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Autore: zakato    26/08/2008    2 recensioni
Questa è una storia nata da un mio pensiero ricorente: essere sepolto vivo!! Partendo da questa semplice e atavica paura,la storia è progredita fino a divenire un pezzo forte del mio repertorio!! Spero vi piaccia!!
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I miei sogni furono oscuri e tempestosi

Risveglio in un incubo

 

I miei sogni erano stati oscuri e tempestosi.

Aprii gli occhi per sfuggire alla solitudine profonda mostratami da un incubo, troppo reale per non essere vero. Fino a quel momento il sogno per me era più gradevole della realtà, ma non potevo abbandonarmi ad esso per sempre. La vita trovava sempre il modo per distruggere i miei sogni.

Mentre lentamente i miei occhi si riabituavano a vedere, non riuscivo a scorgere una fonte di luce nel posto dove ero. Il buio mi circondava là dove mi ero risvegliato. Dov’ero?

L’appartamento dove abitavo era un cunicolo in cui era difficile vivere e quasi impossibile trovarlo in qualche modo confortevole. Un buco in un vecchio palazzone popolare in una periferia troppo periferia, dove grida da chissà quale appartamento e quale piano squarciavano il duro silenzio delle notti in quei luoghi. Lì sopravvivere diventava sempre più difficile e la voglia di vivere scompariva giorno dopo giorno.

Quando non ero più riuscito a trovare modi per sopravvivere e mantenermi, perché diseredato dalla mia ricca famiglia, mi nascosi in quell’appartamento. Lontano dalle persone che provavano pietà o sdegno, pensai di trovare lì un luogo dove potevo andare avanti senza pretese e poter quindi inseguire il mio sogno. Un sogno divenuto così lontano da sembrare essere diventato una stella nei cieli notturni che ogni notte potevo osservare dall’unica finestra. Piano piano quel luogo divenne sempre più familiare, tanto che abbandonarlo mi risultava sempre più difficile; non perché iniziassi ad apprezzare quel posto, ma perché confrontarmi con la dura realtà che quella zona mi offriva mi rendeva sempre più malinconico.

Io non ero come i miei vicini. Gente miserabile, che sopravviveva in quell’ambiente diventando parte integrante di esso; come in un grande ingranaggio, giorno dopo giorno ne diventavano le fredde rotelle che aiutavano a farlo andare avanti, per quanto degenerato potesse essere quel sistema.

Io non ero come loro; il mio destino non era un debole chiarore sfocato, ma una luce viva che aveva bisogno di una folata d’aria per splendere ancora più lucente di prima.

Io non sono come la gente che vive in questi luoghi, gente senza moralità e senza speranza.

Io ero e sono un artista; e sarò un grande scrittore.

Perché questo è il mio destino, è il mio sogno e questo sarà anche la mia vita.

Ma il modo con cui renderò possibile questo, mi era ancora oscuro. Era celato proprio dal destino che ancora non mi aveva mostrato la via con cui avrei raggiunto il mio obiettivo. Probabilmente non era ancora giunto il mio momento.

Ma se non ora, quando….

Ogni giorno mi alzavo con la speranza che quel momento era arrivato; ma alla fine, quando tornavo come ogni notte, ormai da troppo tempo, lì nel mio appartamento nel grande palazzone in quella periferia così lontana, ogni mia speranza moriva di nuovo e il carico della realtà mi piegava le spalle giorno dopo giorno.

Ma sapevo che la mia speranza non moriva.

No.

Sarebbe risorta il giorno dopo. Quando mi sarei risvegliato di nuovo, la speranza sarebbe rinata in me aiutandomi a perseverare nell’unica cosa in cui credevo, non in fedi o religioni, non in ideali o fazioni, ma solamente nel mio sogno e nel mio destino.

Perché la notte a cui mi abbandonavo ogni volta che tornavo nel mio appartamento, affittato per pochi soldi, mi avrebbe cullato di nuovo per fare in modo che la speranza potesse rinascere di nuovo in me e così continuare a vivere.

Vivere era diventata una parola troppo forte, ma non potevo abbandonare ormai le mie speranze, perché se avessi abbandonato le cose che conoscevo, le parole, i suoni, i sentimenti e tutto quello che mi aveva appartenuto prima che arrivassi in questo posto, avrei perso sicuramente la mia identità e con quella ogni mia altra speranza di raggiungere il mio sogno.

Dovevo vivere per continuare a portare avanti il mio destino, scritto per me nel momento della mia nascita. No. Era venuta l’ora. Dovevo alzarmi e continuare a perseverare nel mio sogno.

Ma il buio in cui ero rimasto mentre divagavo nei miei sogni non accennava a diminuire. Anzi sembrava soffocarmi. Rubava poco a poco il calore e l’aria dal mio respiro, così da prendere anche la mia vita.

Era giunto il momento. Dovevo alzarmi e andare avanti. Ma dove mi trovavo?

Quel luogo era il mio appartamento, o no?

Quell’oscurità era troppo fitta. I rumori che mi svegliavano, nel cuore della notte, mentre ero perso nei sogni, ora erano spariti. Cos’era successo? Forse quello che attendevo da sempre? Ero, allora, fuggito e non me ne ricordavo?

Mi ero addormentato in un altro luogo lontano da quella realtà? Forse…

Dovevo alzarmi per rendermi conto di quello che mi era accaduto. Il mio respiro s’era fatto sempre più affannoso e la gola mi si era seccata. Volevo urlare, ma non ci riuscivo. Dovevo conoscere e sapere in quale delle due realtà mi trovavo. Se ero ancora nel mio appartamento in mezzo alla miseria o ero finalmente emerso e vivevo ora in un altro luogo lontano da quel palazzo. Un luogo, nuovo per me, da rendermi spaesato quando ogni mattina mi risvegliavo come lo ero adesso. Forse ero sdraiato su un comodo letto in un appartamento del centro e mi guadagnavo da vivere vendendo i miei racconti, che per me erano l’unica fonte di luce in tutta la mia vita.

Alzai le braccia, ma non riuscii a muovermi liberamente. Ero chiuso da una barriera che mi limitava i movimenti e non mi permetteva di alzare le braccia. Riuscivo ad alzarmi tenendo sempre però i gomiti ai fianchi. Provai, allora, ad alzare le gambe, ma le ginocchia toccavano una dura parete che bloccava tutti i miei movimenti. Una superficie non mi permetteva di alzarmi costringendomi a restare sdraiato. Iniziai, allora, a  toccarla con le mani. Cercavo di capire lo spazio attraverso il senso del tatto, ma non riuscivo a capire comunque dove mi trovassi. Le mie mani toccavano qualcosa di duro, che sovrastava tutto il mio corpo e che mi limitava i movimenti. Era una superficie ruvida e fredda al tatto.

 

 

 

 

 

Mossi le mani lungo quello spazio in cerca di uno spiraglio. Ai miei fianchi la parete terminava per poi formare un angolo retto con un’altra parete. Un’altra parete, più breve di quella che avevo davanti scendeva parallela ai mie fianchi fino a trovare l’altra superficie su cui ero poggiato. Anche l’altro mio fianco era chiuso da un’altra parete. La consapevolezza della realtà in cui mi trovavo mi attraversava come un lampo la mente, scacciando via ogni altro pensiero. Ero rinchiuso in quel luogo senza possibilità di muovermi in una strana prigione fatta di barriere. Eppure mi ero addormentato sul mio letto, nel mio appartamento.

Come era possibile che fossi arrivato là? Qualcuno mi aveva rinchiuso? Forse un mio vicino? Mi avevano preso e rinchiuso là? E se sì, perché?

Iniziai a battere i pugni sulla superficie ma la parete mi rispondeva solo con qualche rumore sordo. Cercai invano una serratura o un’apertura. Cercai di spingere, ma era come combattere con una forza troppo grande per il mio misero corpo. Apparentemente non vi era modo di uscire. Mi abbandonai a quel pensiero per molto tempo prima di accorgermene. Il mio respiro si era fatto sempre più veloce e affannoso. Ora non riuscivo quasi più a respirare. Se la luce non riusciva a trovare uno spiraglio dove poter entrare, allora neanche l’aria sarebbe riuscita ad arrivare da me. Sarei dunque morto soffocato?

Dovevo uscire e allora.

Il mio sogno e il mio destino sono ancora qualcosa che non possono finire così, si devono avverare perché questo è quello che deve accadere.

Iniziai a colpire la parete con maggiore forza, ma non sembrava cedere. Finalmente trovai la forza di urlare, ma nonostante mettessi tutte le mie forze, le mie richieste di aiuto sembravano non riuscire ad oltrepassare il muro che avevo davanti.

Un muro creato dalla mia incapacità di poter salvare la mia vita con le mie stesse mani.

Sbattei i pugni ancora, e ancora, fino a quando non inizia a sanguinare e a non avere più forze. L’aria era diventata troppo pesante e ormai ogni mio respiro mi faceva bruciare il petto. Presto il mio corpo non avrebbe più trovato aria e i miei sogni e il mio destino sarebbero morti con lui.

Ormai il rumore assordante dei miei pugni che colpivano quel muro indistruttibile aveva invaso tutto l’ambiente. Con un ultimo sforzo colpii con un solo pugno la parte che mi sembrava più debole e un scricchiolio colpì subito la mia attenzione. Ero riuscito a creare una crepa, seppur piccola in quella barriera invisibile. Colpii ancora e ancora il punto dove prima avevo sentito quella flebile debolezza, ma che mi aveva donato rinnovato vigore. Non mi fermai quando le mani iniziarono a farmi così male da non sentirle più; non mi fermai neanche quando riuscii ad aprire una breccia e le schegge mi lacerarono la pelle come vetro e iniziai a sanguinare; mi fermai solamente quando piccoli granelli iniziarono a scendere sul mio corpo dallo spiraglio che ero riuscito a creare. All’inizio non capii cosa fossero quei piccoli granelli che poco a poco trovano uno spiraglio sempre più grande e cadevano sempre di più sul mio petto. Ne presi una manciata e vidi con mio grande orrore cosa fossero. Granelli di terra scendevano dallo spiraglio che avevo creato nella parete di quel materiale che mi ricordava tanto una lunga tavola di legno. L’aria ormai stava per finire e non mi rimaneva più molto tempo. Dovevo uscire da lì per respirare o altrimenti sarei morto rinchiuso lì.

Possibile che io fossi rinchiuso in una cassa di legno? E da dove proveniva quella terra che scendeva con sempre più velocità? Ero forse circondato dalla nuda terra e rinchiuso in quella cassa? Ero stato seppellito? Cosa mi era successo?

Il terrore corse veloce e mi prese senza difese. Non riuscivo più a ragionare e mentre piagnucolavo senza senso colpivo sempre più forte il piccolo squarcio; la terra iniziò a scendere sempre più veloce fino a quando non venni quasi sepolto dalla terra.

Quando lo squarcio divenne abbastanza grande, feci forza e mi alzai venendo inondato da un’enorme massa di terra. Ormai non respiravo più e i miei occhi erano coperti dal terreno. L’unica cosa che potevo fare era cercare un varco ed essere finalmente libero. Dovevo essere libero, per poter dimostrare al mondo che non ero come le altre persone; bensì un uomo eletto da Dio per un destino superiore.

Con le mani ormai sanguinanti per l’enorme sforzo cercai di smuovere quanta più terra potevo e facendo forza sul fondo iniziai a salire. In un tempo infinito iniziai a perdere contatto con la realtà, fino a quando le mie mani, nella continua salita verso la libertà, non arrivarono a toccare la fresca aria. A quella sensazione tutto il mio corpo fu stravolto da uno spasmo e la consapevolezza di essere riuscito a salvarmi, mi inondava il cuore di speranza. Con il cuore che ormai batteva all’impazzata sbracciai a più non posso fino a quando la mia testa non sbucò dal terreno. Ero salvo.

L’aria venne immessa nei miei polmoni con forza ad ogni mio ampio respiro. Ero nato per la seconda volta. Una nuova vita per un uomo destinato a un sogno ben più grande delle altre misere vite che arrancano senza scopo su questa terra.

Con un ultimo sforzo riuscii a liberarmi completamente dalla mia terribile prigione. Tossii molte volte per la terra che mi era entrata nei polmoni. L’aria che respiravo era per me nuova linfa vitale. Mi accasciai al suolo stanco e dolorante.

In quella dimensione di gioia ed euforia, dolore e sofferenza, mi persi fra i miei pensieri come un marinaio in una tempesta.

Sballottato fra le onde dei miei pensieri ritornai con la mente alla mia avventura in quella misteriosa prigione, in una cassa di legno sepolta, e agli ultimi ricordi che avevo.

L’ultima cosa che ricordo è che ero tornato, come ormai da troppo tempo, nel mio appartamento, con i miei sogni di nuovo a pezzi. Mentre mi compativo sul mio letto lacero qualcuno bussò alla porta. Vivia, una ragazza che viveva al piano di sotto, che di mestiere faceva la prostituta accogliendo gli uomini che venivano lì la sera per dimenticare quanto fosse misera la loro vita, mi apparve alla porta. Il suo viso grazioso era molte volte deturpato dalle violenze degli uomini, ma il suo animo era rimasto nel profondo candido come la neve; il suo cuore era ormai difeso da una dura barriera che aveva eretto negli anni in cui aveva dovuto vivere in quel modo. Il suo sguardo era perso ed etereo; per poco non svenne quando aprii la porta e subito la soccorsi cingendole i fianchi con il braccio e accompagnandola al letto. Non so perché era venuta fin da me, ma il suo viso rosso e gonfio mi dava l’idea che ella voleva solo trovare un rifugio almeno per quella notte. Gli altri abitanti del palazzone dove vivevo mi ignoravano, cosa per cui ero loro molto grato. Cosa facevo e cosa aspiravo ad essere era ormai dominio di tutti lì, oggetto di derisione  e di scherno per gente come loro che avevano abbandonato tutto, compreso i loro sogni.

Sicuramente la dolce Vivia aveva cercato riparo da me, perché aveva compreso che tra tutte le altre persone di quel luogo, io ero forse la più umana e mai avrei recato offesa a una donna in difficoltà. Vedendo gli occhi spaesati e l’espressione lontana capii come la donna, piccola e indifesa, sfuggiva a quella realtà.

L’uso dell’oppio come droga si era ormai diffuso in tutta Europa e ormai anche gli ambienti più degradati facevano uso di quella droga d’Oriente. Probabilmente Vivia aveva abusato di quella sostanza che inibiva il corpo e la mente e in un ultimo barlume di ragione era arrivata alla mia soglia. Alla vista di quel corpo, ormai corrotto dalla vita degradata di quegli ambienti, non potei che provare pietà per lei. Vidi nella mano una pipa, ancora fumante, che inebriava l’ambiente con il suo fumo. Guardai la pipa a lungo, catturato dall’idea che piano a piano si faceva strada nella mia mente. Ero ormai stanco di dover sopportare l’idea incessante che forse il mio sogno era un’idea di sciocchi, solo un pensiero per bambini che sognano vite diverse ma impossibili da poter vivere. Quel pensiero si era fatto così insistente che ormai non riuscivo più a scacciarlo. Apparentemente solo una cosa poteva ridarmi la calma e allontanare quei pensieri.

Presa la pipa ancora fumante e iniziai a respirare il fumo dell’oppio che bruciava emanando quei fumi che inebriavano la mia mente. Ero ormai fuori dalla realtà.

Precipitavo da un abisso senza intravedere il fondo. I miei pensieri non esistevano più. Un freddo così gelato attanagliava le mie membra. Un senso di morte mi pervase all’improvviso. La consapevolezza che i miei sogni erano spariti per sempre iniziò a delinearsi nella mente. Cosa mi era successo, allora?

Infine mi ero risvegliato lì, in quella cassa. Sotterrato nella nuda terra.

Disteso, ansante sul terreno, mi ripresi dai ricordi. Mi ero dunque addormentato lì, nel mio appartamento insieme a Vivia, ma cos’era successo nel frattempo? Vivia dov’era?

E cosa mi era successo dal momento che mi ero addormentato? Mi hanno forse rinchiuso in quella cassa per qualche motivo?

Non sapevo rispondere a quelle domande, come a molte altre che mi ponevo. Tante domande e nessuna risposta. Mi sedetti ancora esanime. Osservai i dintorni, ma non riuscivo a scorgere niente da nessuna parte. Troppo buio perché potessi vedere. Dov’ero dunque arrivato? Mi alzai facendomi forza e continuai a osservare i dintorni.

Le mani e la testa ormai non mi davano più fastidio, come il desiderio di respirare di cui tanto avevo sentito bisogno rinchiuso in quella cassa. Le sensazioni che tanto mi erano care mi stavano abbandonando, o forse già mi avevano abbandonato da tempo. Ogni cosa che avevo sentito l’avevo forse sognato? Impossibile. Era tutto reale. Non posso essere diventato pazzo. No, questo è tutto reale. Una realtà che non ho mai accettato, ma nella quale ho vissuto da sempre.

Cercando una via o un segno in quella oscurità che ormai aveva invaso tutto il mio universo vidi una debole superficie candida che rifletteva i raggi di una Luna luminosa in un cielo nero. Mi accovacciai vicino a essa e vidi che non era molto distante dal fosso da cui ero riemerso. Toccai la superficie e vidi che era fredda anche più di quella dura aria invernale. Il marmo di cui era fatta era grezzo e opaco, ma la sua superficie rifletteva di una lucentezza abbastanza forte da permettermi di scorgere meglio i suoi tratti. Sulla lastra di marmo erano incisi alcuni caratteri. La luce della luna, divenuta ora più forte grazie a una nuvola che ora si era allontanata, mi permise di leggere l’incisione. Sorpresa e terrore. Un terrore così cieco da fermarmi il cuore. O si era già fermato e io ancora lo dovevo capire?

Quel pensiero squarciò la mia mente e il mio animo grazie alla scoperta che avevo fatto. L’iscrizione sulla lastra portava un nome di persona. Ora tutti i tasselli erano al loro posto e avevo potuto capire l’oscuro disegno che si celava dietro tutto quello mi era successo. Il nome della persona incisa sulla lapide, perché di lapide stiamo parlando, era di un uomo: Albert Strauss (1862-1883). Il mio nome. Quella era la mia lapide. La cassa dove ero fuggito la mia tomba. Quella notte nel mio appartamento con Vivia io ero morto….

Senza accorgermi di cosa facessi iniziai a correre a perdi fiato nella notte. Scappai e mi diressi verso rumori che ancora riuscivo a sentire. Corsi verso strane luci che danzavano nella notte, verso urla e rumori che fendevano il silenzio di quella notte, quella notte in cui io scoprii di essere morto.

 

Fine (forse)

  
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