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Autore: fuoritema    03/07/2014    3 recensioni
{69esimi Hunger Games; OCs; guerra; triste; un po' introspettiva}
***
Camminò a ritroso ancora e ancora, gli occhi aperti come per captare ogni singolo cambiamento del paesaggio, ma il fantasma continuava a incombere su di lui. Era alto quanto bastava per farlo sentire inquieto, perché ricordava – e ne era certo – che Volpe fosse ormai più bassa di lui. Forse la morte rendeva più alti o forse la sua mente gli stava giocando dei brutti scherzi. Il ragazzo strizzò gli occhi nuovamente, convenendo che la seconda ipotesi era la più probabile se non voleva cadere nel sovrannaturale.
"I fantasmi non esistono, idiota."
E i fantasmi non esistevano fino a prova contraria, ma gli Strateghi sì: tra tutte le diavolerie che potevano aver inventato per terrorizzare i Tributi, quella poteva benissimo essere la vincente.
***
I 68esimi Hunger Games visti da Tributi di distretti totalmente diversi. Una delle edizioni dimenticate, una delle edizioni che hanno troncato la vita a ventitré giovani. Perché ci sono giochi a cui è meglio non partecipare.
Mai.
Genere: Avventura, Guerra, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Finnick Odair, Presidente Snow, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'We are not iron children, our shields are shattered glass '
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Banner stupenderrimo fatto da ThanatoseHypnos, che ringrazio molto <3

 

(X)
Il vento era dolce e profumava di casa.
 
 


La piazza era piena di gente, mentre India rimaneva ferma sul muretto, ad aspettare. Non erano cose che una bambina avrebbe dovuto osservare, e invece era lì, davanti al palo delle esecuzioni. Il ragazzo che avevano beccato a rubare quella volta si trovava ancora per terra, svenuto.
Si era stretta le mani talmente forse da farsi diventare le nocche bianche, pur di non lasciarsi scappare neppure il più piccolo sospiro. Non aveva abbassato lo sguardo, rimanendo immobile, schiacciata dai corpi della massa di persone che si era riunita in piazza – o meglio – che vi era stata costretta. Ormai la gente era abituata a scene del genere, e rientrava nella normalità della ragazzina notare, con orrore, che nessuno alzava più un dito per impedirle. Era pericoloso e la passività era la salvezza. Semplice. 
Non potevi far nulla per impedire tutto ciò. E India sapeva che, non appena avesse avuto l’età giusta, sarebbe stata quella la punizione per essere stata beccata a rubare. Lo sapeva e non ne aveva più paura, ormai.
Continuò ad osservare la scena, sforzandosi di non lasciar scappare neppure un’esclamazione di orrore. I Pacificatori sovrastavano gli abitanti con il bianco delle loro divise, impedendo ogni sorta d’intervento. “Chissà cosa pensano” si chiese India tra sé e sé, fissando negli occhi il più giovane di loro. Aveva gli occhi vacui, di un azzurro tagliente come la lama di una spada, eppure pareva sul punto di cadere per terra. Era fragile: forse per quello aveva deciso di fare il Pacificatore. Per sentirsi forte.
Un urlo ruppe nuovamente la quiete del distretto, l’ultimo della lunga serie. Poi gli uomini se ne andarono, e la gente si avvicinò al colpevole, riverso per terra.
India lanciò una mela per aria, nascondendosi dietro al muro. «Una bambina non dovrebbe vedere certe cose» sbottò un uomo davanti a lei, robusto e dalla pelle ancora più scura della sua.
«Posso eccome. Non ci sono regole su questo, Chaff»
«Certe regole si sottintendono.» Il suo fiato puzzava tremendamente di alcool come le parole, impastate, impregnate di rhum, probabilmente.
«Non ho regole, io» rispose la bambina, lasciando dondolare una sua gamba giù dal muretto. 
«Dovresti sparire» le sussurrò l’altro, alzando leggermente la testa. India fece una smorfia, per poi mettere la testa dietro alle tegole di una casa, facendo cadere una bottiglia in bilico sul muro. 
«Dannata ragazzina.» 
E la dannata ragazzina sorrise.
 

 
«Ciao, undici.»
Il ragazzo del primo distretto la guardava dall’alto, carezzando leggermente la punta della sua spada. L’aveva vista scendere, seguita e catturata senza che lei se ne accorgesse minimamente. India indietreggiò, maledicendosi. Era bastato un rametto a tradirla. Un sottile, innevato, rametto, e ora la sua vita era nelle mani di quel ragazzo.
«Cos’è? Non saluti?»
«Ciao, Golia» disse India, indietreggiando inconsciamente. C’era qualcosa nel suo sguardo che la spaventava: i suoi occhi la osservavano, captando ogni singolo movimento. Il suo muoversi la metteva in allerta. Golia camminava lento, come assaporando la paura della sua vittima, senza però attaccare. Aveva già visto quei movimenti, quella apparente calma, quel modo freddo e distaccato di osservarla, soppesare il suo sguardo in attesa di decidere che fare.
«Che c’è, undici? Hai paura?» sussurrò il ragazzo, posando appena la mano sul suo collo. Aveva lasciato la sua spada per terra, con lo zaino.
«No.» La voce del giovane si sentì appena, mormorata dagli alberi accanto a lei. E, mentre stringeva il coltello alla sua cintura, lo fissò negli occhi. Non aveva mai avuto paura di niente, eppure Golia la inquietava. Sembrava averla presa di mira durante l’addestramento. India indietreggiò ancora e ancora, andando a sbattere con la schiena contro il tronco.
«Peccato. Sai… Se piangi, ti potrei graziare con una morte veloce» sibilò il ragazzo. I suoi occhi luccicavano nel buio.
«Mi sembra un po’ un peccato sprecare una colombella come te» aggiunse, prendendole il mento tra le mani e stringendolo. La ragazza sussultò, ma evitò di muoversi, stringendo forte i denti per non emettere il benché minimo suono. Non aveva paura di lui: era convinta che non le avrebbe fatto nulla. Non in quel momento, almeno. Aveva visto spesso quello sguardo, quei modi; Golia non le sembrava interessato a trafiggerla con la sua spada. Voleva fare altro, e quell’altro non era proporle un’alleanza.
India strinse gli occhi alla conferma dei suoi presentimenti: la mano del ragazzo, che le accarezzava dolcemente il viso, passò le dita dal suo collo fino al seno. E lì si era fermata, mentre Golia sorrideva leggermente.
«Allora? Niente lacrime?» le chiese, sillabando le parole con cura, come per assaporarle sulla punta della lingua. India imprecò tra i denti. Un ululato ruppe la calma dell’Arena, ma nessuno dei due ci fece caso.
«Al massimo piangi tu.» Il Tributo dell’undici prese il coltello che era a terra con il piede e, lanciatolo con un gesto fulmineo in aria, lo riprese con la mano. Golia ebbe appena il tempo per accorgersi che la lama gli aveva infilzato la gamba, prima di cadere per terra.
Avrebbe giurato di averla vista sorridere nell’oscurità della notte, dopo avergli mormorato un ironico: « e possa la Fortuna sempre essere a tuo favore.»
 
 

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Lo stridore delle ruote sulle rotaie si sentiva anche dentro le carrozze. Insopportabile e persistente. La accompagnava da quando era salita lì, troppo stravolta per versare anche una sola lacrima e per parlare con qualcuno. Ci era riuscito solo Finnick, a calmarla, mentre l’altro Mentore badava al suo compagno.
Poi, però, Neth aveva deciso di ritirarsi nella sua stanza, per pensare un po’ a sé e cercare di piangere. Non ci era riuscita, anche se forse l’avrebbe fatta sentire meglio, e aveva iniziato a fissare una delle tante incanalature tra le piastrelle turchesi che le ricordavano immancabilmente il mare. Finnick le aveva detto di lasciarsi alle spalle i ricordi del distretto ma lei non ci riusciva, e tutto quell’azzurro le dava solo la triste sensazione dell’infrangersi delle onde sugli scogli. Più cercava di reagire più sentiva un vuoto nel petto.
Decise di fare un giro per le carrozze non sapendo bene dove andare, con la stessa camicia che aveva indossato per la Mietitura. Katryn, la sua accompagnatrice, le lanciò un’occhiataccia, ma Mahinete si limitò ad arrotolarsi ancora di più le maniche, facendole una linguaccia subito dopo averla vista girarsi. Non le importava nulla delle espressioni sconcertate della donna al solo poggiare gli occhi sui suoi vestiti.
Avanzò senza fermarsi neppure per guardare le varie sale, voleva arrivare in fondo per vedere l’azzurro del cielo e lasciarsi portare un po’ dalla nostalgia. Vedere il suo distretto, anche da lontano, sentire il vento sferzarle la faccia l’avrebbe fatta sentire meglio, ne era certa.
 
«Anche tu a prendere un po’ d’aria?» 
Neth fece un sorrisino guardando il vincitore della sessantottesima edizione.  Aveva i capelli leggermente scompigliati, di un rosso acceso, e una sigaretta tra le labbra da cui usciva una sottile striscia di fumo grigio. Dato che la ragazzina non accennava a parlare, impietrita sulla porta per rientrare nella carrozza, il rosso continuò: «non hai voglia di dire nulla, eh? Siediti se vuoi.» Scostò una sedia con il piede. Mahinete scosse la testa, imbarazzata. 
«Un pesce ti ha mangiato la lingua? Non mordo mica!» esclamò sorridendo, «abbiamo anche la stessa camicia! E non credo di essere io a indossare qualcosa da donna.»
La ragazzina fece spallucce, «è di mio fratello, però la uso tutti i giorni, a lavoro. Ehm… Connor.»
Il giovane le lanciò un’occhiataccia, «solo Conn» si passò una mano tra i capelli, mentre apriva la bocca per espirare l’ennesima nuvoletta grigia. 
«Va bene, Conn. Allora… posso farti una domanda? - il ragazzo annuì – Hazard è un presuntuoso, eh?» chiese infine con un’espressione sbarazzina. Il rosso si alzò di botto vedendo arrivare Katryn trafelata, aveva infilzato tra i ricci blu della parrucca un coltello da dolce.
«Mi ha detto di andare a fanculo! A fanculo, capisci Connor? Bada al tuo Tributo!» il diciassettenne roteò gli occhi esasperato da quella “r” finale che detestava tanto mentre Mahinete soffocava una risata, incenerita dallo sguardo della donna. Conn seguì la capitolina all’interno, sbuffando per aver dovuto spegnere la sigaretta, ma all’ultimo secondo la ragazzina lo fermò tenendolo per un lembo della camicia.
«Ti lascerai sgridare per il disonorevole comportamento di quel cretino?» gli chiese in tono canzonatorio. Il rosso le si parò davanti, passandole goffo una mano tra i capelli bianchi, «niente più domande, ok?» 
Neth mascherò l’ennesima risata con un colpo di tosse.
 
 
Non le piaceva l’atmosfera che regnava nell’Arena da quella mattina.
Era troppo calma, troppo irreale per essere vera. Il cannone sparava solo di rado e il freddo si stava insinuando dentro di lei. Lo aveva imparato a conoscere, in quei giorni. Aveva capito che bruciava dall’interno, finché il tuo corpo non diventava gelato e tu perdevi la battaglia contro di lui. Allora ti addormentavi di colpo, perché era più facile chiudere gli occhi che lottare. E morivi. Era talmente semplice lasciarsi andare in quel modo, eppure così letale.
Mahinete si rannicchiò vicino al suo alleato. Lui era ancora caldo, nonostante tutto. «Raika, ho freddo» mormorò, seppellendo la testa nella giacca del ragazzo che le scosse rozzamente i capelli bianchi. Raika passò le dita sulle ciocche argentate, carezzandole appena. Alcune erano di un grigio sbiadito, ricordo di quel tempo – neppure troppo lontano - in cui i preparatori le avevano tinte e avevano badato all’appariscenza di quella piccola Sirena. Altre, invece, erano bianche, di un colore identico a quello della neve.
Il Tributo del nove osservò la sua pelle, resa abbronzata dal sole dei campi, con quella della sua alleata, pallida come la cera. Mahinete stava tremando tra le sue braccia, scossa da tremiti sempre più forti. La strinse a sé, pregando che riuscisse a resistere ancora per un po’ di tempo.
C’era la nebbia, dietro agli alberi. Una nebbiolina fitta che pareva avanzare verso di loro. Si poteva tagliare con il coltello, tanto era pesante e notabile. Il verde non si vedeva quasi più, coperto da quella valanga di bianco. Raika odiava il bianco: era l’unico colore che riusciva a metterlo in ansia, troppo calmo, troppo dissonante con il rosso del sangue che aveva bagnato la neve. Non c’era alcun modo di vedere oltre quella copertura chiara, anche se avrebbe dovuto essere quasi trasparente. Quella non era nebbia normale, era nebbia degli Hunger Games e tutto poteva essere tranne innocua.
Il ragazzo scosse la sua alleata, passandole le mani nuovamente tra i capelli. «Neth… Andiamo» sbottò prendendo lo zaino con un gesto fulmineo e tirando l’alleata per la mano. La delicatezza che fino ad allora aveva utilizzato per riscaldare la ragazzina era scomparsa, lasciando il posto ad una sensazione di pericolo.
«Perché?» Mahinete si stiracchiò leggermente e lasciò che il suo corpo ricadesse su quello dell’alleato. «Ho sonno» mormorò allo sbuffare di Raika.
«La nebbia» rispose spiccio, «se vuoi morire, accomodati pure.»
«Lasciami in pace.»
«Ai suoi ordini, principessa.» Raika abbozzò un inchino, stendendo le labbra in un sorriso tirato. «Sua altezza deve dormire?» chiese ancora.
«Sì, e gradirei che non mi disturbassi» sbottò la ragazzina del quattro, coprendosi alla bell’e meglio con la coperta che aveva portato via ai Favoriti. Sbuffò una, due, tre volte, prima di aprire gli occhi e osservare il suo alleato ritto in piedi.
Raika guardò la nebbia avvicinarsi a sé e indietreggiò all’istante.
«Merda» disse con tono strascicato, poi trascinò la ragazzina per un braccio. «Corri» aggiunse, ma, vedendo che Mahinete non si muoveva, rimase fermo.
«Non è velenosa, nove.»
«Non è velenosa, nove» ripeté, imitando il tono saccente della sua alleata. Osservò la nebbia circondarli, stupito di non sentire dolore al tocco. Ricordava che gli Strateghi l’avevano già usata prima, eppure la sua mente non elaborava l’edizione. Strano: lui ricordava sempre tutto. Attorno a lui e la sua alleata si stava formando una nube bianca, pesante.
Raika vide un riflesso dietro ad un albero, ma non ci fece caso, rimanendo fermo a guardare verso il punto dove aveva notato un movimento. Aveva la strana sensazione di essere attratto da quella situazione come quando appiccava un incendio, eppure non lo esaltava. Mahinete gli sussurrò qualcosa nell’orecchio e lui si girò verso di lei.
«Che c’è?» chiese passandosi una mano tra i capelli.
«Non ho detto niente.»
Raika sbatté più volta le palpebre: cercò di distogliere lo sguardo dalla nebbia, non riuscendoci. Riconobbe i passi di una leggerezza quasi felina, il ticchettare di delle dita sul legno. E, nel naso, poteva sentire l’odore di terriccio e grano che emanava il deposito del distretto nove. Sentì la testa che gli girava, vedendosi davanti l’immagine di una ragazza alta poco meno di lui.
Gli sorrideva.
 
 


 Angolino dell’Autrice:
 
Eccomi qui, con il nuovo capitolo di cui non vado per niente fiera… Già, la parte di India non mi convince affatto, eppure la dovevo mettere. Qui Golia si lascia un po’ andare, e sì: avete inteso bene. La sua intenzione era “divertircisi” un po’ prima di ammazzarla, perché questo, contrariamente al torturare un Tributo piccolo ed indifeso, non gli dà l’idea di essere disonorevole. E’ strano, Golia: non lo capisco neppure io e questo la dice lunga.
Passando a Mahinete, nel flashback è presente un personaggio che NON è mio perché l’ho preso in prestito da “Alaska__” (che ringrazio molto). E’ il vincitore dei 68esimi Hunger Games nella long “Semplici pedine dei loro giochi”, si chiama Connor Likin ed è un amorino <3 Lo dovevo usare assolutamente, insomma. Lui è il secondo mentore di Neth, con Finnick, mentre a Hazard ci aveva pensato Roman (altro OC di Alaska).
Fate molta attenzione a quello che ha visto Raika, perché da questo momento le cose si complicheranno. La nebbia è una trappola mortale, e la figura si rivelerà di essere qualcuno proveniente dal suo ignoto passato. Per ora la conosce solo Alaska, quella ragazza, ma nel prossimo capitolo sicuramente ne capirete di più. *sogghigna*
Ora me ne vado a finire il capitolo 13, che è veramente meglio perché non vedo l’ora di finire questa storia per iniziarne un’altra, stavolta sui 12esimi Giochi.
Ciao a tutti :3
 
Talking Cricket
 
 
LINK UTILI(?)
 
  • The Capitol: un gruppo aperto a tutti gli autori/lettori di fanfiction su Hunger Games dove ci sono tante iniziative carinissime <3
  • Penna d’acquerello: altro gruppo facebook, su storie di tutti i generi, anche questo carino ma che deve crescere in membri :3
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Dall’alto la forma dell’Arena era più chiara: si riuscivano perfino a vedere i cerchi concentrici in cui era divisa l’Arena, ognuno delimitato da almeno un paio di grotte, gli alberi che si irradiavano dalla Cornucopia fino alla fine del campo di forza.
India sospirò, sporgendo il viso verso nord, dove supponeva non ci fosse più nessuno. Non vedeva altri Tributi da un giorno, ormai, e quella non era una buona notizia. Aveva fatto due più due, arrivando alla conclusione che qualcosa li stava riunendo, per combattersi. Aveva visto un’edizione in cui i ragazzi erano stati costretti a uccidersi l’un l’altro, mentre un campo di forza li teneva ancorati nella stessa radura. Era stata un’edizione disastrosa, o almeno così ricordava.
La ragazza dell’undici scosse la testa, ormai appesantita dal sonno. Il freddo non l’aiutava per niente: ogni secondo poteva esserle fatale, perché addormentarsi in quel momento sarebbe stato come decretare la propria fine. Troppo gelo uguale morte imminente.
Non era piacevole lasciarsi trasportare da quei pensieri, ma la giovane sapeva di dover tenere in moto il cervello. Gli ingranaggi dovevano muoversi e aiutarla a trovare una soluzione all’enigma dell’Arena. Ormai poteva dire di conoscere bene quell’ambiente. L’incontro ravvicinato con il Minotauro l’aveva aiutata a ragionare, a capire come fossero effettivamente disposte le gallerie. “L’Arena sotterranea”, l’aveva soprannominata, osservando il lento ghiacciarsi del lago sotto di sé. Il freddo aumentava e diminuiva a sprazzi, evidentemente per mano degli Strateghi, e portava dei grandi cambiamenti a tutto ciò che la circondava.
“L’inverno sta diventando più rigido” pensò, seguendo con la mano i solchi nella corteccia. Arrivava alla fine del ramo e ricominciava, senza mai fermarsi: la aiutava a non congelare. Chiuse gli occhi per un secondo, visualizzando l’Arena davanti a sé: le strade innevate che si riunivano in un punto centrale, il lago sempre più solido, il freddo che stava aumentando senza sosta. Sorrise leggermente.
Nulla avrebbe potuto essere più logico.
 

 
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«Dove cazzo è finito Hazard?»
«Non ne ho idea, ma, come puoi vedere, non è qui.» Sigma allargò le braccia in un gesto di scherno, sorridendo al ragazzo a cui si era rivolta. «Si starà slinguazzando con la sua amichetta» aggiunse, cercando in Hurricane uno sguardo d’intesa. Non trovandolo, si mise a tormentarsi le pellicine della mano destra, evidentemente seccata ed annoiata.
«Probabile - sbottò Golia e, con grande calma, si andò ad appoggiare ad un albero - ma la cosa non ci riguarda.»
«Certo che ci riguarda, idiota.»
«Che hai detto?»
«Idiota» rispose la sua compagna di distretto, staccando bene le lettere l’una dall’altra. Intanto Hurricane continuava a guardarli, ben contento di non essere chiamato in causa: si uccidessero da soli, gli avrebbero fatto solo un piacere. Non amava le discussioni e gli sguardi che si stavano lanciando i suoi alleati – sorrise – non promettevano nulla di buono. Meglio per lui, veramente meglio per lui. Meno persone da ammazzare, più probabilità di vittoria. Si mise a contare i Tributi mancanti mentre si puliva le mani dal sangue della bambina del dodici.
I miei colleghi, la piccola del sette, sei e dieci, la puttanella dell’undici, il demone e Frost.
Sorrise inconsciamente all’ultima aggiunta alla lista, pensando che quella ragazzina aveva fatto una buona scelta a decidere di scappare. L’avrebbero uccisa di sicuro, in caso contrario, e lui non l’avrebbe mai fatto. Mai ammazzare bambini. Aveva cercato fin da subito di preservare quella marmocchia dall’orrore dell’Arena, eppure aveva fallito miseramente. Sperava solo che si fosse alleata con qualcuno di intelligente e che non si facesse vedere da loro.
«Il bovaro. Sta dall’altro lato del lago, con il biondino.» Hurricane si girò di scatto, incontrando gli occhi glaciali di Alysha.
«Il coniglio, vorresti forse dire? Se ne scapperà appena faremo un passo. Certo al cento per cento. Mi ha fuggito durante tutto l’Addestramento – disse Golia, scrocchiandosi rumorosamente le nocche – Dov’è il tuo amico?»
La ragazza fece uno strano sorriso e prese ad intonare una delle sue solite canzoni sugli Hunger Games, evitando di rispondere alla domanda. Tra gli occhi le passò il suo solito lampo maligno.
Sigma scrollò le spalle e, caricandosi lo zaino sulla schiena insieme alla sua amata falce, fece un passo verso la foresta.
«Acqua» sbuffò la bionda, poi si passò la lingua sulle labbra.
«Che?»
«Acqua, acquazzone…»
La femmina dell’uno maledisse mentalmente la sua alleata, chiedendosi il significato della sua risposta. «Non fare la cogliona, due.» E Hurricane pregò che la sua compagna di distretto stesse zitta.
«Acqua» ribatté Alysha con più forza, poi, vedendo che Golia stava venendo verso di lei, esclamò felice: «fuochino.»
«Cosa cazzo va blaterando?»
«Il gioco!» rispose Hurricane con uno scatto e oltrepassò Alysha. «Acqua è lontano, fuoco è vicino… Dobbiamo andare di là» spiegò ai suoi alleati, mentre Sigma sbuffava contrariata. Gli fece cenno di seguirlo verso il lago, sorridendo di quel lampo di genio. Si fermò poco dopo per riprendere fiato.
«Toh… Guarda: i due coglioni.» esclamò Golia ad alta voce ed indicò le figure che si stavano muovendo nell’ombra, appena dietro agli alberi.
«Prima, però, osserverei quello.» Sigma gli guidò lo sguardo verso destra, fino a fargli notare il corpo di Hazard, trafitto da una freccia. E i Favoriti si girarono verso la bionda, notando il sorriso che le aveva piegato le sue labbra rosee.
 
 


 Angolino dell’Autrice:
 
Questa volta sono più che di fretta, anche perché quel cretino del mio computer ha annullato le modifiche fatte al capitolo per ben quattro volte e, l’ultima, ero talmente arrabbiata che mi meraviglio di non averlo spaccato in due .-. Non posso scrivere più di tanto ma ci tengo ad informarvi che fino all’uno Luglio starò in Grecia e non potrò portarmi il computer, ergo… Aggiornerò solo allo scadere(?) del viaggio con mio padre. Mi scuso per l’inconveniente, davvero. Mi chiedo anche perché l’ispirazione mi venga sempre nei momenti meno opportuni, tutto qui.
Faccio il punto della situazione per quanto riguarda i Tributi. Come si è notato nello scorso capitolo, delle alleanze si sono formate e dureranno finché la mia mente malata non deciderà di farle finire, quindi tenetele a mente. Le condizioni dell’Arena sono fin troppo stabili, come giustamente ha notato India. E sì, nelle pareti è nascosto qualcosa. Hazard credo si sia capito da chi è stato ucciso, e sono tanto contenta di questo fatto perché l’ha deciso mio cugino quando, a Febbraio, ho iniziato a strutturare la long. Ora vi lascio una lista dei morti, per soddisfare il mio sadismo.
 
MORTI tanto per far cominciare le scommesse su chi vincerà
 
D1: Nessuno.
D2: Nicht.
D3: Entrambi.
D4: Hazard.
D5: Tutti e due.
D6: Solo la femmina.
D7: Thor.
D8: Entrambi.
D9: Solo la ragazza.
D10: Solo la giovine(?)
D11: Colin.
D12: Ora entrambi.
 
Talking Cricket *saluta con la manina*
PS: Tornerò il più presto possibile. Lo giuro, lo giuro. Io credo nelle fate (film errato)


 
 
  
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