per festeggiare il nostro nuovo incontro. Ritorno quando non ce la faccio più e la vita mi fa paura e solo Alex riesce a curare la malattia che mi mangia dentro, quella che mi perseguita quando ho solo voglia di autodistruggermi. Mi abbraccia e affonda il viso tra i miei capelli, come faceva quando in cucina mi cadeva qualcosa e mi stringeva la schiena baciandomi il collo e facendomi ridere.
Ritorno quando devo scrivere e rintanarmi nell’unico posto che riflette ciò che sono, dove l’ispirazione mi prende per i capelli, mi fa male, mi segna ogni centimetro di anima.
Alzo gli occhi per osservarlo, mentre la mia guancia sfrega sulla sua maglietta.
Ho adorato questo uomo con tutta me stessa, con ogni parte di me. Carnalmente, platonicamente, nelle vene e nel cervello.
Abbiamo sempre scritto uno dell’altra, senza mai confessarcelo.
“Rimani?”
Lo sento annuire. “Perché me lo chiedi?”
“Vai via prima che sorga il sole. Come fai a svegliarti con qualcuno che non ami?” cito tormentando con le unghie la bottiglia.
“Smettila di dire stronzate.” chiude il discorso.
Alex sa. E’ capace di ricordarmi tutto quello che dimentico, riesce a curarmi.
La sua mano stringe la mia coscia, circondandola. “A cosa pensi?”
“A niente.”
Allunga l’indice, dritto davanti a sé, come se disegnasse nell’aria una figura. “Ricordi quella sera in cui scappammo?”
Rido spontaneamente, curvando la schiena. “Fu folle.”
“Hai bevuto, ragazzo? Non mi sembri abbastanza grande per farlo.” imita la voce dell’uomo brizzolato che ci parlò guardandoci dritto in faccia, con degli occhi glaciali e un tono perentorio, per poi cambiare intonazione e imitare una giovane ragazza che intervenne in difesa del suo amico brillo rispondendo “Scusi, agente, c’è un’età prestabilita? Nessuno ce l’ha detto.” Imita anche il mio sorriso da ragazza innocente, quello che sapevo usare come arma nelle situazioni in cui eravamo in difficoltà. “Dio, quanto sapevi fingere.”
“Turner, avevi bisogno di un angelo custode che ti salvasse il culo, no!?”
Ride anche lui, spontaneamente, quando ride mostra i denti perfetti, le guance si colorano appena, sembra tornare quindicenne. “Ne ho sempre avuto bisogno.” i polpastrelli mi pizzicano la pelle.
Prima di questo ritorno improvviso e perentorio a squarciare la tranquillità di un aprile arrivato troppo in fretta, l’ho rivisto a gennaio. C’era aria di tempesta a Los Angeles, da Arielle, e sapevo sarebbe tornato a Londra e poi a Sheffield, giusto per staccare un attimo, prima di tornare sul palco con quelle imbarazzanti camicie per cui lo sfotto sempre. Ero a Londra anche io, per la promozione del mio racconto. Una sera mi trovai ad una festa in un locale esclusivo, di quelli che voci dicono che spesso ci siano come ospiti Serge Pizzorno e Noel Gallagher, ma io non riesco mai a incontrarli. Dopo qualche drink ero in un angolo un po’ buio, le luci soffuse lontane abbastanza per non far vedere la mia espressione notevolmente annoiata verso il casino che da una ventina di minuti si era scatenato all’entrata. Si parlava di un cantante famoso, ma dato che l’ombra di Gallagher e Pizzorno non si vedeva, avevo solo voglia di un’altra tequila. Lasciavo che il mio sguardo si perdesse tra le teste dei presenti, come se osservassi la scena da un’altra prospettiva, totalmente lontana ed estranea da me stessa. Come se fossi una spettatrice esterna, appollaiata sul bancone del bar. Tra gli eleganti chignon, le chiome spumose, giacche e cravatte, incontrai i suoi occhi. I suoi occhi e il suo giubbotto di pelle. In fondo, era solo il cantante degli Arctic Monkeys. Mi vide, non so come data la mancanza di luce, e si avvicinò di qualche passo nella mia direzione. Poi permise che qualcuno si fermasse a parlare con lui. Conoscevo quella mossa, era la mia specialità e lui l’aveva imparata magistralmente. Tutto consisteva nel giocare, aumentare la tensione, avvicinarsi, ma non troppo, flirtare con altre persone, ignorarsi, toccarsi impercettibilmente e scomparire per metà della serata. Era una trama tessuta con pazienza, reprimendo la gelosia e facendo vincere l’orgoglio. Nonostante si strusciassero contro di lui, gli facessero le moine o pendessero dalle sue labbra, anche se incontravo uomini interessati a me, era sempre una sfida tra i nostri due sguardi. Finivamo sempre in pareggio, ma soprattutto finivamo sempre a letto insieme. Avere tutti, per avere Alex.
Alex. Si è sempre trattato di lui, no?
Per arrivare al divanetto su cui ero seduta a gambe incrociate, il corpo proteso verso un ragazzo in camicia azzurra che avrebbe davvero voluto baciarmi, Alex ci mise più o meno quattro ore. Sentivo il suo sguardo su di me e continuavo la mia partita, imperterrita. Verso le quattro del mattino, sentii nell’accento che meglio riconosco, le parole che aspettavo già da un po’ “Scusa, amico, ti dispiace?”
Il ragazzo dalla camicia azzurra guardò me, poi la persona in piedi. “Ma…”
“Lasciaci un attimo soli, ci vediamo dopo.”
Il mio sorriso innocente, lo uso ancora ora.
“E’ da un po’ che non ci vediamo.” esordì.
“Se per un po’ intendi quasi un anno, sì.” commentai in risposta guardando il pavimento.
“Ti ho fatto gli auguri per Natale, non lamentarti.”
“Oh, hai ragione. Un messaggio impersonale è sicuramente il meglio.”
“Hai intenzione di frignare ancora per molto o vieni in albergo con me? La carrozza ci aspetta fuori, milady.”
Ricordo ancora i suoi pantaloni neri vicino a me, quelle pupille dilatate che ho guardato solo dopo che mi ha invitata a seguirlo nella sua hotel suite. E’ la persona che conosco meglio al mondo, eppure non smette mai di stupirmi.
Mi alzo lentamente, felinamente, so quanto questo catturi la sua attenzione quando rallento i movimenti, è come se fosse ipnotizzato. Rimango in piedi davanti a lui, il mio ventre è all’altezza del suo viso. Le luci alle mie spalle fanno brillare i suoi occhi grandi e scuri, verso i quali abbasso il busto.
“Mi segui?” domando sottovoce, sussurrando al suo orecchio e baciandolo sulla guancia, troppo vicino alle labbra. Annuisce, deglutendo, seguo il movimento della gola con l’indice che scivola sulla pelle, per poi tornare in posizione eretta ed entrare in casa.
Mi segue, qualche passo dietro di me e la camminata svogliata, sorprendendomi ad armeggiare con il giradischi.
“Cosa fai?”
“Voglio ballare.” Sorrido.
“Adesso?”
“Adesso, Alex Turner. E tu mi farai ballare.”
Il vinile – regalo che mi ha fatto recapitare a casa – sul piatto gracchia, la melodia che dolcemente avvolge la stanza è ben conosciuta. Le sue labbra si piegano in un sorriso, ma c’è qualcosa in più. Quell’ombra di totale comprensione, di complicità, quella fossetta che si crea sulla guancia sulla quale amo schiudere le labbra. Le sue braccia mi cingono la vita, lo imito, agganciandomi al suo collo.
“Siamo sempre poco sobri.”
“Ma non è così male, no!?” piega la testa, baciandomi a fior di labbra.
“Sono felice che tu abbia una t-shirt e non una camicia a fiori del cazzo.” le nostre labbra rimangono appoggiate le une alle altre, sorridendo, mimando ogni singola parola.
Ci muoviamo lentamente, a destra e sinistra, ondeggiando, mentre il mio seno preme contro il suo petto e i nostri respiri hanno lo stesso ritmo. Tutta la mia attenzione è ai suoi occhi, li guardo, li studio, più li desidero, più ci annego.
 
Drunken monologues, confused because
It's not like I'm falling in love I just want you to do me no good
And you look like you could
 
Mi aggrappo alla sua pelle, come se potesse scomparire da un momento all’altro.
In fondo è così, giochiamo la nostra partita e poi ritorniamo alle nostre vite, lontane e diverse.
Mi chiedo quanto avrebbe cambiato le cose quel treno preso in tempo, quando non saremmo stati altro che noi.
“Che c’è, Beth?” mi scosta una ciocca di capelli dagli occhi con il dorso dell’indice, per poi farlo passare sulla mia guancia.
Non gli rispondo, non sono capace.
Un giorno mi disse che avrebbe voluto essere capace a usare le parole come me, perché una canzone, per quanto lunga, è sempre troppo breve per dire tutto ciò che si vorrebbe. Forse non sa che anche scrivendo libri e racconti, quella fiamma non si esaurisce mai totalmente. Non dici mai tutto ciò che vorresti e dovresti e se per caso ce la fai, non usi mai le parole migliori.
Dalla vita avrei voluto qualche parola giusta in più. Quelle che non ho, me le scrivo addosso. Perché facciano male, perché da loro io possa imparare e ricordare.
Con lo sguardo incontro, dietro il collo di Alex, il corsivo inciso sul mio avambraccio: It’s better to burn out, than to fade away, recita.
Le sue labbra sanno di nicotina e birra, anche se il profumo della gelatina per capelli ormai quasi scomparsa, mi pizzica le narici. Ogni volta che mi bacia così è come se qualcosa nella mia mente si schiantasse a velocità supersonica facendomi sprofondare in un altro universo.
No. 1 Party Anthem termina, ritorniamo nel soffice silenzio che si colora solo di sospiri e sorrisi. Tenere gli sguardi agganciati, è la nostra tacita promessa. Senza quello, incontrarci non avrebbe senso.
Rimango stretta a lui per un tempo interminabile, le fronti appoggiate l’una contro l’altra.
Non so cosa siamo.
Eppure ogni dolore che ha curato, ogni bacio che mi ha lasciato sulle labbra come quando si bacia una lettera prima di inviarla a qualcuno, ogni canzone cantata, ogni parola che ha trovato ripensando a noi, ho sentito sempre la stessa, insopportabile e inevitabile sensazione: quella di essere debole e vulnerabile. Quella di amarlo.
Lo guardo, le palpebre socchiuse e un sorriso dolce.
Mi allontano da lui, un ghigno di sfida “Turner, si inizia ufficialmente la seconda partita.”
I miei passi, uno di fronte all’altro, mi portano a incontrare la mia figura nello specchio in camera da letto, alle mie spalle lo vedo riflesso mentre avanza con una mano nei capelli.
 
And do you look into the mirror to remind yourself you're there?
Or have somebody's goodnight kisses got that covered?
And I'm not being honest, I pretend that you were just some lover.
 
  
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