Vogliono
trasformare anche Finnick in un leader ribelle, ma
prima devono riuscire a farlo rimanere sveglio per più di cinque minuti.
Persino quando è cosciente, devi ripetergli qualsiasi cosa tre volte per
arrivare al suo cervello. I medici dicono che è colpa dello shock elettrico che
ha ricevuto nell’Arena, ma io so che la cosa è molto più complicata di così. So
che Finnick non può focalizzarsi su nulla del 13
perché sta duramente cercando di capire cosa sta accadendo ad Annie a Capitol City, la ragazza pazza dal suo distretto che è
l’unica persona al mondo che lui ami.
[…]
Lui, almeno, ha qualche idea di quel che sto passando. E richiede troppe
energie essere arrabbiati con qualcuno che piange così tanto.
Mockingjay, Susan Collins.
PARTE I
Just leave me your stardust to
remember you by
CAPITOLO
UNO.
Mi
toccano e mi spogliano, infilandomi qualcosa fatto con del tessuto leggero.
Così leggero che sento freddo e ogni pelo che ho sul corpo si drizza in piedi,
attorcigliandosi alla veste. La mia schiena incontra un materassino in cui mi
sembra di sprofondare, batto i denti e il ghiaccio inizia a ricoprire la punta
delle dita e delle orecchie e del naso.
Intorno
a me è un vortice di sensazioni e movimenti, ma non riesco ad aprire gli occhi
e dentro sento un fuoco che esplode e mangia qualsiasi cosa. Nasce dallo
stomaco e mi prende ogni organo, ogni nervo. Sento male in ogni brandello di
pelle e resto immobile per paura che si stacchi. Nella mia testa c’è una
tempesta e ogni neurone è colpito da un fulmine, ogni fitta mi porta sempre più
verso il basso.
All’improvviso
sono immerso nell’acqua fredda che mi congela ed entra nei polmoni,
soffocandomi, riempiendoli come se fossero delle spugne. Divento d’acqua anche
io e mi addormento.
Il
mio ultimo pensiero va a lei.
Il volto di Snow
è filmato in primo piano mentre le sue parole rimbombano in casa.
Si ritorna nell’Arena.
Annie si porta le mani alle orecchie,
piegando le dita per stringerne i padiglioni – come se volesse strapparle. Le
ha sentite, le ha sentite così bene che le sono arrivate al cuore e la stanno
distruggendo dall’interno. Allungo le braccia per afferrarla, trascinandola
sulle mie gambe mentre tutto il suo corpo trema.
«Annie, Annie, ascoltami» la imploro in
un sussurro, facendo scivolare la mano sui suoi capelli rovinati dal sale del
mare. Lei mugola e piange e si stringe le orecchie. Allungo le dita per coprire
le sue, sfilandole una alla volta dai padiglioni, Annie afferra i miei pollici
e la sua stretta scende fino ai polsi.
Le sue lacrime sono coltelli di ghiaccio
sulle spalle, i suoi lamenti sono le sirene che piangono e muoiono.
«Va tutto bene, Annie» le mormoro,
lasciando che mi stringa: meglio io che lei. Appoggio le mani sulle sue
orecchie, ma delicatamente, imitando la forma cava delle conchiglie. «Va tutto
bene» le ripeto all’infinito, muovendomi
a destra e a sinistra, cullandola.
«Moriremo tutti, Finnick»
mi dice, le sue parole sono ferro e fuoco al cuore. Annie ha le crepe sul corpo
come un vaso rotto e mal ricomposto – potrebbe spezzarsi da un momento
all’altro e io non voglio che succeda. «Moriremo tutti».
Riemergo
dal lago in cui sono stato buttato senza muovere un muscolo. Sono ancora
paralizzato in quella morsa che era il corpo di Annie avvolto dal mio, freddo e
vuoto. Piangeva e tremava e non potevo fare nulla per calmarla se non parlarle,
sussurrarle il suo nome e dirle che sarebbe andato tutto bene. Che non le
sarebbe successo nulla per quei Settantacinquesimi Hunger
Games.
Mentivo.
«Sai
dove ti trovi?» la voce arriva lontana, il mugolio di un fantasma. «Finnick, sei al 13» mi dicono, e lo ripetono ancora una,
due, tre volte. Ogni sillaba è una martellata al petto che mi impedisce di
parlare. Le parole mi si bloccano in gola, le palpebre rimangono serrate – non
posso muovermi, non ci riesco e non voglio nemmeno. Ho ancora Annie tra le
braccia e le mie attenzioni sono tutte
rivolte a lei.
Va tutto bene Annie, mi ascolti? Va
tutto bene. Andrà tutto bene.
Il
materasso sotto di me cigola quando muovo le gambe, premo le piante dei piedi
sul lenzuolo e il dolore attraversa ogni nervo.
Respiro
piano, stringo la stoffa sotto di me, cerco di rilassare la mente. Voglio
ritornare giù – nei miei sogni, nei miei pensieri. Voglio ritornare a cullarla
per farla ritornare serena. Voglio ritornare con lei in spiaggia. In quel mare
che non è mai stato così tanto casa, con il ricordo del sale sulla lingua e i
suoi capelli tra le dita.
Annie. Muovo le labbra, piano, come se
la stessi chiamando a sé stessa, ma ogni sillaba mi graffia la gola, esce rotta
ed incomprensibile. Riesco a vedere le sue mani che premono sulle orecchie e la
mascella serrata. Riesco a vederla mentre trattiene il respiro perché non vuole
più avere nulla a che fare con il mondo. Riesco a vedere le ciglia che sfiorano
le guance rosse dallo sforzo di stare in apnea.
Annie. La chiamo perché voglio
abbracciarla, sentirla contro il mio corpo, rispecchiarmi nel verde dei suoi
occhi ed intrecciare i fiori ai suoi capelli, anche se non sono mai stato bravo
a farlo. Il suo ricordo si proietta dietro le mie palpebre, le sue labbra che
si stirano in quello che per lei – per
noi – è un sorriso. Le sue mani agitate che tamburellano sulle ginocchia e
poi si fermano ore intere, prima di intrecciarsi alle mie per il resto della
giornata. Annie, Annie, Annie.
La
sua immagine si fa sbiadita, i contorni si sciolgono e il rame dei suoi capelli
cancella tutto.
«Niente
da fare» mormora qualcuno. Se ne vanno, lasciandosi dietro una scia di passi
che liberano il posto alle mie lacrime.
«Finnick».
«Sono
al 13» dico. Sono al 13 – non riesco a togliermelo dalla testa: sono al
Distretto 13, e sapevo sarei venuto qui. Sono al distretto 13 ed Annie non c’è.
«Era
la domanda prima, Finnick» sospira e si passa una
mano tra i capelli corti e scuri. Il suo volto è un groviglio indistinto di
linee e sfumature di colori.
«Sono
al Distretto 13 ed Annie non c’è», e diventa tutto reale: sento il freddo e il
buio stringermi, schiacciarmi la gabbia toracica per impedire al mio cuore di
battere. Serro le labbra, abbasso le palpebre e metto le mani sulle orecchie –
come fa lei. Le lacrime mi rigano le guance, scavandosi fossi profondi come il
buco che ho dentro, che Annie dovrebbe riempire ma che non fa altro che
allargarsi, ora che lei non è qui. Ho i brividi per colpa di un vento che non
esiste. È una voragine di ricordi che mi sovrastano come un’onda troppo alta,
indomabile.
Mi
porta in basso. Tocco il fondale di sabbia e roccia e sento i graffi sulle
braccia bruciare.
Il
suo nome si ripete all’infinito nei miei pensieri mentre le mie mani quasi
scavano nella pelle. Mi gratto le orecchie fino a sentire il dolore che
raggiunge le mie tempie e mi annebbia il cervello.
Voci
si confondono ad altre voci e alle molle del materasso, le mie mani si
allontanano contro la mia volontà dal mio viso e si premono sul lenzuolo,
tenute ferme da dita forti e sconosciute. Le mie ossa si muovono e i nervi si
spezzano assieme ai muscoli stanchi, ridotti a brandelli di carne. Sono
bloccato e i sogni mi scivolano in vena sottoforma di sedativo.
Vado
a pezzi e mi addormento in un mare di lacrime, con il nome di Annie sulle
labbra e i graffi degli scogli sul corpo.
«Oggi è una bella giornata, non trovi?»
mi giro a guardarla, senza fare nessun movimento brusco. Annie ha i capelli più
arancioni del solito e la pelle che sembra bagnata da acqua dorata. Gli occhi
sono due smeraldi posti sopra una fiamma, tanto sono luminosi. Il sole bacia i
più belli e oggi ha deciso di dedicarsi solo a
lei.
Si stringe le ginocchia al petto, i
piedi sono affondati nella sabbia, le dita sono scomparse sotto questa. Osservo
ogni dettaglio del suo corpo: il mondo in cui le mani sono aggrappate alle
rotule, la curva delle labbra, lo sbattere delle palpebre. Tutto in Annie
racconta una storia che ho piacere a leggere ogni volta, ogni giorno.
Mi tolgo la camicia e gliela poso sulle
braccia. Si muove piano, come se si nascondesse – solo un gesto con le spalle,
avvicina le scapole come per aprirsi. Gli spigoli dei triangoli si muovono come
fossero delle ali. Annie sboccia come un fiore perché si sente protetta.
«È una bella giornata Finnick» mi risponde, non sposta lo sguardo dal mare né si
fa distrarre dai gabbiani che volano all’orizzonte. È una roccia, Annie. Uno
scoglio che si aggrappa con tutte le forze alla terra mentre il mare la bagna,
cercando di distruggerla.
La sua mano lascia libera il ginocchio e
si posa sulla rete che ci divide, rivolta verso l’alto. Intreccio le mie dita
alle sue e lascio che sia lei a decidere quanto forte debba essere la presa.
«Anche tu sei bella, oggi» continuo,
parlando piano perché nessuno possa sentirci. Voglio che le mie parole siano
solo sue, che siano importanti come io considero importanti quelle che lei mi
dice.
Ritorna a fissare il mare, immaginando
una barca o delle sirene o semplicemente il niente. Nei suoi occhi vedo
riflessi la paura e l’angoscia e tutti quei sentimenti che la colgono di
sorpresa nella notte, quando urla e mi cerca, abbracciandomi fino a farmi male.
Vedo anche me stesso e il mio amore nei suoi confronti – il mio esserle
accanto, tutti i giorni.
«Annie» la chiamo, piano, con un tono di
preghiera e di affetto, così gentile che non mi capacito mai che lo abbia
pronunciato io. Io, lo stesso Finnick che sparisce
per giorni sotto le lenzuola di un qualche abitante di Capitol
City – io, Finnick, che si sveglia nel buio perché un
tributo morto è venuto a tormentarlo. Io che non ho nemmeno trent’anni e ho già
perso tutta la mia vita, perché quel poco che mi era rimasta l’ho donata a lei.
Annie capisce e sposta la rete con
entrambe le mani, abbandonando per qualche secondo la mia. Si avvicina e lascia
che le circondi le spalle con un braccio, appoggiandosi nell’incavo del mio
collo.
Siamo come i gusci di una conchiglia e
le nostre vite dipendono una dall’altra, fondendosi in una perla che custodiamo
gelosamente.
«Stai con me stasera» mi dice, quando il
sole è sceso e il cielo è solo un alternarsi di viola e blu. Il fuoco davanti a
noi brilla e gioca sulla pelle delle gambe di Annie. Il suo stomaco brontola e
mi fa sorridere, ma lei sembra non farci caso. Mi allungo a lasciarle un bacio
tra i capelli.
«Sto con te sempre».
Ma
adesso io non sono con lei.
«Finnick».
Il
mio nome è sulla bocca di tutti, quando si avvicinano a me. Le loro parole mi
sfiorano, senza toccarmi davvero. Le loro voci sono lontane e i loro corpi
invisibili. I camici bianchi si confondono con le pareti e le lenzuola e se
chiudo le palpebre diventa tutto nero e sto bene così.
Nel
nero la distinguo chiaramente – come se fosse notte e stessimo sdraiati a
letto. Potrei allungare le mani per sfiorarle il braccio nudo, le curve del suo
corpo sono illuminate e rese visibili dalla luna.
Quello
che sento tra le mie dita è l’acciaio di un cucchiaio freddo e sulle mie gambe
vi è il peso morto di un vassoio. La minestra mi scalda le cosce oltre la
plastica e il cotone – l’odore che emana è debole ma abbastanza per essere
disgustoso. Serro le labbra prima di vomitare.
«Devi
mangiare qualcosa, Finnick».
Alzo
il cucchiaio e poi lo lascio cadere, senza forza nelle dita. Qualcuno lancia un
urlo, seguito da un «guarda cos’hai fatto!» - ma non posso guardare perché ho
gli occhi chiusi e non ho intenzioni di riaprirli. Viaggio lontano, accogliendo
Annie tra le mie braccia per proteggerla dal buio della notte che tenta di
farla affogare nei ricordi di un’Arena da cui non è ancora uscita. Il vassoio
sparisce dalle mie gambe e scivolo sotto il lenzuolo, girandomi di lato, mentre
le mie dita cercano invano Annie e trovano un cuscino troppo morbido.
Intono
a me parlano di alimentazione artificiale e sonniferi e deliri di cui non
ricordo.
Non
sono al Distretto 13.
Sono
nel letto con Annie e ci stiamo proteggendo. Come una conchiglia fa con la
propria perla.
NOTE D’AUTRICE
Non
ho molto da dire, in realtà. Perché alla fine quello che voglio scrivere sono
ringraziamenti e vanno in fondo. Tuttavia, mi sento di spiegare almeno la nascita
di questa long.
Sostanzialmente
sono stata convinta da persone di cui
si saprà il nome in un secondo momento a fare tutto un itinerario nella mente
di Finnick (e, sì, successivamente anche di Annie)
durante gli avvenimenti di Mockingjay. Questo per il
semplice motivo che di loro si parla poco e male, nel libro – e poi perché mi
piace farmi del male e riempirmi l’estate con nuovi progetti. Perché loro due?
Inizialmente l’idea era di fare Haymitch ed Effie post-MJ, ma a seguito di
una breve discussione (sempre con le persone di cui sopra), ho capito che forse
l’Odesta era la strada migliore per me. E insomma,
non hanno sbagliato.
Quindi
eccomi qui, a spiegarvi Finnick e la sua sofferenza
dal mio personalissimo punto di vista, seguendo più o meno gli avvenimenti di Mockingjay (alcuni saranno inventati di sana pianta per
motivi tecnici, ma la trama del libro rimarrà intatta). Di conseguenza, non ci
sarà nessuna what if? dove
vivono felici e contenti – ebbene sì, mio malgrado, Finnick
morirà lo stesso. Ma forse è giusto così.
La
long si dividerà in tre parti: MJ prima del ritorno di Annie, MJ dopo il
ritorno di Annie, un piccolo post-MJ dal punto di
vista di Annie.
Riguardo
al titolo, semplicemente, è stato il primo che mi è venuto in mente pensando a Finnick ed Annie. Ed è tratto dall’omonima canzone di Gregory and the Hawk
(in futuro vi sarà un piccolo tributo all’artista, nella fic)
e la si può considerare una sorta di soundtrack della storia.
I
capitoli saranno pubblicati circa uno a settimana, devo solo ricordarmi di
farlo.
A
breve e grazie per aver letto!
radioactive,
Un gentile ed
onesto grazie a:
Tutto il gruppo di Ultraviolenceh (♥)
con cui parlo sempre volentierissimo ogni giorno e mi trovo bene – cosa
complicata di questi tempi.
Singolarmente,
ringrazio Deb
per essere stata la prima con cui ho trattato l’argomento “fan fiction” che poi
si è evoluta in B&B; LaGattaImbronciata perché «Finnick per te è come Peeta
per me» e perché ha coniato il mio termine preferito (disagimantica). Le ringrazio anche come Il Pavone e la Piantana –
per Colors, per avermi permesso di fare i banner a
tutte le storie che pubblicano in quella serie e per la concessione di Boats and Birds,
che considero (forse con un po’ troppa modestia) una sorta di piccola costola
di Colors. Una figlia illegittima ecco, magari anche
un tributo al vostro lavoro.
In tutti i casi,
qualsiasi cosa io faccia spero che teniate presente che è “giustificato” (che
brutto termine in questo contesto) dalla massima
stima che ho verso di voi.
Gabryweasley,
che è diventata
la nostra mascotte, ma ci fa sempre urlare ed esultare quando si fa sentire.
Solo buone cose (e attenta quando fai gli esercizi sulla palla!) ♥
E ultima ma non
meno importante, yingsu,
con cui ho passato – fino ad ora – tre anni stupendi, a cui auguro tutto il
bene del mondo magari insieme a me, eh e che non abbandonerò mai,
neanche se dovessi fare una rivoluzione per ribaltare la politica dell’Italia e
tu fossi la ragazza pazza del mio
Distretto. Lo so che hai una sorta di indigestione di Hunger
Games, ma non posso fare a meno di citarti per tutto
il bene che mi fai.
Ovviamente, un
saluto va anche a tutto il gruppo di A
Panda piace fare le bolle d’assenzio, che mi tengono occupata (anche quando
non devono), magari qualcuna di voi si metterà a seguire questa fic, chissà ♥
I pezzi di Mockingjay che trovate ogni tanto all’inizio dei capitoli
sono tratti dalla traduzione del libro da parte del blog fromabooklover.blogspot.