Capitolo
VII
“Sei ancora
arrabbiato?” si premurò di chiedere Flavia dedicandogli un’occhiata di riguardo,
vedendolo assorto in chissà quali elucubrazioni personali.
“Direi impaziente, piuttosto”, replicò
Romano sottovoce, la mano ancora stretta in quella della sorella. “Prima la
ricerca sotto il sole e adesso il giro comodo in carrozza. Non so davvero cosa
aspettarmi a questo punto… Perché, insomma, sono passati anni dall’ultima volta
che lui è venuto a trovarci! Mi ero ormai rassegnato all’idea che non gli
importasse più nulla di… di noi”.
Si era riferito
al plurale anche se non ne era per niente sicuro. Sarebbe stato meglio dire “di me”, in fondo Flavia era e restava la
nipotina preferita di Giulio. In qualche modo loro due erano rimasti in contatto
con lettere dettagliate e telefonate interurbane o internazionali, invece Romano
non si era quasi mai interessato a cosa facesse quell’uomo
giramondo.
“Non dire così…
Lui-”.
“Shh”.
“Cosa pensi del
gioco d’azzardo?” sentirono la domanda interessata di Caroline, questa volta
rivolta al cugino accanto a lei.
Diego aveva
mantenuto la stessa espressione amabile e curiosa.
“Oh. Gioco
d’azzardo. Davvero? Adesso capisco perché sei stata assunta da papà… Anche se
non sembra tu ami il rischio”, suppose in tutta
franchezza.
“Diciamo che amo
sfidare la fortuna. Io però vorrei una risposta precisa…” motivò a voce più
chiara e l’accento francese risaltava nella pronuncia di alcune
parole.
“Eh… Di fatto
sono ancora minorenne e mia madre darebbe in escandescenza se solo ci provassi.
Però sai una cosa? Tu insegnami: il gioco che vuoi, uno a caso. Poi facciamo una
partita innocua, io e te da soli, in cui scommettere qualcosa di più piacevole
di un mucchio di soldi”.
“E cosa dovremo
scommettere?” gli chiese inarcando le fini sopracciglia.
“Ma una cenetta
intima, naturalmente!”.
“Ah…” assentì
Caroline, sperando che non trapelasse il suo essere rimasta sorpresa dalla
reazione per nulla intimidita e piuttosto disinvolta, dalla proposta galante ed
entusiasta insieme di Diego.
Si finse
pensierosa. “Oui. On peut le
faire”.
Si poteva
tentare.
Solitamente le
davano della sofisticata e altera, poiché aveva imparato a trattare con uomini
più grandi come faceva con giocatori e avversari al casinò. Aveva visto tutti i
pretendenti che le aveva presentato la madre scappare a gambe levate dopo aver
capito che tipo fosse in realtà.
Era una ragazza
dalla risposta pronta che sapeva anticipare ogni mossa, che non si scomponeva
quasi mai, che doveva avere l’ultima parola, che non cadeva in rovina. Non si
era fatta scrupoli nemmeno a mentire sull’età, dal momento che quando aveva
iniziato con il gioco d’azzardo aveva sedici anni e fortunatamente il ruolo
influente di sua madre la copriva.
Difficilmente si
faceva fregare, tantomeno si lasciava coinvolgere in qualcosa di più grande di
lei, di sconosciuto nel suo mondo.
Il balletto, lo
studio e i giochi con il denaro erano non solo le sue priorità, ma anche i suoi
hobby. Delle passioni irrinunciabili nella monotonia delle sue giornate passate
a Monaco.
Diego era il
secondo che, forse per ingenuità o forse per sua stessa natura, la intrigava.
Un fatto
insolito, in fondo essendo ancora minorenne frequentava la scuola, mentre lei
aveva terminato gli studi al Liceo Tecnico di Monte-Carlo* poco prima di
accettare l’incarico di assistente per suo padre. Un fatto che forse la
indirizzava verso un altro cambiamento di opinione.
“Io ho solo diciannove anni e lui… Quasi
sedici se non ricordo male…” pensò. La differenza era minima e lui era pure
carino.
“Se posso
intromettermi, a casa abbiamo un mazzo di carte da gioco, potreste usare
quello!” suggerì immediatamente Flavia, allargando le braccia sporta in
avanti.
“In effetti non
mi dispiacerebbe giocare a briscola contro la signorina assistente…” considerò
il fratello, per poi intimare con uno sguardo alla sorella di abbassarle. “E
piantala di renderti ridicola!” la redarguì.
“Ahah. Non
dimenticate che ci sono prima io però!” fece presente Diego, alzando un dito al
fine di sottolineare il suo turno. “E spero tanto di poter ottenere un
appuntamento, almeno me ne tornerò in Liguria senza rimpianto
alcuno”.
E in quanto a
Caroline era rimasta di sasso, per i suoi stessi pensieri e per la
determinazione del più piccolo.
Con la velocità
moderata del pratico mezzo di trasporto in cui sedevano, ci vollero circa dieci
minuti per raggiungere Castel Sant’Angelo e il suo ponte
monumentale.
Caroline spiegò
loro che da lì la carrozza avrebbe proseguito fino a Piazza Venezia, notizia che
entusiasmò particolarmente la giovane Flavia, e che dopo la loro ultima meta
sarebbe stata il Colosseo. Era nelle sue vicinanze, infatti, che lei e il signor
Vargas avevano trovato ospitalità affittando due camere da una vecchia amica di
famiglia, Madame
Rocher**.
Stavano quindi
seguendo un percorso già concordato in precedenza e questo spingeva Romano a
lambiccarsi il cervello in cerca di una spiegazione plausibile, a rimproverarsi
perché – cavolo! – lui sarebbe
partito proprio dal Colosseo se non fosse stato per la scelta della sorella di
visitare subito la Fontana di Trevi.
Ed era
irrilevante il fatto che poi lui stesso avesse cambiato precipitosamente idea a
favore di Piazza di Spagna, chissà per quale assurdo motivo, anzi no, conosceva
la motivazione, ma faceva finta che era stato il sole a dargli alla testa e a
spingerlo nella direzione opposta.
Se avesse
potuto, avrebbe tirato un calcio alla sua coscienza.
Senza rendersene
conto erano caduti tutti nel tranello dello zio, assecondando ogni sua manovra
come sciocche marionette manovrate da fili invisibili.
“Anche vostra
madre era a conoscenza del suo piano, ma si è limitata a mandarvi all’aeroporto
senza accennare alla nostra presenza a Roma”, continuò a spiegare Caroline
mentre Diego cercava di scattare qualche altra foto-ricordo. Prima lei aveva
assistito in silenzio ai battibecchi vivaci, ai discorsi sereni dei tre e al
broncio del maggiore, provando simpatia e tenerezza verso di loro, inserendosi
di tanto in tanto nella conversazione con il garbo e la compostezza che la
caratterizzavano.
“Ah, bene.
Immaginavo fosse implicata nella faccenda. Allora non mi stupirei di trovarla al
Colosseo!” commentò scocciato Romano. “O ci attende forse un’altra persona con
quello?”.
“Fratellone, dai…” mormorò
Flavia.
“Dai un corno!”
replicò a braccia incrociate, comprimendo le labbra alterate in una
smorfia.
“Beh… Qualcosa c’è, ma il signor Vargas mi ha
raccomandato di non farne parola con nessuno. Come si dice in questi casi ho la bocca cucita, sono spiacente”, si
scusò la monegasca.
“Signorina
Caroline, ma è una cosa bella, vero? Veh, io mi fido dello zio, sono impaziente
di riabbracciarlo e sono curiosissima, ma sono anche molto contenta per questa
uscita piacevole e per il tempo che stiamo trascorrendo insieme in giro per la
nostra adorata Roma. Con la scuola e tutto il resto è sempre stato difficile per
me e per mio fratello rilassarci, lo sai? Perciò voglio ringraziare te, Diego e
quando lo vedrò pure zio Giulio!” si perse in un fiume di parole sentite
un’entusiasta Flavia, facendo sorridere il cugino e un po’ persino
Caroline.
“Non
ringraziarmi, faccio soltanto il mio dovere…” rispose l’altra distogliendo lo
sguardo, puntandolo in un punto imprecisato alla sua destra e Diego ne
approfittò per catturare la sua immagine di profilo in una fotografia,
ovviamente di nascosto da lei e pensando che non vedeva l’ora di far sviluppare
quel rullino.
Caroline
appariva quasi perfetta ai suoi occhi: aspetto raffinato, profilo elegante,
lineamenti delicati, nasino all’insù, un paio di occhiali alla moda che non
nascondevano dei meravigliosi occhi blu e lunghi capelli biondi che con
quell’acconciatura così ordinata le stavano d’incanto.
Però non l’aveva
vista sorridere se non lievemente, e questo era forse il suo unico
difetto.
Aveva sì una
parlantina disinvolta e un po’ strascicata, con la erre moscia tipica dei
francofoni, ma non si lasciava andare.
Non si
divertiva.
Quando
arrivarono al centro della famosa Piazza Venezia, il gentile cocchiere fece
fermare lentamente la carrozza senza tettuccio e lo scalpiccio rilassante dei
cavalli si mitigò.
Lui era un
corpulento signore di mezza età con capelli e baffi neri striati di grigio, che
consigliò loro, con tono simpatico e cordiale malgrado la stazza un po’
massiccia, di scendere e di godersi quei dieci minuti di tempo che avrebbe
concesso ai suoi due cavalli per riposarsi e per farli abbeverare alla
fontanella più vicina.
Flavia non se lo
fece ripetere due volte, era stata la prima a lasciare il calesse saltellando
sul posto e ad approfittarne per ammirare la sua piazza preferita, circolare e
grande in tutta la sua bellezza. In essa si incrociavano tre tra le strade più
importanti del centro storico ed era situata ai piedi del
Campidoglio.
Abbellita dalla
presenza del colossale e stupefacente monumento in onore di re Vittorio Emanuele
II, di Palazzo Venezia sul lato ovest e di Palazzo Bonaparte verso nord.
Nell’insieme
questi e altri elementi del paesaggio la rendevano dignitosa e sfarzosa come la
città importante da cui prendeva il nome.
Quanto le
mancavano le gite a Venezia! Zio Giulio che veniva a prenderla, il tragitto in
treno, le visite guidate, i giri in gondola!
“Senti Romi,
come mai la mia dolce cugina sprizza gioia ed emozione da ogni poro? Per caso
questo è un altro posto speciale per lei?” domandò incuriosito, porgendo
galantemente il braccio all’altra fanciulla per aiutarla a scendere dallo
scalino del mezzo di trasporto.
“Merci…” ringraziò, sperando di non
essere arrossita vistosamente per la gentilezza dimostratale e constatando che
era la più bassa tra i presenti. Anche Flavia la superava in
altezza.
“Perché non
glielo chiedi direttamente? Mica posso entrare nella sua testa…” rispose, per
poi sospirare pesantemente. “Io avrei preferito proseguire fino al Colosseo e
interrogare finalmente il bastardo”.
Per l’ultima
parola sgarbata ricevette un’occhiataccia severa da parte di Caroline, che
ancora si teneva al braccio di suo cugino, ma preferì
ignorarla.
Quando distolse
lo sguardo apatico, sgranò di colpo gli occhi alla vista di un furgoncino bianco
che stava per investire una distratta Flavia, persa con la testa tra le
nuvole.
Non l’aveva
presa per miracolo e sparte il suo proprietario aveva suonato il clacson per poi
andarsene, probabilmente perché contrariato da tanta
disattenzione.
Romano non ci
mise molto a raggiungerla e a farle la ramanzina, l’ennesima della giornata, e
Flavia cercò di rassicurarlo come al solito, scusandosi per lo spavento che gli
aveva fatto prendere.
“Non
innervosirti, fratellone. Se lo zio ha fatto questo per noi, io penso che deve
esserci un buon motivo dietro…” spiegò sorridendo, ispirata alla vista
dell’imponente Vittoriano. “E se si tratta di una sorpresa? Veh, perché lui non
ci ha detto niente, non abbiamo idea di cosa sia. Altrimenti come interpretare
tanto mistero?” ragionò.
“Per me non sarà
nulla di buono, altro che sorpresa!” esclamò scuotendo il capo esasperato,
poiché non ne poteva più di ipotesi e congetture, desiderava soltanto arrivare
al sodo.
“Cugini, perché
invece di preoccuparci non ci facciamo un’altra foto tutti insieme?” suggerì
svagato Diego, trascinando un’inespressiva Caroline con sé, lasciando l’utile
apparecchio nelle mani di Romano e sperando che scattare foto lo
calmasse.
“Credevo che il
rullino fosse terminato, accidenti!” sbottò lui, controllando i numerini che
giravano e che si erano fermati sul numero cinque. Mancavano ancora cinque
fotografie. Quasi quasi gliele consumava tutte in quel momento, per
dispetto.
Flavia, Caroline
e Diego si misero in posa, con la bionda in mezzo a loro due e lui che le
sussurrava di sorridere.
“Posso sperare
di conservare almeno una foto in cui sorridi apertamente?” disse poi e le mostrò
un’espressione eloquente, come se ci tenesse per davvero.
Diego non solo
era carino, con quel casco di capelli color castano chiaro e ordinati, lo strano
ciuffo seghettato e gli occhi che ricordavano un prato al sole. Le sembrava in
realtà molto più grande della sua età, e nella confidenza che si prese
circondandole le spalle con un braccio e facendole l’occhiolino le ricordava
molto il Signor Vargas.
Sarebbe
diventato un donnaiolo irrecuperabile come lui.
Lo sarebbe
diventato, ma forse, se un giorno si fosse innamorato di una donna capace di
metterlo in riga e di tenerselo stretto, forse allora…
Arrossì al
pensiero inusuale, non capendo perché un ragazzino appena conosciuto le stesse
facendo quell’effetto poco razionale.
“Allora?”
ritentò Diego inclinando la testa di lato, incerto se scuotere la vicina dalle
spalle oppure no. Si era distratta anche lei,
evidentemente.
“Cosa?”.
“Dai, Carolina,
sorridi!” intervenne Flavia, spezzando il momento imbarazzante e piazzandosi
davanti ai due. “Restiamo qui finché non ci fai un bel sorriso!” aggiunse
dolcemente, prendendole una mano tra le proprie.
Persino Flavia
era carina e con il suo carattere disinteressato, allegro e particolare avrebbe
rischiarato anche le giornate più grigie. Invidiava il suo sorriso così
spontaneo, perciò cercò di imitarlo, decisa ad
accontentarli.
“Evviva!
Fratellone, scatta la foto adesso!” lo esortò, tornando al proprio posto dopo
aver visto il miracolo compiuto.
“Va bene. Siete
sempre più stucchevoli, sapete?” brontolò Romano eseguendo
l’ordine.
Tre fotografie.
Stava pensando a come consumarle, ma poi vide che un soddisfatto e gongolante
Diego lo raggiungeva per riprendersi la macchina fotografica.
E addio
dispetto.
*
Era rassicurante
percepire che il fascino senza tempo della sua Roma perdurava e che essa non gli
dava mai noia o insoddisfazione.
Forse riusciva
ad apprezzarla proprio perché i suoi viaggi lo portavano molto lontano e la
lontananza non aveva spento affatto l’amore per la città
natale.
Aveva
passeggiato per le sue vie animate, attraversato le sue piazze pittoresche,
ammirato i classici monumenti, le chiese antiche o nuove e i palazzi vecchi di
un secolo o poco più.
Aveva respirato
di nuovo la sua aria, chiacchierato, aveva riso e amato.
Quel giorno
aveva perso persino la cognizione del tempo, poiché non era certo rimasto
immobile come una statua ad aspettare l’arrivo dei suoi nipoti, non sarebbe
stato da lui.
Per ammazzare il
tempo, si era prestato a intrattenere i turisti con aneddoti conosciuti durante
i suoi studi, oppure con le sue personali avventure e disavventure per
raggiungere determinati luoghi lontani.
Aveva giocato
con i bambini, aveva flirtato con qualche signorina di passaggio, aveva aiutato
a scattare foto oppure a farne il soggetto, a mettersi in una posa importante
considerato che indossava il suo travestimento storico e voleva immedesimarsi
perfettamente nella parte.
I suoi gesti
volontari e assolutamente gratuiti non stonavano affatto, non disturbavano
quelle persone, quegli artisti ambulanti che si piazzavano lì con lo scopo di
guadagnarsi il pane, anzi lui, nella sua grande generosità, si era persino
prestato ad aiutarne alcuni, ricevendo in cambio tutta la loro gratitudine più
sincera.
Si stava appunto
giustificando quando gli giunse alle orecchie un richiamo familiare, una voce
inconfondibile e chiara che lo chiamava. Si voltò alla sua sinistra e fu
sollevato nell’osservare che non si era sbagliato, poiché aveva inquadrato lei che avanzava frettolosamente,
andandole incontro di rimando.
“Ce l’avete
fatta!” si complimentò con un moto d’orgoglio, cambiando atteggiamento in un
istante quando l’allegra nipotina si era fiondata tra le sue braccia per
salutarlo con tutto il suo affetto incondizionato.
“Flavia! Mi
rendo conto che sei cresciuta, ma in fondo sei sempre una tenerona, nevvero?
Aww! La mia piccola Flavia! Lascia che ti abbracci come si deve!” affermò, con
tanto di lacrimuccia di commozione, stringendola a sé e strusciando una guancia
contro la sua.
Era andato in
brodo di giuggiole, ormai. L’avevano perduto.
Lei rise di
cuore.
“Caro zio, tu
invece non cambi mai. Hai la barba che punge proprio come allora…” replicò la
ragazza, che ovviamente era lietissima di rivederlo, ma provava anche un pizzico
di nostalgia per il passato, quando veniva più spesso a
trovarli.
“Lo so, lo so.
Modestamente sono ancora lo stesso zio giovane e affascinante dei tuoi ricordi.
Mi dispiace di non essermi fatto più vedere di persona,
però-”.
“Come diavolo ti
sei conciato? Accidenti, ma non ti vergogni?!” proruppe la voce scontrosa
dell’altro nipote, avvicinatosi per separare i due, che con le loro smancerie
stavano dando spettacolo.
“Anche tu mi sei
mancato, Romano. Non essere risentito e geloso, vieni qui!” lo pregò
Giulio.
“Geloso io?!
Stammi lontano!” sbottò, venendo poi trattenuto dalla traditrice di sua sorella,
che lo bloccò prima che riuscisse a sfuggire alla presa ostinata dello
zio.
Divenne paonazzo
per la rabbia e sicuramente per l’imbarazzo, dal momento che un gruppo di
passanti li stava fissando e stava persino applaudendo per la scena che stavano
offrendo loro, come se un abbraccio a tre fosse una scena magnifica e insolita,
certo.
L’uomo vestito
in toga candida e mantello magenta,
con quei tessuti lunghi, tutti attorcigliati e fissati con cura, si staccò dai
suoi nipoti per rispondere alle loro domande, soprattutto a quelle di Romano che
appariva davvero impaziente di conoscere il suo ingegnoso
piano.
“Oggi
rappresento un antico romano, precisamente un patrizio, un nobile di quei tempi.
Siccome mi avevate già visto anni fa nelle vesti di un valoroso soldato e di un
condottiero di epiche battaglie, oggi ho optato per questo: sarò il vostro oratore per il tempo che ci rimane”,
spiegò con un sorriso lieve e saputo.
“Oratore? Perché
devi parlarci?” dedusse Flavia, guardandolo annuire.
“Allora dicci a
che scopo farci girare Roma, quando potevi presentarti a casa nostra già da ieri
ed evitare tutta questa sceneggiata assurda davanti a un pubblico di curiosi.
Accidenti, mi piacerebbe strangolarti!” lo biasimò l’altro incrociando le
braccia al petto.
Più lo
osservava, più Giulio riconosceva il carattere testardo e tutt’altro che
affabile del fratello. Romano aveva preso decisamente da lui, anche se i capelli
scuri… quelli gli venivano dalla madre, sì.
“È per vostro
padre… Entrambi amavamo Roma e so che anche voi non siete indifferenti alla
città eterna. Non siete contenti di aver accompagnato Diego a visitarne la parte
più significativa?” li interrogò, puntando poi uno sguardo malinconico allo
sfondo dell’incontro.
“L’Anfiteatro
Flavio, meglio conosciuto come Colosseo… Simbolo suggestivo di un grande Impero.
Era il suo preferito, lui veniva sempre qui quando aveva bisogno di riflettere,
di stare da solo”.
“A me ha fatto
piacere rivedere il cugino Diego e accompagnarlo in questo giro turistico. Quanto a mio padre mi dispiace…” mormorò
in risposta, cercando lo sguardo del fratello. “Non me lo ricordo, ma la mamma
ci ha detto che era una persona speciale”.
“Non capisco…
Quindi l’avresti fatto per lui? Se volevi farti perdonare qualcosa, perché non
sei tornato prima? Tanto noi siamo cresciuti lo stesso anche senza di lui e
senza di te, quindi non ti capisco proprio…” rispose Romano, confuso e tuttavia
deciso a far valere il proprio parere in merito.
Che senso
aveva?
“Se sei venuto
per rimpiangere il fratello scomparso, non so se voglio ascoltarti. È passato,
ormai…” proseguì facendo per voltarsi, come se volesse tornare indietro. Fino a
quel momento Diego si era rivelato una compagnia per nulla deprimente e si
sentiva un po’ deluso da ciò che aveva ascoltato finora
dall’archeologo.
“Non è tutto.
Romano, tu stai saltando a conclusioni affrettate, esattamente come era solito
fare Michele. Non è mia intenzione deprimervi, non oggi. Io sono qui per voi,
per una sorpresa che sicuramente vi piacerà. Se rimpiango qualcosa è di non
essere stato presente al posto di mio fratello. Per vedervi crescere, proprio
come mi hai fatto notare con la tua risposta”.
“Hai visto,
fratellone? Ha davvero una sorpresa per noi!” esultò
Flavia.
“E sentiamo: di
che sorpresa si tratta?” indagò Romano, nuovamente
sospettoso.
E Giulio Cesare
Vargas sorrise a trentadue denti, più sollevato.
“Non abbiate
fretta e seguitemi, lo scoprirete dentro il Colosseo, così Romano non lamenterà
il fatto di avere occhi indiscreti puntati addosso”.
“Zio Giulio, non
dobbiamo chiamare Diego e Caroline? Non devono venire anche loro?” chiese
Flavia, procedendo al suo fianco.
“Non serve. La
mia graziosa assistente sarà perfettamente in grado di badare a vostro cugino,
sa già come comportarsi”.
“Perché stiamo
entrando da un’entrata secondaria? Maledizione, e se ci fanno la multa per aver
saltato la fila?” si preoccupò Romano guardandolo storto.
Giulio gli
mostrò una piccola tessera rettangolare.
“Quando sei uno
studioso puoi ottenere certi privilegi, non lo sapevate?” motivò con calma
conducendoli in una galleria usurata, che li avrebbe portati all’interno del
famoso anfiteatro.
Una volta
dentro, consigliò loro di scegliere un posto dove sedersi per poter parlare
tranquillamente. Flavia risalì le gradinate fino a sedersi in un posto in alto,
dal quale poteva ammirare i resti di quello che in passato doveva essere stato
un bellissimo luogo ludico. Romano e Giulio si limitarono a seguirla e ad
accomodarsi anche loro, per quanto una pietra potesse definirsi
comoda.
“Tornando al
vostro giro per Roma, vorrei sapere se per caso a un certo punto vi sono tornati
alla mente ricordi di quando eravate più piccoli. Siate sinceri, altrimenti me
ne accorgo!” li avvisò.
Flavia gli
confidò immediatamente il fatto del disegno volato giù dal
ponte.
“Bene. E tu
Romano?”.
Lo fissarono
entrambi, in attesa che parlasse.
“Ma cosa vuoi
che abbia ricordato? Sono luoghi che abbiamo visto spesso, ti ricordo che noi ci
viviamo, a Roma! Certo, stiamo più in periferia, ma è capitato che venissimo in
centro per vari motivi…” mentì fregandosene delle loro occhiate fisse e piene di
aspettativa.
“Uffa…
Fratellone, potresti collaborare!” si dispiacque Flavia gonfiando le
guance.
“Tua sorella ha
ragione. Non ci stai dicendo la verità…” suppose il più
grande.
“Che palle, zio.
Ti stai prendendo troppo di confidenza… Eppure siamo stati lontani per anni!”
brontolò.
“Appunto,
permettimi di recuperare. Comunque ho capito, non c’è bisogno che aggiungi
altro. Adesso chiudete gli occhi”, consigliò divertito.
Romano trovò la
richiesta strana e infantile, invece Flavia aveva già eseguito, senza
abbandonare il suo perenne sorriso e coprendosi gli occhi con le
mani.
“Va bene
così?”.
“Ma perché devi
sempre seguire tutto alla lettera, tu?! E poi perché cavolo dovrei chiudere gli
occhi? Cosa nascondi, bastardo?” sbottò, più esasperato che arrabbiato. La
rabbia e la brutta sensazione iniziale in realtà gli erano già sbolliti da un
pezzo, forse il tragitto in carrozza gli aveva giovato.
Però Giulio gli
diede delle leggere pacche sulla testa, facendolo alterare nuovamente, anche
perché si limitava a sorridere come un deficiente e a non dargli tutte le
risposte.
“Hai rotto, va
bene?! O parli o me ne vado, e stavolta non mi fermerete”.
“Non avevi forse
un amico che si chiamava Antonio?” proferì allora.
“Un amico che si chiamava…?” si ripeté
piano. “Che c’entra? Chi sarebbe Antonio?” domandò ancora, levandosi in piedi
per lo stupore. Non rammentava a chi potesse appartenere quel nome, ma ebbe uno
strano presentimento. Come se lo zio fosse a conoscenza di una cosa che lui
ignorava, o probabilmente più di una.
“Ma zio, Romano
ha pochi amici e non mi risulta che abbiano quel nome…” intervenne perplessa
Flavia riaprendo gli occhi ambrati.
“D’accordo, va
bene. Lasciamo perdere gli occhi chiusi e arriviamo al sodo, così tuo fratello
smette di preoccuparsi inutilmente”, decise serenamente l’uomo, scostando di
poco il mantello che indossava ed estraendo dal fianco destro due
lettere.
“Ho pensato di
rimediare alla mia assenza cercando e
trovando due ragazzi che avete conosciuto tanto tempo fa, quando le mie visite
erano più frequenti. E l’ho fatto perché possiate capire che non vi ho mai
dimenticato. Siamo una famiglia, dopotutto”, si giustificò porgendo la busta di
carta azzurra alla nipote e quella con carta gialla
all’altro.
“Li ho aiutati a
scrivervi. Inoltre vi darò un altro indizio: non sono italiani”, rivelò dopo aver
ritirato le mani, quando già la nipotina era sul punto di aprirla, interessata a
scoprire il mittente anonimo – infatti le due lettere si distinguevano soltanto
dal colore, non c’era scritto nulla fuori.
“Un momento!”
saltò su Romano, di nuovo. Ragionando e riconsiderando che il furbastro dello
zio aveva nominato un certo Antonio, che Flavia non conosceva e che non era
italiano… C’era un’alta possibilità che si trattasse proprio di lui.
Il ragazzo
incontrato a Piazza di Spagna.
Il tizio
spagnolo del gelato al pistacchio.
A preoccuparlo
però non era questo. Sua sorella Flavia teneva tra le mani una lettera
indirizzata a lei. Da uno straniero.
Lei. Uno
sconosciuto.
La sua
Flavia.
E uno zio
imprevedibile che sapeva tutto, ma giocava a fare il
misterioso.
“Ehi, aspetta,
fermi tutti!”.
“Io non mi muovo
da qui…” replicò candidamente Giulio.
Lui lo ignorò e
rivolse tutta la sua attenzione a lei, che non capiva.
“Io credevo che
l’unica straniera fosse quella tua amica, quella Elisa o come diavolo si chiama. Non mi avevi
detto che c’era un altro. Chi caspita è? Ci possiamo
fidare?”.
“Ehm… Non lo so.
Dovrei leggerla?” tentò di dissuaderlo lei.
“Per esserne
sicuri è meglio se la leggo prima io!” obiettò.
Detto questo,
ficcò la lettera gialla in una delle tasche dei pantaloni, fregandosene se si
spiegazzava un poco, e si sporse per recuperare l’altra, ma Flavia scosse
dispiaciuta il capo, allontanandola dalla mano del fratellone prima che la
prendesse. Romano però non si fece scoraggiare: più lei si ritraeva e negava,
più lui la inseguiva e finì che Giulio Vargas fu costretto a tenerli d’occhio
mentre gironzolavano liberamente nelle zone agibili del
Colosseo.
Era sì una scena
comica, ma era toccante constatare quanto i suoi adorati nipotini fossero uniti
addirittura nei loro diverbi.
Avrebbe dato
qualunque cosa per tornare indietro, perché anche suo fratello maggiore si fosse
interessato a lui allo stesso modo, con la stessa dedizione, lo stesso impeto e
affetto di quei due.
*
Alla fine, per
quanto la situazione si fosse rivelata più piacevole del previsto, il signor
Giulio fu caldamente invitato da un guardiano fiscale, che non aveva chiuso un
occhio di fronte all’inseguimento
innocente di Romano e Flavia, a scortarli fuori dal monumento, forse temendo
che avrebbero potuto fargli seri danni, o perché disturbavano la quiete pubblica
con le continue proteste e insistenze dovute alla lettera
azzurra.
Alla fine erano
stati costretti a giungere a un equo accordo: Romano avrebbe scoperto il
mittente segreto e ciò che conteneva una volta tornato a casa, a patto che
consegnasse la sua alla sorella.
Flavia
ovviamente fu d’accordo e anche se fremeva dalla curiosità ripose entrambe le
buste al sicuro nella sua borsa, promettendo di non toccarle fino a
sera.
Ritrovarono il
cugino Diego e l’assistente Caroline seduti su una panchina, nelle vicinanze dei
Fori Imperiali. Sembravano tranquilli.
“Ah, quasi
dimenticavo…” ricordò all’improvviso Giulio, rivolgendosi nuovamente ai nipoti.
“Il tassista di stamattina ero io”.
Assunta stava
per terminare le faccende domestiche, in attesa del ritorno della sua famiglia, ansiosa di accogliere in casa il nipote e
naturalmente di sapere tutto quello che avevano fatto in
centro.
E chiuse
l’aspirapolvere per rimetterlo al suo posto nel ripostiglio, fischiettando tra sé un motivetto a caso.
*è un liceo che
prepara a lavorare negli alberghi, nel commercio… L’istruzione nel Principato di
Monaco è simile a quella francese, quindi Caroline ha finito a diciassette
anni.
**è
un semplice tributo al Ferrero Rocher, la Ferrero è italiana anche se Rocher
sembra francese. Per un’amica della famiglia di Caroline ci stava, dai
xD
***
Note:
Lo
so, avevo detto che l’ultimo capitolo sarebbe arrivato in tempi brevi ^^’ chiedo
venia. In ogni caso è finita, gente.
In
realtà ci sarebbe un epilogo sul contenuto delle due lettere e su cosa ne
pensano Romano e Veneziano (Flavia), ma aspetterò un po’ prima di pubblicarlo, non ne sono ancora del tutto convinta (quando mai
xD).
Spero
vi sia piaciuto, qui ho decisamente messo da parte le descrizioni dettagliate
dei luoghi (che forse stavano annoiando i lettori) e mi sono concentrata più sui
personaggi principali, sui dialoghi, sui pensieri… Insomma, sulla narrazione in
generale, con pizzichi di comicità che ci stava, dai xD mi sono divertita,
soprattutto figurandomi le ultime scene con Nonno Roma (in questa AU zio) e
nipoti.
Spero
che la lettura leggera vi abbia intrattenuto piacevolmente per qualche minuto. Grazie a
quanti hanno letto, seguito, ricordato, preferito e commentato fin qui, anche se
pochi ho apprezzato davvero! =)
Un
grazie speciale alla cara SunliteGirl e ai suoi incoraggiamenti
preziosi, spero di non averti deluso per il fatto che tengo abbastanza sulle
spine >.< però sono contenta, ho realizzato il proposito di farti un
capitolo più lungo e più simpatico dei precedenti! *__* E poi è “tornato”
Antonio, hai visto? ^^ Seborga e Monaco ti sono piaciuti? Lei è stata
complicata... Vabbe’, ci ho provato.
Forse
questi tre compariranno in una storia extra ambientata in un futuro prossimo, chissà…
*fa la vaga*
Forse
la leggerai l’anno prossimo, conoscendo i miei tempi
ù.ù
Okay,
no. Come primo approccio-tentativo nel fandom mi sono divertita, dai, se l’ispirazione non
mi abbandona tornerò prima del previsto e ti farò una sorpresa
=)
Rina