Risveglio in un incubo
I miei sogni erano stati
oscuri e tempestosi.
Aprii gli occhi per sfuggire
alla solitudine profonda mostratami da un incubo, troppo reale per non essere
vero. Fino a quel momento il sogno per me era più gradevole della realtà, ma non
potevo abbandonarmi ad esso per sempre. La vita trovava sempre il modo per
distruggere i miei sogni.
Mentre lentamente i miei
occhi si riabituavano a vedere, non riuscivo a scorgere una fonte di luce nel
posto dove ero. Il buio mi circondava là dove mi ero risvegliato. Dov’ero?
L’appartamento dove abitavo
era un cunicolo in cui era difficile vivere e quasi impossibile trovarlo in
qualche modo confortevole. Un buco in un vecchio palazzone popolare in una
periferia troppo periferia, dove grida da chissà quale appartamento e quale piano
squarciavano il duro silenzio delle notti in quei luoghi. Lì sopravvivere
diventava sempre più difficile e la voglia di vivere scompariva giorno dopo
giorno.
Quando non ero più riuscito a
trovare modi per sopravvivere e mantenermi, perché diseredato dalla mia ricca
famiglia, mi nascosi in quell’appartamento. Lontano dalle persone che provavano
pietà o sdegno, pensai di trovare lì un luogo dove potevo andare avanti senza
pretese e poter quindi inseguire il mio sogno. Un sogno divenuto così lontano
da sembrare essere diventato una stella nei cieli notturni che ogni notte
potevo osservare dall’unica finestra. Piano piano
quel luogo divenne sempre più familiare, tanto che abbandonarlo mi risultava
sempre più difficile; non perché iniziassi ad apprezzare quel posto, ma perché
confrontarmi con la dura realtà che quella zona mi offriva mi rendeva sempre
più malinconico.
Io non ero come i miei
vicini. Gente miserabile, che sopravviveva in quell’ambiente diventando parte
integrante di esso; come in un grande ingranaggio, giorno dopo giorno ne
diventavano le fredde rotelle che aiutavano a farlo andare avanti, per quanto
degenerato potesse essere quel sistema.
Io non ero come loro; il mio
destino non era un debole chiarore sfocato, ma una luce viva che aveva bisogno
di una folata d’aria per splendere ancora più lucente di prima.
Io non sono come la gente che
vive in questi luoghi, gente senza moralità e senza speranza.
Io ero e sono un artista; e
sarò un grande scrittore.
Perché questo è il mio
destino, è il mio sogno e questo sarà anche la mia vita.
Ma il modo con cui renderò
possibile questo, mi era ancora oscuro. Era celato proprio dal destino che
ancora non mi aveva mostrato la via con cui avrei raggiunto il mio obiettivo.
Probabilmente non era ancora giunto il mio momento.
Ma se non ora, quando….
Ogni giorno mi alzavo con la
speranza che quel momento era arrivato; ma alla fine, quando tornavo come ogni
notte, ormai da troppo tempo, lì nel mio appartamento nel grande palazzone in
quella periferia così lontana, ogni mia speranza moriva di nuovo e il carico
della realtà mi piegava le spalle giorno dopo giorno.
Ma sapevo che la mia speranza
non moriva.
No.
Sarebbe risorta il giorno
dopo. Quando mi sarei risvegliato di nuovo, la speranza sarebbe rinata in me
aiutandomi a perseverare nell’unica cosa in cui credevo, non in fedi o
religioni, non in ideali o fazioni, ma solamente nel mio sogno e nel mio
destino.
Perché la notte a cui mi abbandonavo
ogni volta che tornavo nel mio appartamento, affittato per pochi soldi, mi
avrebbe cullato di nuovo per fare in modo che la speranza potesse rinascere di
nuovo in me e così continuare a vivere.
Vivere era diventata una
parola troppo forte, ma non potevo abbandonare ormai le mie speranze, perché se
avessi abbandonato le cose che conoscevo, le parole, i suoni, i sentimenti e
tutto quello che mi aveva appartenuto prima che arrivassi in questo posto,
avrei perso sicuramente la mia identità e con quella ogni mia altra speranza di
raggiungere il mio sogno.
Dovevo vivere per continuare
a portare avanti il mio destino, scritto per me nel momento della mia nascita.
No. Era venuta l’ora. Dovevo alzarmi e continuare a perseverare nel mio sogno.
Ma il buio in cui ero rimasto
mentre divagavo nei miei sogni non accennava a diminuire. Anzi sembrava
soffocarmi. Rubava poco a poco il calore e l’aria dal mio respiro, così da
prendere anche la mia vita.
Era giunto il momento. Dovevo
alzarmi e andare avanti. Ma dove mi trovavo?
Quel luogo era il mio
appartamento, o no?
Quell’oscurità era troppo
fitta. I rumori che mi svegliavano, nel cuore della notte, mentre ero perso nei
sogni, ora erano spariti. Cos’era successo? Forse quello che attendevo da
sempre? Ero, allora, fuggito e non me ne ricordavo?
Mi ero addormentato in un altro
luogo lontano da quella realtà? Forse…
Dovevo alzarmi per rendermi conto
di quello che mi era accaduto. Il mio respiro s’era fatto sempre più affannoso
e la gola mi si era seccata. Volevo urlare, ma non ci riuscivo. Dovevo
conoscere e sapere in quale delle due realtà mi trovavo. Se ero ancora nel mio
appartamento in mezzo alla miseria o ero finalmente emerso e vivevo ora in un
altro luogo lontano da quel palazzo. Un luogo, nuovo per me, da rendermi
spaesato quando ogni mattina mi risvegliavo come lo ero adesso. Forse ero
sdraiato su un comodo letto in un appartamento del centro e mi guadagnavo da
vivere vendendo i miei racconti, che per me erano l’unica fonte di luce in
tutta la mia vita.
Alzai le braccia, ma non
riuscii a muovermi liberamente. Ero chiuso da una barriera che mi limitava i
movimenti e non mi permetteva di alzare le braccia. Riuscivo ad alzarmi tenendo
sempre però i gomiti ai fianchi. Provai, allora, ad alzare le gambe, ma le
ginocchia toccavano una dura parete che bloccava tutti i miei movimenti. Una
superficie non mi permetteva di alzarmi costringendomi a restare sdraiato.
Iniziai, allora, a toccarla con le mani.
Cercavo di capire lo spazio attraverso il senso del tatto, ma non riuscivo a
capire comunque dove mi trovassi. Le mie mani toccavano qualcosa di duro, che
sovrastava tutto il mio corpo e che mi limitava i movimenti. Era una superficie
ruvida e fredda al tatto.
Mossi le mani lungo quello
spazio in cerca di uno spiraglio. Ai miei fianchi la parete terminava per poi
formare un angolo retto con un’altra parete. Un’altra parete, più breve di
quella che avevo davanti scendeva parallela ai mie fianchi fino a trovare
l’altra superficie su cui ero poggiato. Anche l’altro mio fianco era chiuso da
un’altra parete. La consapevolezza della realtà in cui mi trovavo mi
attraversava come un lampo la mente, scacciando via ogni altro pensiero. Ero
rinchiuso in quel luogo senza possibilità di muovermi in una strana prigione
fatta di barriere. Eppure mi ero addormentato sul mio letto, nel mio appartamento.
Come
era possibile che fossi arrivato là? Qualcuno mi aveva rinchiuso? Forse un mio
vicino? Mi avevano preso e rinchiuso là? E se sì, perché?
Iniziai a battere i pugni
sulla superficie ma la parete mi rispondeva solo con qualche rumore sordo. Cercai
invano una serratura o un’apertura. Cercai di spingere, ma era come combattere
con una forza troppo grande per il mio misero corpo. Apparentemente non vi era
modo di uscire. Mi abbandonai a quel pensiero per molto tempo prima di
accorgermene. Il mio respiro si era fatto sempre più veloce e affannoso. Ora
non riuscivo quasi più a respirare. Se la luce non riusciva a trovare uno
spiraglio dove poter entrare, allora neanche l’aria sarebbe riuscita ad
arrivare da me. Sarei dunque morto soffocato?
Dovevo uscire e allora.
Il mio sogno e il mio destino
sono ancora qualcosa che non possono finire così, si devono avverare perché
questo è quello che deve accadere.
Iniziai a colpire la parete
con maggiore forza, ma non sembrava cedere. Finalmente trovai la forza di
urlare, ma nonostante mettessi tutte le mie forze, le mie richieste di aiuto
sembravano non riuscire ad oltrepassare il muro che avevo davanti.
Un muro creato dalla mia
incapacità di poter salvare la mia vita con le mie stesse mani.
Sbattei i pugni ancora, e
ancora, fino a quando non inizia a sanguinare e a non avere più forze. L’aria
era diventata troppo pesante e ormai ogni mio respiro mi faceva bruciare il
petto. Presto il mio corpo non avrebbe più trovato aria e i miei sogni e il mio
destino sarebbero morti con lui.
Ormai il rumore assordante
dei miei pugni che colpivano quel muro indistruttibile aveva invaso tutto
l’ambiente. Con un ultimo sforzo colpii con un solo pugno la parte che mi
sembrava più debole e un scricchiolio colpì subito la mia attenzione. Ero
riuscito a creare una crepa, seppur piccola in quella barriera invisibile.
Colpii ancora e ancora il punto dove prima avevo sentito quella flebile
debolezza, ma che mi aveva donato rinnovato vigore. Non mi fermai quando le
mani iniziarono a farmi così male da non sentirle più; non mi fermai neanche
quando riuscii ad aprire una breccia e le schegge mi lacerarono la pelle come
vetro e iniziai a sanguinare; mi fermai solamente quando piccoli granelli
iniziarono a scendere sul mio corpo dallo spiraglio che ero riuscito a creare.
All’inizio non capii cosa fossero quei piccoli granelli che poco a poco trovano
uno spiraglio sempre più grande e cadevano sempre di più sul mio petto. Ne
presi una manciata e vidi con mio grande orrore cosa fossero. Granelli di terra
scendevano dallo spiraglio che avevo creato nella parete di quel materiale che
mi ricordava tanto una lunga tavola di legno. L’aria ormai stava per finire e
non mi rimaneva più molto tempo. Dovevo uscire da lì per respirare o altrimenti
sarei morto rinchiuso lì.
Possibile che io fossi
rinchiuso in una cassa di legno? E da dove proveniva quella terra che scendeva
con sempre più velocità? Ero forse circondato dalla nuda terra e rinchiuso in
quella cassa? Ero stato seppellito? Cosa mi era successo?
Il terrore corse veloce e mi
prese senza difese. Non riuscivo più a ragionare e mentre piagnucolavo senza
senso colpivo sempre più forte il piccolo squarcio; la terra iniziò a scendere
sempre più veloce fino a quando non venni quasi sepolto dalla terra.
Quando lo squarcio divenne
abbastanza grande, feci forza e mi alzai venendo inondato da un’enorme massa di
terra. Ormai non respiravo più e i miei occhi erano coperti dal terreno.
L’unica cosa che potevo fare era cercare un varco ed essere finalmente libero. Dovevo
essere libero, per poter dimostrare al mondo che non ero come le altre persone;
bensì un uomo eletto da Dio per un destino superiore.
Con le mani ormai sanguinanti
per l’enorme sforzo cercai di smuovere quanta più terra potevo e facendo forza
sul fondo iniziai a salire. In un tempo infinito iniziai a perdere contatto con
la realtà, fino a quando le mie mani, nella continua salita verso la libertà,
non arrivarono a toccare la fresca aria. A quella sensazione tutto il mio corpo
fu stravolto da uno spasmo e la consapevolezza di essere riuscito a salvarmi,
mi inondava il cuore di speranza. Con il cuore che ormai batteva all’impazzata
sbracciai a più non posso fino a quando la mia testa non sbucò dal terreno. Ero
salvo.
L’aria venne immessa nei miei
polmoni con forza ad ogni mio ampio respiro. Ero nato per la seconda volta. Una
nuova vita per un uomo destinato a un sogno ben più grande delle altre misere
vite che arrancano senza scopo su questa terra.
Con un ultimo sforzo riuscii
a liberarmi completamente dalla mia terribile prigione. Tossii molte volte per
la terra che mi era entrata nei polmoni. L’aria che respiravo era per me nuova
linfa vitale. Mi accasciai al suolo stanco e dolorante.
In quella dimensione di gioia
ed euforia, dolore e sofferenza, mi persi fra i miei pensieri come un marinaio
in una tempesta.
Sballottato fra le onde dei
miei pensieri ritornai con la mente alla mia avventura in quella misteriosa
prigione, in una cassa di legno sepolta, e agli ultimi ricordi che avevo.
L’ultima cosa che ricordo è
che ero tornato, come ormai da troppo tempo, nel mio appartamento, con i miei
sogni di nuovo a pezzi. Mentre mi compativo sul mio letto lacero qualcuno bussò
alla porta. Vivia, una ragazza che viveva al piano di sotto, che di mestiere
faceva la prostituta accogliendo gli uomini che venivano lì la sera per
dimenticare quanto fosse misera la loro vita, mi apparve alla porta. Il suo
viso grazioso era molte volte deturpato dalle violenze degli uomini, ma il suo
animo era rimasto nel profondo candido come la neve; il suo cuore era ormai
difeso da una dura barriera che aveva eretto negli anni in cui aveva dovuto
vivere in quel modo. Il suo sguardo era perso ed etereo; per poco non svenne
quando aprii la porta e subito la soccorsi cingendole i fianchi con il braccio
e accompagnandola al letto. Non so perché era venuta fin da me, ma il suo viso
rosso e gonfio mi dava l’idea che ella voleva solo trovare un rifugio almeno
per quella notte. Gli altri abitanti del palazzone dove vivevo mi ignoravano,
cosa per cui ero loro molto grato. Cosa facevo e cosa aspiravo ad essere era
ormai dominio di tutti lì, oggetto di derisione
e di scherno per gente come loro che avevano abbandonato tutto, compreso
i loro sogni.
Sicuramente la dolce Vivia
aveva cercato riparo da me, perché aveva compreso che tra tutte le altre
persone di quel luogo, io ero forse la più umana e mai avrei recato offesa a
una donna in difficoltà. Vedendo gli occhi spaesati e l’espressione lontana
capii come la donna, piccola e indifesa, sfuggiva a quella realtà.
L’uso dell’oppio come droga
si era ormai diffuso in tutta Europa e ormai anche gli ambienti più degradati
facevano uso di quella droga d’Oriente. Probabilmente Vivia aveva abusato di
quella sostanza che inibiva il corpo e la mente e in un ultimo barlume di
ragione era arrivata alla mia soglia. Alla vista di quel corpo, ormai corrotto
dalla vita degradata di quegli ambienti, non potei che provare pietà per lei.
Vidi nella mano una pipa, ancora fumante, che inebriava l’ambiente con il suo
fumo. Guardai la pipa a lungo, catturato dall’idea che piano a piano si faceva
strada nella mia mente. Ero ormai stanco di dover sopportare l’idea incessante
che forse il mio sogno era un’idea di sciocchi, solo un pensiero per bambini
che sognano vite diverse ma impossibili da poter vivere. Quel pensiero si era
fatto così insistente che ormai non riuscivo più a scacciarlo. Apparentemente
solo una cosa poteva ridarmi la calma e allontanare quei pensieri.
Presa la pipa ancora fumante
e iniziai a respirare il fumo dell’oppio che bruciava emanando quei fumi che
inebriavano la mia mente. Ero ormai fuori dalla realtà.
Precipitavo da un abisso
senza intravedere il fondo. I miei pensieri non esistevano più. Un freddo così
gelato attanagliava le mie membra. Un senso di morte mi pervase all’improvviso.
La consapevolezza che i miei sogni erano spariti per sempre iniziò a delinearsi
nella mente. Cosa mi era successo, allora?
Infine mi ero risvegliato lì,
in quella cassa. Sotterrato nella nuda terra.
Disteso, ansante sul terreno,
mi ripresi dai ricordi. Mi ero dunque addormentato lì, nel mio appartamento
insieme a Vivia, ma cos’era successo nel frattempo? Vivia dov’era?
E cosa mi era successo dal
momento che mi ero addormentato? Mi hanno forse rinchiuso in quella cassa per
qualche motivo?
Non sapevo rispondere a
quelle domande, come a molte altre che mi ponevo. Tante domande e nessuna
risposta. Mi sedetti ancora esanime. Osservai i dintorni, ma non riuscivo a
scorgere niente da nessuna parte. Troppo buio perché potessi vedere. Dov’ero
dunque arrivato? Mi alzai facendomi forza e continuai a osservare i dintorni.
Le mani e la testa ormai non
mi davano più fastidio, come il desiderio di respirare di cui tanto avevo
sentito bisogno rinchiuso in quella cassa. Le sensazioni che tanto mi erano
care mi stavano abbandonando, o forse già mi avevano abbandonato da tempo. Ogni
cosa che avevo sentito l’avevo forse sognato? Impossibile. Era tutto reale. Non
posso essere diventato pazzo. No, questo è tutto reale. Una realtà che non ho
mai accettato, ma nella quale ho vissuto da sempre.
Cercando una via o un segno
in quella oscurità che ormai aveva invaso tutto il mio universo vidi una debole
superficie candida che rifletteva i raggi di una Luna luminosa in un cielo
nero. Mi accovacciai vicino a essa e vidi che non era molto distante dal fosso
da cui ero riemerso. Toccai la superficie e vidi che era fredda anche più di
quella dura aria invernale. Il marmo di cui era fatta era grezzo e opaco, ma la
sua superficie rifletteva di una lucentezza abbastanza forte da permettermi di
scorgere meglio i suoi tratti. Sulla lastra di marmo erano incisi alcuni
caratteri. La luce della luna, divenuta ora più forte grazie a una nuvola che
ora si era allontanata, mi permise di leggere l’incisione. Sorpresa e terrore. Un
terrore così cieco da fermarmi il cuore. O si era già fermato e io ancora lo
dovevo capire?
Quel pensiero squarciò la mia
mente e il mio animo grazie alla scoperta che avevo fatto. L’iscrizione sulla
lastra portava un nome di persona. Ora tutti i tasselli erano al loro posto e
avevo potuto capire l’oscuro disegno che si celava dietro tutto quello mi era
successo. Il nome della persona incisa sulla lapide, perché di lapide stiamo
parlando, era di un uomo: Albert Strauss (1862-1883). Il mio nome. Quella era
la mia lapide. La cassa dove ero fuggito la mia tomba. Quella notte nel mio
appartamento con Vivia io ero morto….
Senza accorgermi di cosa facessi
iniziai a correre a perdi fiato nella notte. Scappai e mi diressi verso rumori
che ancora riuscivo a sentire. Corsi verso strane luci che danzavano nella
notte, verso urla e rumori che fendevano il silenzio di quella notte, quella
notte in cui io scoprii di essere morto.
Fine (forse)