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Autore: Quasar93    03/07/2014    4 recensioni
Questa fanfiction sarà una raccolta di missing moments tra X-men first class e X-man days of future past. Come ha reagito Charles quando Erik fu sospettato dell'assassinio di Kennedy, come ha gestito i mesi dopo cuba? E se il momento in cui si sono rivisti al pentagono quando insieme a Pietro e Logan sono andati a liberare Erik non fosse stata l'unica occasione di parlare per il telepate e il manipolatore di metalli?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Dottor Henry 'Hank' McCoy/Bestia, Erik Lehnsherr/Magneto
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!
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Eccomi di nuovo qui! Questo capitolo va di pari passo con quello precedente solo da un altro punto di vista. Non sarà sempre così, ma almeno per l'inizio volevo avere il punto di vista di Charles e quello di Erik divisi.
Ringrazio Silvia per l'idea dell'ospedale ( <3 ) e ne approfitto per dirvi che anche lei scrive molto bene e se volete altre belle storie su X-men qui la trovate come Magnetic_Ginger
Enjoy e se volete più angst, tranquilli, nei prossimi sarete esauditi:))))


Era passato quasi un anno da quando aveva lasciato Charles agonizzante tra le braccia di Moira.
Perché, perché non aveva voluto seguirlo e lottare per la loro razza? Sperava davvero che gli umani avrebbero accettato una convivenza pacifica fra le due specie? Come poteva essere così ingenuo?
Era stato bello giocare alla famiglia per un po’, a Villa Xavier, con i ragazzi e tutto il resto. E per un attimo si era davvero illuso di aver trovato la pace.
Ma non avevano fatto altro che ingannare loro stessi con un sogno irrealizzabile.
In fondo l’aveva sempre saputo.
La storia si sarebbe ripetuta, ne era certo ora più che mai, poteva già vedere i fantasmi del suo passato riemergere all’orizzonte.
Gli esseri umani non sarebbero mai stati pronti ad accettare qualcosa di diverso da loro, che fosse per religione, etnia o genetica.
Perché Charles non riusciva a capirlo?
La pace non era mai stata un’opzione, Erik lo sapeva bene e ne aveva avuto conferma sull’isola di Cuba, quando americani e russi non avevano esitato a puntargli contro tutti quei missili nucleari.
-Sono solo uomini che eseguono ordini- gli aveva detto Charles, quel giorno, e aveva ragione, aveva perfettamente ragione.
Ma Erik ne sapeva qualcosa di uomini che eseguono ordini, e aveva deciso che non si sarebbe rimesso a loro mai più.
E così aveva fatto la sua scelta.
Aveva deciso di lottare in prima linea per i suoi ideali, per la sua razza, per la sua Causa.
Non si sarebbe nascosto dietro quattro mura e predicato un’utopia irrealizzabile, avrebbe combattuto in prima persona e con tutte le sue forze se necessario.
Avrebbe voluto che Chalres fosse al suo fianco per lottare uniti come fratelli, proteggendosi a vicenda insieme coi ragazzi e tutti i mutanti che avressero voluto unirsi a loro.
E invece il telepate gli aveva voltato le spalle, lo aveva lasciato solo quando gli aveva detto che non lo sarebbe stato mai più, aveva infranto la promessa e tracciato un confine indelebile tra loro due.
 
Da quando se n’era andato da quella spiaggia aveva radunato quanti più mutanti possibili tra coloro che erano stanchi delle torture e delle discriminazioni inflittegli dagli umani per mettere insieme una resistenza mutante per la guerra che era certo, prima o poi, sarebbe stata combattuta per la supremazia di una razza sull’altra.
Charles aveva i suoi alunni nella sua scuola a lottare per la pace e lui aveva i ragazzi che nessuno voleva, cacciati e umiliati desiderosi solo di vendicarsi degli umani.
Il clima non era certo caloroso e accogliente come quello di villa Xavier, e probabilmente alla prima occasione qualcuno avrebbe cercato di ucciderlo per salire al comando, ma per ora Erik si accontentava ed inoltre era chiaramente il mutante di più alta classe e non aveva nulla da temere da nessuno di loro.
In quella che sarebbe diventata la Confraternita dei Mutanti Malvagi vigevano poche ma basilari regole, una delle quali era non parlare mai di Charles Xavier o della sua scuola, pena l’ira di Erik o, per come si faceva chiamare ora, di Magneto.
Nemici, ecco cos’erano diventati lui e Charles.
Erik si sforzava il più possibile di dimostrarsi, agli altri come a se stesso, completamente superiore e disinteressato a quanto accadeva al telepate. Ma, nonostante le apparenze, seguiva molto da vicino gli eventi della vita del suo vecchio amico.
Come quella sera di marzo, in cui aveva acceso la tv e aveva visto Charles annunciare l’inaugurazione ufficiale dell’istituto, mentre se ne stava seduto da solo, sul suo letto e col volume al minimo.
Si versò da bere e brindò simbolicamente a Charles, sorridendo amaramente mentre lo guardava apparire così soddisfatto e fiero di se, nonostante fosse confinato su quella sedie a rotelle.
Una fitta di senso di colpa gli fece rivoltare lo stomaco, spense immediatamente la tv e si domandò per l’ennesima volta perché ancora provasse pietà per quello sciocco telepate o per quale motivo seguisse quello che faceva.
Era per tenersi pronto, si rispondeva sempre, nel caso in cui Charles fosse divenuto un nemico troppo pericoloso, ma la verità era che in fondo in fondo, quando ogni sera dopo aver concluso le faccende della Confraternita ed essersi ritirato nella sua stanza e si guardava intorno e vedeva le pareti scure e scrostate, il letto degno di una prigione, non poteva far a meno di provare una punta di nostalgia per quei giorni felici e spensierati passati alla Maison, quando per la prima volta dopo quella che era sembrata un’eternità aveva finalmente trovato degli amici, quando Magneto era solo uno stupido nome inventato da una ragazzina e non lo pseudonimo di un criminale ricercato.
Criminale.
Non gli era mai piaciuta quella definizione.
Lui combatteva solo in nome di ciò che era giusto. Combatteva per la sua specie, per la sua famiglia.
Per la sua nuova famiglia.
Si versò di nuovo da bere e stavolta brindò a se stesso.
-Cheers- si disse e poi appoggiò il bicchiere sul comodino e spense la luce, consapevole che non sarebbe comunque riuscito a dormire nemmeno quella notte, e quei ricordi, quella nostalgia per qualcosa di così effimero, non facevano altro che farlo innervosire sempre di più.
 
Poi la guerra in Vietnam peggiorò e molti dei ragazzi della confraternita se ne andarono richiamati dall’esercito.
Erano rimasti in pochi a militare per la resistenza mutante quando una notizia giunse nella sede: la scuola di Charles aveva chiuso i battenti.
I suoi studenti e i suoi insegnati, al pari degli alleati di Erik, erano stati richiamati alle armi.
Nonostante il tempo e nonostante le ferite subite il primo pensiero del manipolatore di metalli fu per Charles.
Dopo tutto quello che aveva perso gli avevano portato via anche quello.
 
E fu come trovarsi di nuovo a Cuba, quando si era lanciato subito verso l’amico non appena aveva sentito il suo grido di dolore, nonostante la lite che avevano appena avuto, nonostante non fosse nemmeno certo che Moira avesse smesso di sparargli.
Dopo quell’episodio fu soltanto una l’occasione in cui Erik era tornato da Charles.
Era una notte non molto tempo dopo la crisi di Cuba, quando il telepate era appena uscito dalla sala operatoria per il suo quarto intervento nel tentativo di riparare ai danni del proiettile.
Erik aveva aspettato che Hank se ne andasse e, approfittando del fatto che il suo vecchio amico fosse ancora in coma farmacologico, si era avvicinato al suo letto e l’aveva guardato dormire sereno, con un espressione che contrastava con il suo viso contorto dal dolore di un senso di colpa ancora troppo fresco.
Un senso di colpa che lo rendeva così debole da farlo infuriare.
Gli mise una mano sulla spalla e chiuse un attimo gli occhi, non avrebbe mai voluto questo per lui ma non poteva fare nulla, nemmeno esprimergli il suo conforto.
Restò li giusto qualche secondo e poi uscì dall’ospedale dove Azazel lo aspettava per teleportarsi alla base.
Anche adesso come allora l’impulso di raggiungerlo era fortissimo, ma Erik lo respinse con tutto se stesso, non poteva andare da lui e soprattutto non voleva.
Ora non c’era più nessun sentimento di colpa insulso a fargli mettere da parte la sua rabbia per il telepate e sapeva che confrontarsi con lui in quel momento non avrebbe portato a nulla di buono, non dopo quello che si erano detti sulla spiaggia, non dopo che il confine era stato tracciato così nettamente. Ed inoltre era certo che nemmeno ora Charles fosse disposto a mettere da parte il suo sogno, nemmeno dopo quella che sembrava la battuta d’arresto definitiva.
Mandò a casa tutti e si rinchiuse nella sua stanza, pentendosi di aver anche solo per un istante provato compassione per Charles.
Fece levitare fino a se due sferette di metallo che iniziò a far roteare velocemente per alleviare lo stress.
Forse un giorno sarebbe stato disposto a perdonare il telepate, ma ora era troppo presto e le ferite bruciavano ancora troppo intensamente.
 
Era appena iniziato il mese di novembre quando Raven tornò alla base con una soffiata.
Il presidente JFK era un mutante e voleva annunciarlo al mondo, ma qualcuno stava pianificando di ucciderlo, probabilmente perché avevano scoperto il suo segreto.
Se il presidente avesse dichiarato di essere un mutante le cose sarebbero cambiate drasticamente, per il paese e poi anche per il mondo intero.
Forse le persone avrebbero iniziato a considerare la loro razza per quello che era davvero e non solo una minaccia alla continuità dell’esistenza dell’homo sapiens.
Per la prima volta Erik si trovò a dover pianificare come sventare un attentato invece che a prepararne uno. Rise dell’ironia della vita, quella sarebbe stata un’operazione che a Charles sarebbe piaciuta molto.
 
Mandò Raven e Azazel a cercare il maggior numero di informazioni possibili e, mentre i due svolgevano la parte di spionaggio lui elaborava il piano, cambiandolo e adattandolo mano a mano che i suoi informatori fornivano nuovi dati.
Non ci volle molto per capire che l’attentato sarebbe stato attuato il 22 novembre, in occasione della parata del presidente a Dallas.
Più difficoltoso fu scoprire il nome dei possibili attentatori e i possibili luoghi in cui l’esecuzione avrebbe potuto avere luogo.
Era il 21 novembre, l’ultimo giorno prima dell’attentato, quando Raven tornò alla base provvisoria che avevano allestito a Dallas con un nome e un luogo. Lee Harvey Oswald, vecchio deposito di libri.
Erik partì immediatamente per il deposito, avrebbe fermato quell’attentatore. Non poteva fallire. Impedì a chiunque di seguirlo, sapeva bene i rischi che correva e non voleva coinvolgere nessun’altro.
Se il presidente avesse fatto coming out le cose avrebbero davvero potuto cambiare in meglio, e forse per quella volta avrebbe dato ragione a Charles, forse per una volta la pace sarebbe davvero stata un’opzione.
Il mattino della parata era tutto perfetto, Erik si era appostato al secondo piano del deposito, come gli era stato detto da Raven e aspettava solo che Oswald si presentasse col suo fucile per sistemarlo una volta per tutte. Ucciderlo era sempre stato nei piani di Erik, un attentatore non viene scoraggiato da un omicidio fallito e il manipolatore di metalli non poteva permettersi di lasciargli la possibilità di ritentare.
Si appoggiò alla finestra e attese, calmo.
Fu solo quando vide avvicinarsi la macchina presidenziale che iniziò a preoccuparsi. Perché Oswald non era ancora li?
Poi fu questione di un attimo.
Il presidente che salutava la folla, seduto accanto alla sua first lady, uno sparo, proveniente dal piano di sopra, probabilmente le informazioni di Raven erano sbagliate.
-Dannazione!- urlò Erik con quanto fiato aveva in corpo, per poi stendere il braccio verso la finestra e tentare di deviare la pallottola il più velocemente possibile.
Il proiettile curvò, ma non abbastanza e il presidente fu colpito, molto probabilmente a morte.
Aveva fallito, di nuovo. I proiettili non erano mai stati il suo forte, appena un anno prima aveva causato la paralisi di Charles e ora la morte del presidente. Poco importava che non fosse stato lui a premere il grilleto, non era riuscito a salvarli e questo bastava a fare di lui il colpevole.
E ora? Che conseguenze avrebbe avuto il suo fallimento? Era stato un illuso a credere per un attimo che il suo sogno potesse coincidere di nuovo con quello di Charles, che la convivenza fosse anche solo lontanamente possibile. Ed erano stati gli umani a rovinare tutto, di nuovo.
Erik non fece nemmeno in tempo a sfogare la sua rabbia che qualcosa lo colpì alla testa da dietro, fece giusto in tempo a voltarsi e ad accorgersi che era stato un agente di polizia a colpirlo e poi perse i sensi.
L’ultimo pensiero coerente fu di nuovo per il telepate, chissà cosa avrebbe pensato di lui ora? L’avrebbe davvero creduto capace dell’assassino del presidente degli Stati Uniti?
  
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