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Autore: M a i    03/07/2014    1 recensioni
Giulio ha sei anni ed è convinto che le nuvole siano fatte di panna montata. Marco ne ha 50 e non sa nemmeno che sapore abbia. Forse un tempo lo sapeva, un tempo in cui non conosceva ancora il sapore ferroso del sangue di sua moglie e delle sue due bambine. Un tempo in cui anche lui credeva che un giorno sarebbe stato abbastanza alto da poter rubare un po' di quella panna montata.
**
[...]
- Senti, marmocchio, quanti anni hai ?
- Sette, signore. – affermò orgogliosamente lui.
- Bene, credo che non avrai difficoltà allora a rispettare queste due regoline semplici semplici. Uno, legati quella maledetta lingua che ti ritrovi. Due, d'ora in poi la sleghi solo quando ti faccio una domanda. Sono stato abbastanza chiaro? -
- Si, signore, ma sono ancora piccolo io, ho imparato solo ad allacciarmi le stringhe non sono capace di legarmi anche la lingua.–
Marco si ritrovò a soppesare due ipotesi: o il bambinetto non aveva capito la metafora o lo stava prendendo in giro. Dopo qualche secondo optò per la seconda. […]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spesso ci sono più cose naufragate in fondo a un’anima che in fondo al mare.

Victor Hugo, Oceano, 1989 (postumo)






Marco non sapeva per quanto tempo fosse rimasto in quella posizione. Un’ora ? Due ? Sicuramente era stato molto tempo, forse troppo. Aveva i sensi intorpiditi e la vista annebbiata da una patina grigiastra e fastidiosa. Scosse lentamente il capo e i muscoli del collo protestarono unanimi. Sbatté un paio di volte le palpebre per schiarirsi la vista, ma quando il corpo della moglie tornò a essere al centro della sua visuale, si pentì di averlo fatto. Il cadavere della donna era riverso sulla moquette della villetta in enorme pozza di sangue con la gola tagliata e gli occhi rivolti all’indietro. Lui era inginocchiato lì accanto, gli occhi sbarrati che non riuscivano a staccarsi da quella figura martoriata. Marco serrò d’istinto gli occhi, come sperando che il corpo sarebbe sparito. Li riaprì dopo pochi secondi, piano. Lei era ancora lì. Non si era accorto di tremare, finché un brivido più deciso e freddo degli altri non gli attraversò la spina dorsale.
Spostò lo sguardo dal cadavere per appoggiarlo poco più in là dove un corpicino giaceva sul tappeto. Lucia. A Marco scappò un singulto. La piccola Lucia con ancora la coroncina da principessa sul capo. Sul divano la sorellina gemella aveva ancora il viso bagnato dalle poche lacrime che era riuscita a versare prima che il suo cuore si fermasse. Alice. La piccola Alice. La piccola Lucia. E poi Marta, la loro mamma. Uccise nel salotto della loro casa.
Le lancette dell’orologio appeso alla parete sembravano non muoversi. Come se il tempo si fosse raggelato in quei secondi terribili in cui la mano di Marco Casnati  aveva spezzato le vite di sua moglie e delle sue due bambine. Fuori, però, tutto andava avanti:  le foglie assecondavano le movenze della brezza e i passeri cinguettavano sui rami. I passeri. A Lucia piacevano tanto gli animali. Si ricordava di quella volta in cui ne avevano trovato uno ferito e lei aveva insistito perché lo curassero. Pendeva dalle sue labbra mentre  fasciava l’ala all’uccello e anche Alice aveva voluto assistere alla medicazione battendo, entusiasta, le mani al suo papà. Marta l’aveva sfamato per tutto il tempo della convalescenza e lui gli aveva cambiato le bende tutti le sere quando tornava dal lavoro. Poteva rivedere il sorriso felice di Lucia quando le aveva detto che l’uccellino stava meglio, il musetto triste di Alice quando l’avevano liberato e la mano delicata di Marta che gli accarezzava la testolina. Lucia, Alice, Marta. Marta, Alice e Lucia. Le sue ragioni di vita. Morte. Marco mormorò un flebile no al nulla. No, no, no e NO.
L’uomo si alzò di scatto nel panico. Guardò atterrito i pantaloni imbrattati dal sangue della moglie. Cercò di ripulirli passandoci stupidamente le mani sopra, per poi fermarsi inorridito quando vide che al sangue già presente se ne aggiungeva altro. Sollevò le mani davanti al viso: i palmi ne erano ricoperti. Un urlo strozzato gli uscì dalla gola. Tentò di liberarsene strusciando i palmi sulla tovaglia ricamata, sui mobili in mogano, sulle pareti bianche. Poi si ritrovò a guardare il vetro della finestra: fuori si stava facendo buio, ma il riflesso del suo volto era nitido.  Marco non si riconobbe: quell’uomo dai capelli sporchi non era lui. Quell’uomo con lo sguardo sconvolto e gli occhi rossi non era lui. Quell’uomo con il volto raggrinzito non era lui. Quell’uomo sporco del sangue di sua moglie e delle sue bambine non era lui.
Marco arretrò all’indietro, fuori di sé. La candela preferita di Marta cadde e la fiamma avvolse l’enorme tenda che copriva la vetrata. Marco si mosse solo quando un odore di bruciato gli solletico le narici. Abbassò lo sguardo e vide la punta della scarpa che gli andava a fuoco. Il dolore che provò rischiò di farlo svenire talmente era intenso. Gridò e frettolosamente si tolse la calzatura per poi fare lo stesso con l’altra. Marco tossì e si mise la maglietta davanti al volto per evitare di essere soffocato dal fumo che stava lentamente riempiendo la stanza. L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e  l'uomo scappò fuori dalla villa.
Corse fino a sentire male alle gambe, fino a non avere più fiato nei polmoni. Corse fino a pensare di essersi immaginato tutto. Corse fino a convincersi di aver fatto solo un brutto sogno, un incubo; fino a convincersi che da un momento all'altro si sarebbe svegliato e avrebbe rivisto il dolce volto di Marta con in braccio le loro due figlie. Poi si fermò stremato e la realtà gli rovinò addosso cruda e violenta. Marta, Lucia e Alice erano morte e lui era un assassino. Il loro assassino. Niente avrebbe potuto cambiare questo.
Marco si fece strada tra le spighe non ancora mature del campo. Abitava in aperta campagna per sua fortuna. Sarebbe stato molto più difficile scappare indisturbato se, invece, avesse abitato in città. Si inoltrò tra il foraggio, strappandosi la maglietta e i pantaloni ancora sporchi. Arrancava stanco e confuso senza meta, desiderando solo il suo letto caldo e accogliente. A un certo punto non ce la fece più, cadde in ginocchio in mezzo alle spighe. Si sdraiò sulla schiena e rimase ad ansimare nella fredda aria notturna. Respiro dopo respiro la paura che gli aveva offuscato la ragione fino a quel momento si dissolse, lasciando il posto a una rabbia fredda e controllata. Era diversa da quella che lo aveva invaso alle parole di Marta. Quella era stata ira, un'ira accecante, un raptus di follia che gli aveva fatto perdere la testa. Un furore che aveva cancellato tutto dalla sua mente, che gli aveva fatto prendere quel coltello da cucina e rincorrere Marta che terrorizzata stava scappando in salotto. Quella rabbia che gli aveva fatto tagliare la carotide di Marta con un movimento deciso, che gli aveva fatto ignorare la parola “papà” sussurrata da Lucia prima che si avventasse su di lei e le lacrime di Alice.
Ma non era pentito, no, non lo era. Certo, la scena che aveva visto gli faceva rivoltare lo stomaco ancora in quel momento, però non riusciva a sentirsi in colpa. Non dopo la confessione della donna con cui aveva condiviso i cinque anni migliori della sua esistenza. Non dopo quella rivelazione a cui non era riuscito a credere nei primi dieci secondi, il tempo di capire che era la verità dall’espressione afflitta e disperata di Marta. L’aveva odiata, oh sì, tanto.  L’odio bruciante che aveva provato in quei secondi avevano cancellato tutto l’amore che pensava di provare per lei. Tutti quegli anni felici gli erano sembrati un’enorme illusione. La loro famiglia un castello di carte che all’arrivo di quella folata di vento era crollato. Aveva odiato anche le sue stesse figlie: sapeva, sapeva che erano innocenti, che non avevano colpa. Come potevano averla dopotutto ? Ma non gli era importato. Le aveva uccise lo stesso. Era il giorno del loro compleanno, avevano appena compiuto quattro e mai ne avrebbero compiuti cinque. Aveva fatto la cosa giusta, avevano dovuto pagare. Marta, Lucia e Alice avevano ricevuto quello che si meritavano per avergli mentito, per avergli rovinato la vita. Ma non era finita qui, c’era ancora qualcuno con cui doveva saldare i conti. Non si sarebbe fermato finché non l’avrebbe trovato e messo fine alla sua misera vita. Gli omicidi che aveva compiuto quel giorno erano stati fatti d’istinto, il prossimo l’avrebbe progettato nei minimi particolari.
Prima, però, doveva preoccuparsi di non essere preso. Analizzò la situazione: la casa era in fiamme, quindi avrebbe distrutto i corpi e cancellato tutte le prove che poteva aver lasciato. L’arma del delitto era rimasta lì, anche se l’avessero trovata e riconosciuta come tale non avrebbero trovato le sue impronte. Avrebbero potuto credere nella sua morte ?  No, erano rimaste solo le sue scarpe, non avevano un quarto corpo. Poteva fingere di essere fuggito dall’incendio accidentale che era scoppiato, ma come avrebbe giustificato gli abiti sporchi di sangue ? Doveva trovare il modo di liberarsene. La sua scomparsa avrebbe di sicuro attirato le attenzioni degli inquirenti, lo sapeva, ma se voleva organizzare un piano non poteva avere tra i piedi la polizia. Meglio rimanere nascosto. Per muoversi doveva trovare prima possibile un mezzo di trasporto: i mezzi pubblici non erano nemmeno da considerare, ma la sua macchina di sicuro era rimasta distrutta, l’unica soluzione che aveva era rubarne una. Non doveva essere troppo complicato. Marco gettò un’occhiata all’orologio al polso che segnava le venti. Era troppo stanco per poter camminare ancora, la casa più vicina alla sua villa distava un chilometro se non di più e lui non aveva le forze nemmeno per alzarsi in piedi. Avrebbe rimandato tutto al giorno dopo, si sarebbe svegliato all’alba e avrebbe agito indisturbato. 
Si puntellò sui gomiti, sollevandosi a fatica, si mise a sedere con le gambe al petto. Immerse il volto nelle mani e un puzzo gli riempì le narici. Allontanò il viso, arricciando il naso. Sangue. Cominciava a dargli non poco fastidio. Non aveva acqua con sé e di fontanelle non ce n’erano in giro. Appoggiò il pollice sulla lingua e un sapore acre gli arrivò alle papille gustative. Le persone dicono che il sangue ha un sapore ferroso e Marco dovette ammettere che era vero. Marco sapeva bene il perché, essendo medico, ma non poté non pensare che, tralasciando la spiegazione scientifica, ci potesse essere un altro motivo. Tempo addietro l’uomo per uccidere usava le armi di ferro, non conoscendo altri metalli. Ma per uno strano caso del destino o per convenienza aveva continuato a usarlo anche in tempi più recenti, in cui le conoscenze nell’ambito era decisamente aumentate. Tra il sangue e il ferro c’era un legame strano, come se il ferro a furia di impregnarsi di tutto quel liquido rosso avesse cominciato a lasciargli una parte di sé. Come per perseguitare l’uomo e ricordargli costantemente il male commesso. Marco scosse la testa: che pensieri sciocchi gli stavano attraversando la mente. Eppure, disteso su un fianco sul terreno duro, non riuscì a togliersi dal palato quel gusto amaro né scrollarsi quella voglia di qualcosa di dolce che lenisse quel sapore di peccato.
   
 
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