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Autore: Sebastiano Theus    07/07/2014    5 recensioni
Geralt parte da Vengerberg in compagnia di Ranuncolo, impegnato in una pericolosa missione per riparare il liuto del bardo. Un'altra persona segue il loro stesso percorso per altri motivi: Essi Daven, vecchia conoscenza di Geralt. I due si incontreranno? Riusciranno a dirsi tutto quello che non hanno potuto dire in passato? O potranno solo vedersi da lontano, guidati da diverse correnti del destino?
*questa storia è il seguito de Un Vero Amico*
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Geralt e Ranuncolo arrivarono a Passafiume a sera inoltrata. Dall'altra parte dei cancelli li accolse un'atmosfera festosa: lanterne di carta erano state appese a tutte le porte e la gente si riversava nella via maestra con cesti di fiori e abiti sgargianti. Dovettero smontare dai cavalli per farsi strada. Lasciarono gli animali nella stalla e si fecero avanti spinti dalla curiosità.
Geralt si sentiva a disagio, sentimento accentuato dall'assenza delle spade sulle sua schiena, dato che aveva dovuto lasciarle ai cancelli. Ranuncolo, invece, si sentiva benissimo e aveva già cominciato a scambiare qualche battuta con le persone che passavano affianco a loro e si era informato sulla destinazione della folla: davanti alla locanda c'era un banchetto aperto a tutti quelli che volevano partecipare. Ranuncolo sorrise alla prospettiva e fece per prendere il liuto che stava solitamente appeso alla sua schiena, ma dovette constatarne l'assenza, cosa che gli fece tornare alla mente il motivo per il quale erano lì e stemperò il suo buon umore.
Dopo qualche minuto si avvicinò a Geralt e parlò sussurrando, in modo che potesse sentirlo solo lui col suo udito sviluppato: «C'è qualcosa che non va...»
«Ovvio che c'è qualcosa che non va, è una festa. Mangiamo alla svelta e poi andiamo, d'accordo?»
«Non essere stupido, sto parlando sul serio!»
Ranuncolo gli indicò le case attorno a loro.
«Vedi? sono tutte illuminate all'esterno, ma dentro sono buie, tetre... l'ho visto da alcune finestre aperte, dentro sembrano quasi vuote. E poi ci sono scatole e bagagli, gli stessi che avevamo visto ieri sera, ma di più.»
«E con ciò?»
«Fidati di un poeta, noi vediamo più a fondo nell'animo della gente. Ho l'impressione che questa atmosfera allegra sia solo una facciata... Ma la mia è solo una sensazione.»
Geralt fece spallucce.
«Andiamo a questo banchetto, poeta, e vediamo che succede.»
Quando arrivarono nella piazza della locanda, Geralt fu costretto ad ammettere che se era una facciata, sicuramente era elaborata.
Tra gli angoli delle case erano tirati striscioni vivaci intervallati da lanterne colorate. Bambini e giovani ragazze gettavano fiori da cesti che stringevano tra le braccia e invitavano la gente a sedersi lungo le tre lunghe tavolate che occupavano l'intera piazza. Alcune delle ragazze ogni tanto scomparivano dietro le case in compagnia di qualche ragazzo che evidentemente non aveva la minima intenzione di star seduto. Lo spazio davanti alla locanda, dove Geralt e Ranuncolo avevano fatto a botte, era occupato dalla cucina all'aperto gestita dal locandiere e altri due cuochi che arrostivano abbondante carne di maiale sugli spiedi che giravano lasciando che il grasso colasse e ravvivasse le fiamme. Alcune donne preparavano i condimenti e ricoprivano di erbe le pietanze che venivano portate in tutta fretta ai tavoli, accolte tra l'ilarità generale.
Su un lato della piazza era stato ricavato un palco dove alcuni giovani suonavano liuti e fisarmoniche. Ranuncolo fece una smorfia quando uno di loro steccò orribilmente, ma nessun altro sembrò accorgersene.
«Geralt! Benvenuto!»
Vergalio si alzò dal tavolo e andò loro incontro levando la mano in segno di saluto.
«E benvenuto anche voi, mastro Ranuncolo. Sono contento che siate venuti alla festa.»
«Festeggiate qualcosa in particolare?», chiese il poeta.
«Solo una festa di paese», minimizzò Vergalio. «Nulla che valga la pena di ricordare nelle ballate. Venite, sedete vicino a me.»
I due si lanciarono uno sguardo e poi lo seguirono fino al capotavola, dove si sedette il vecchio. Loro si misero alla sua sinistra. Accanto a loro c'erano persone che non avevano mai visto prima, ma queste cominciarono subito a ridere e scherzare con loro come se si conoscessero da sempre.
«Mi dispiace per le vostre prime impressioni, ma anche noi sappiamo trattare gli ospiti», disse Vergalio invitandoli a servirsi dai piatti.
La tavola era imbandita in maniera spettacolare: c'erano piatti ricolmi di salsicce, pentole su pietre calde contenenti zuppe di carne e cavolo, braciole intrise di sugo aromatico, erbe amare e ravanelli, e poi pesce, gamberetti di fiume, rane arrostite e pasticci dove l'odore dello strutto e della pasta si mischiavano in un unico aroma fragrante.
Ranuncolo era davvero colpito, tanto che dimenticò alla svelta i dubbi che aveva avuto. Geralt si allungò sul tavolo e si riempì il piatto fino al limite. In fondo un pasto gratis valeva bene una festa.
Allungarono loro boccali pieni di birra e brindarono alla salute di tutti i presenti. Poi Geralt addentò una salsiccia. La prima reazione fu di sorpresa, la seconda fu di riempire di nuovo il boccale di birra e prendere due lunghe sorsate per attenuare il pizzicore che aveva in bocca.
Osservò Ranuncolo: il bardo stava scherzando con una donna che si era fermata alle sue spalle e non aveva ancora toccato cibo.
Lo strigo assaggiò un altro boccone con prudenza e ancora si sentì pizzicare la lingua. Rinunciò alla salsiccia e aggredì la braciola nel sugo: venne sorpreso dallo stesso sapore intenso e piccante. Passò in rassegna le zuppe, le erbe amare, i pesci di fiume e anche i pasticci, ma non cambiò nulla.
«Qualcosa non va, Geralt?», lo apostrofò Vergalio.
«No, no, sono piatti molto saporiti... Forse non sono abituato»
«Ho sentito dire che i sensi degli strighi sono più sviluppati di quelli di noi esseri umani, è così anche per il gusto?»
Lo sguardo di Vergalio era fisso su Geralt, il sorriso cortese delle labbra arrivava appena ai suoi occhi che sembravano notare ogni suo minimo movimento. Geralt assunse la sua tipica e immobile faccia di marmo, un'assenza di espressione raggiunta in anni di difficile allenamento.
«Così sembra», gli rispose con voce atona.
«Abbiamo una cucina molto aromatica», disse il vecchio rilassandosi sulla sedia e lanciandogli un sorriso caloroso. «Spero vi piaccia lo stesso.»
Geralt annuì e si alzò dal tavolo. Si sentiva addosso lo sguardo di Vergalio. Non gli piaceva.
Si allontanò tra i tavoli, a volte rispondendo con un cenno della mano ai saluti di persone sconosciute e altre volte assaggiando dai piatti, sempre con una crescente perplessità. La gente mangiava e beveva senza moderazione: Geralt non riusciva a capire se fosse il solo a percepire quel sapore o se fossero già troppo ubriachi per farci caso.
In quel momento vide Ranuncolo che si faceva strada tra la gente per raggiungerlo. Abbassò lo sguardo su un cane che si ingozzava degli avanzi caduti dal tavolo e fece finta di non aver notato il poeta.
Non sapeva più come comportarsi con lui. Aveva davvero creduto che una bevuta avrebbe sistemato quello che era successo? Non era certo la prima volta che Yennefer lo tradiva, così come lui non teneva il conto di tutte le donne con cui aveva fatto l'amore. Era probabilmente uno dei lati spiacevoli di due persone sfuggite agli ingranaggi del tempo, per le quali vent'anni e ottant'anni avevano lo stesso significato: solo un passare di ore e stagioni, granelli di sabbia su un sentiero così lungo da sembrare infinito. Yennefer avrebbe detto che nessuno sfugge al tempo, al massimo alcuni, fortunati secondo lei, avevano la possibilità di dilatarlo, di allontanarsi su ingranaggi più lenti, dove poter osservare quelli più veloci mentre si incrinano e si fermano allo scoccare della loro ora. Ma la morte arriva per tutti, maghe e strighi.
A volte Geralt pensava che tutto questo fosse solo una scusa, un metodo per sopportarsi l'un l'altra e tenere vivo quel loro legame che non poteva basarsi solo sulla forza del destino. Per di più la sua immunità alle malattie e alla vecchiaia non lo impressionavano più da tempo: uno strigo muore tra le fauci di una bestia, sul filo di una spada o tra le spire della magia, mai nel proprio letto.
Geralt fece qualche passo tra la folla allontanandosi intenzionalmente da Ranuncolo.
Si chiese perché ci soffrisse a quel modo, perché bruciasse così tanto che l'avesse tradito proprio con lui. Si vergognò nello scoprire di non essere in grado di andare così a fondo da potersi dare una risposta. Forse Yennefer ci sarebbe riuscita. Forse non riguardava più solo il loro rapporto, forse era stato violato un aspetto della sua persona a cui non aveva mai dato un nome, ma che aveva l'aspetto di un bardo dalla lingua lunga e con una piuma d'airone nel cappello.
Geralt non pensava a tutto questo. In realtà gli venne da pensare al momento in cui, per la prima volta, Ranuncolo non sarebbe riuscito a salire in sella con le proprie forze, oppure quando avrebbe avuto bisogno di aiuto per scendere dal letto, mentre lui avrebbe continuato a uccidere mostri per denaro come ci si aspetta da uno strigo.
Geralt pensò tutto questo, quindi si fermò.
Ranuncolo lo raggiunse con un sorriso incerto e lui decise che di colpa, se ce n'era in tutto questo, il poeta aveva la parte minore.
Gli parve però che avesse un'aria triste, delusa.
«Che c'è, Ranuncolo? Perché quella faccia?»
«Niente, niente...»
Geralt guardò la folla oltre lui e non notò più la ragazza con cui stava parlando prima. Sentì una punta di rabbia salirgli alla gola, ma decise di ignorarla.
«Ti è andata buca?»
«A volte capita...», affermò Ranuncolo prendendo una salsiccia dal tavolo.
«Magari non l'hai presa nel... Periodo giusto.»
Il poeta sollevò eloquentemente un sopracciglio: «Ah, Geralt, hai ancora molto da imparare sull'arte del sarcasmo. Potrei insegnarti parecchie cose.»
Lo strigo soffiò dal naso in un modo che non si capiva se fosse una risata soffocata o uno sbuffo spazientito.
«E comunque bel periodo giusto, vorrei dire!», esclamò Ranuncolo. «Guardati attorno, ti sembra che questa gente sia nel periodo giusto?»
«In che senso?»
«Da quello che ho sentito, la festa è appena cominciata, e quasi tutti sono già ubriachi! Tutta questa allegria, mi sembra sia solo data dal bere… Non so ancora spiegartelo bene, ma c’è quasi un senso di malinconia nell’aria.»
Geralt non fece finta di capire cosa intendesse dire. «Hai assaggiato qualcosa?», gli chiese.
«No, mi sono alzato per raggiungerti subito dopo che quella ragazza… be’, no, non ho ancora mangiato nulla.»
«Prova qualcosa, ti garantisco che ne vale la pena.»
Ranuncolo prese una salsiccia e la addentò. Spalancò gli occhi e prese subito un boccale di birra.
«Diavolo! È forte!»
«Già… prova qualcos’altro.»
Ranuncolo assaggiò con maggiore prudenza.
«Anche questo…»
«Ti dice qualcosa?», gli chiese Geralt avvicinandosi alle sue orecchie.
«Sì… Pepe…», rispose lui abbassando la voce.
Lo strigo si guardò attorno. Nessuno sembrava badare a loro.
«Ci chiedevamo dove fosse finito il carico della carovana.»
«Allora era davvero pepe… Ma, Geralt, non ha senso!»
«Cosa non ha senso? Che questa gente abbia rapinato la carovana? Che abbiano messo un mucchio di pepe nei piatti di questa sera? Perché poi? Per eliminare le prove?»
«Esatto! Tutto questo non funziona, non ha la minima logica!»
«Non posso darti torto…»
Ranuncolo cominciò a fissare le persone attorno a sé con ansia crescente. «Geralt, non mi piace, non mi piace proprio per niente! Tutto questo non è normale, questa gente ha qualcosa che non è normale… Andiamocene, prendiamo i cavalli e andiamo.»
«No.»
«Ma perché?»
«Ho accettato un lavoro, intendo portarlo a termine.»
«Tu credi davvero che ci sia un mostro, qui nel villaggio?»
«Non so se è esattamente qui nel villaggio, ma qualcuno ha distrutto quella carovana, e qualcosa mi dice che non è stata direttamente questa gente.»
Ranuncolo sospirò. «Va bene, facciamo come dici tu. Che si fa? E non dirmi che non lo sai…»
«Guardiamo i presenti, facciamoci un’idea di loro e vediamo se manca qualcuno che conosciamo.»
«Va bene, possiamo farlo…»
«Dividiamoci e ritroviamoci qui tra mezz’ora. E stai in mezzo alla folla ma evita di farti serrare la strada.»
«So come ci si muove in mezzo a una folla, sono nato per questo.»
Si salutarono con un cenno del capo e si allontanarono uno di schiena all’altro.
La gente mangiava e beveva sempre di più, alcuni si erano distesi per terra e continuavano a vuotare i boccali anche da lì.
Mezz’ora dopo, Geralt era tornato al punto di partenza. Ranuncolo non c’era.
Lo strigo aspettò. Si guardò attorno ma di lui non c’era traccia. Un quarto d’ora dopo il suo nervosismo si era tramutato in allarme. Cominciò a cercarlo tra i tavoli e in mezzo alla folla, ma sembrava svanito nel nulla.
In quel momento, la voce di Vergalio risuonò limpida e chiara.
«Amici! Prestatemi un po’ di attenzione. È con estremo piacere che ho offerto il cibo che stiamo mangiando e sono onorato di tutto quello che voi, di vostra volontà, avete aggiunto a queste tavole.»
Da più parti si levarono cori entusiasti. Vergalio alzò le mani issandosi sopra il palco dove i musicisti avevano lasciato gli strumenti.
«Lasciatemi continuare. Tutti siete i benvenuti a questa festa. Abbiamo due ragioni per festeggiare, non una sola! Come sapete, tra due giorni lasceremo questo posto… Saliremo sulle navi e attraverseremo il Dyfne, verso nord. So che può sembrare dura, ma non disperate! Abbiamo cibo in abbondanza e il nord ci accoglierà e ci sosterrà se saremo uniti, uniti come siamo adesso a questi tavoli! Bevete, amici miei, bevete!»
Geralt lo guardava esterrefatto.
«E adesso la seconda ragione. È con gioia infinita che vi annuncio il matrimonio di Bergàc e Polanna, che hanno deciso di festeggiare la loro unione in vista della nostra partenza. Questo viaggio non poteva cominciare con un auspicio migliore.»
La gente si sollevò da terra, la folla si aprì e tra loro comparvero i due sposi: lei vestita di un abito bianco che copriva il prosperoso seno, tra le braccia una cesto di fiori e una ghirlanda sul capo, a farle da corona.
Geralt guardò meravigliato lo sposo. «Il nasone del cancello?»
L’uomo, sorreggendo un naso notevole come le grazie della moglie, era rasato e indossava un abito elegante, quasi senza toppe. A Geralt parve che il suo passo nascondesse uno stato di leggera confusione e meraviglia. Lo strigo non riusciva a capire se lo invidiasse o meno.
Ma fu la persona dietro di loro a fargli spalancare gli occhi dalla sorpresa.
Ranuncolo avanzava alle spalle della coppia tenendo in mano un vecchio liuto. Muoveva le chiavi cercando di accordare lo strumento e intanto spronava lo sposo e inneggiava alla coppia. Lanciò uno sguardo imbarazzato a Geralt e poi seguì i due che erano saliti sul palco.
Vergalio li abbracciò e fece loro i migliori auguri.
«Mastro Ranuncolo», disse, indicando il poeta, «ha accettato di comporre una poesia come augurio per il matrimonio, ringraziamolo tutti quanti!»
«È solo una piccola cosa, un’improvvisazione…»
«Non sminuite le vostre capacità, maestro.»
Ranuncolo sorrise, suonò un accordo vibrante e cominciò.

Tutti avevano già fatto gli auguri alla coppia almeno una volta, molti gliene facevano ancora in una processione che sembrava non avere fine. Nessuno dimenticava poi di ringraziare Ranuncolo per la sua splendida esecuzione: alcuni si accontentavano di una parola e un piccolo segno di rispetto, ma ci fu anche chi gli diede qualche moneta, chi delle uova fresche, chi una fetta di formaggio.
«Geralt! Vieni qui!», gridò Ranuncolo cercando di non far cadere nulla della roba che aveva in mano.
«Tieni, aiutami un po’»
«Dovevamo trovarci là dopo mezz’ora…», disse lui prendendo in mano le uova.
«Sì, lo so… Ma mi sono imbattuto in loro due e hanno preteso che suonassi qualcosa per loro, come potevo rifiutare?»
«Già…»
«Su, complimentati anche tu con loro.»
Geralt si rivolse alla coppia che era lì accanto a loro.
«Felicitazioni»
«Grazie, mastro strigo», rispose Bergàc. «E grazie ancora a voi, poeta. Mi diletto anch’io di poesia, ma io sono soltanto un povero cadetto di provincia, voi siete davvero eccezionale.»
«È stato un piacere esibirmi in quest’occasione, davvero.»
Sorrise ancora verso di lui e poi si rivolse a Geralt: «Possiamo parlare un minuto?»
«Sì, certo. E tieni, Ranuncolo, riprenditi queste uova.»
«Ma come…?»
Geralt gliele lasciò tra le mani e poi si allontanò assieme a Bergàc, che si era appartato dopo aver avvisato la moglie.
«C’è qualcosa che volete dirmi?», chiese lo strigo.
«Effettivamente sì… Vergalio mi ha avvisato che state facendo un lavoro per noi, e voglio aiutarvi.»
«Come?»
«Vedete, non so se vi servirà… Ma c’è un luogo nel bosco, poco lontano da qui. È strano… C’è una lastra di pietra messa in orizzontale sostenuta da altre due lastre più piccole.»
«Un tavolo?»
«Qualcosa del genere… Sono anni che non ci vado, ma so che è ancora lì. La gente evita quel posto, gli animali stessi lo evitano. Io credo che dovreste andare a vederlo… Sempre che non abbiate tracce migliori.
«Forse… Cos’altro ha di particolare questo posto?»
«Non lo so… È un posto che fa accapponare la pelle. Ci si rende conto che c’è qualcosa d’altro lì, anche se non si vede cosa.»
Bergàc si fece pensieroso. Estrasse dalla tasca un pezzo di stoffa rossa, sembrava quel che restava di un vecchio mantello.
«È incredibile… L’ultima volta che sono andato là ero un ragazzino. Non mi ricordo perché ci andai, ma fuggii di corsa. Indossavo un mantello rosso… Oggi non ci avrei neppure pensato se Polanna, mia moglie, non mi avesse regalato questo…»
«Posso vederlo?»
«No! È mio!»
Bergàc urlò e tirò indietro le braccia, quindi rimise il pezzo di stoffa in tasca.
«Vi chiedo scusa, sono un po’ nervoso in questi giorni…»
«Vedo… Come posso arrivare a questo posto, allora?»
«È facile, ascoltate.»
Spiegò come arrivarci, quindi salutò e tornò da sua moglie.
Geralt raggiunse Ranuncolo, che nel frattempo si era liberato della coppia e degli ammiratori.
«Allora, che ti ha detto?»
«Mi ha dato qualche indicazione…», rispose Geralt. «Riguardo a quello che dovevamo fare noi, hai visto qualcuno?»
«Be’, all’inizio non trovavo Polanna e il marito, ma poi ho capito perché. C’è diversa gente che non ho visto: intanto la vecchia Mà…»
«Vero, ma vecchia com’è credo sia difficile che venga fin qui.»
«E non ho visto neanche il figlio di Vergalio, Astario…»

Astario salì la collina dove sorgeva la casa nel cipresso senza guardarsi indietro. I suoi passi erano sicuri, il suo proposito chiaro. Non avrebbe accettato nessun compromesso, nessun rifiuto.
Arrivò alla porta e bussò.
«Avanti!»
Il ragazzo entrò. Dentro, nella piccola stanza rotonda, la vecchia lo osservava seduta su uno sgabello.
«Oh, guardate chi c’è! Chi è venuto a farci visita!»
«Scusate la sorpresa, io…»
«Non è una sorpresa! Abbiamo smesso di sorprenderci molto prima che tu nascessi! E bada a quello che dici, altrimenti potrai pentirti di averci disturbate a quest’ora.»
Neppure Astario era sorpreso: era esattamente la reazione che si aspettava.
«Voi sapete chi c’è in città questi giorni, vero?»
«Ovvio. Tu lo sai?»
«Sì, io…»
La vecchia scoppiò a ridere.
«Lo sa! Lui lo sa!»
«E so anche cosa siete voi, e so che quindi arriverete a scontrarvi.»
Le risate della vecchia erano diventate convulsive, non riusciva più a stare sullo sgabello, rischiava di ribaltarsi ad ogni eccesso di risa.
«Incredibile! Incredibile!», strillò. «Sa tutto! Il più grande sapiente dei regni e si trova proprio in questo villaggio!»
Astario ne aveva abbastanza.
Si avvicinò a lei, gonfiò il petto e parlò nel modo più autoritario possibile.
«Voi vi prendete gioco di me, ma io sono l’unico qui disposto a fare quello che è giusto per voi! Io sono qui per proteggervi e giuro di difendervi anche a costo della mia stessa vita.»
Detto questo si inginocchiò davanti a lei.
La vecchia cercò di controllarsi e riuscì a ridurre le risate a striduli suoni soffocati che le scuotevano il petto.
«Bene, e cosa potremmo… Oh, guarda chi c’è!»
Astario sollevò il capo e la osservò andare alla finestra e prendere in mano un topo ricoperto di fiori.
«Bravo! Bravo piccolo! Proprio quello che ci serviva.»
Mise l’animale sul tavolo e gli diede una carezza dietro l’orecchio.
«Ci hai impiegato tanto, stavolta… Hai avuto un contrattempo?»
Il topo mosse su e giù la testa.
«Non preoccuparti, sei stato bravo. Son tutti quelli di cui avevamo bisogno. E si era parlato di un premio, giusto?»
Lui drizzò le orecchie.
La vecchia prese un involto di carta da un cassetto, lo mise sul tavolo e ne tirò fuori un grosso pezzo di formaggio. L’aroma pungente si sparse subito per la stanza. Astario annusò perplesso.
«Ma questo odore…»
«Sì!», strillò la vecchia. «È il formaggio della tua cantina. Siamo andate a prenderlo a casa tua. Ti abbiamo visto mentre dormivi… Sembravi proprio uno spiritello dei boschi!»
Astario cominciò a sudare. L’immagine della vecchia accanto al suo letto gli fece venire i brividi lungo la spina dorsale. Il topo intanto si era gettato sul formaggio e mangiava con estremo piacere.
«Allora… Vuoi ancora proteggerci?»
«Sì, lo voglio!»
La vecchia rise di nuovo.
«La seconda volta che ci sentiamo rivolgere questa frase da un bel giovane, dovremmo essere lusingate! Aspetta qui.»
Oltrepassò la tenda che nascondeva l’altra stanza. Astario sentì dei rumori metallici, poi lei tornò nella stanza trascinando un’enorme spada di metallo. L’elsa aveva la forma della testa di un leone ruggente, la lingua formava la lama, mentre l’impugnatura, là dove ci sarebbe stato il collo del leone, era formata dai peli della criniera che si avvolgevano l’un l’altro. No, a guardare meglio, sembravano delle zampe artigliate che si stringevano in un’unica spirale.
La vecchia teneva il manico verso l’alto e trascinava la spada che segnava il pavimento con la punta. La lasciò cadere ai piedi di Astario.
«Raccoglila.»
Lui si alzò, allungò cautamente la mano verso la spada e strinse l’impugnatura. Contrasse le braccia ma non riuscì a smuoverla. Si spinse con le gambe, tirò fino a tendersi tutti i muscoli del collo, fece forza fino a gridare, ma la spada rimase ferma a terra.
Lui lasciò la presa e cadde all’indietro, senza fiato.
«Così non va…»
La vecchia si avvicinò, superò la spada mentre Astario strisciava sulla schiena cercando di allontanarsi da lei.
«Io… Non posso! Non posso, mi sono sbagliato!»
«Sì, che puoi. Ma non così…»
Lei prese il topo nella mano destra. Quello stava ancora mangiando il formaggio. Osservò gli occhi della sua padrona mentre lo prendeva. Gli parvero molto tristi. Furono l’ultima cosa che vide.
Lei strinse la mano destra di Astario nella sua: le dita strette formavano una gabbia attorno al topo che cominciò a squittire.
Astario gridò, cercò di divincolarsi ma la presa della vecchia era d’acciaio. Cominciò a stringere ancora di più mentre catturava con lo sguardo i suoi occhi e li teneva avvinti a sé.
La mano divenne incredibilmente calda, sembrava di avere le dita in una fornace. Astario percepiva il topo gemere, muoversi nel suo palmo, e poi lo sentì. Il morso. E poi i graffi. I muscoli che venivano tagliati dall’animale che cercava una disperata via di fuga da quella prigione bollente.
Urlarono entrambi, il ragazzo e l’animale, mentre lei stringeva sempre di più. Poi il topo smise di mordere. Astario sentì qualcosa di caldo colargli tra le dita mentre i suoi occhi erano prigionieri di quelli della vecchia. Il calore aumentò, la carne bruciava, il grasso colava e qualcosa scricchiolava tra le sue ossa e sopra la sua pelle.
Poi cominciarono gli spasmi, contrazioni calde e improvvise che dall’avambraccio si trasmettevano alla spalla, le vene che portavano fuoco liquido ai suoi muscoli che si contraevano come se volessero sparire dall’esistenza.
Poi fu luce, una fiamma che salì dalla sua gola e gli fece scoppiare gli occhi, una luminosità che non usciva dalla sua bocca spalancata, dalle ordite vuote e dalle orecchie, ma sfumava da esse perdendosi sopra il soffitto, bruciando Astario nel suo cuore rovente e consumando quello che aveva di giovane e umano.
Quando tutto finì, la vecchia guardò quello che aveva fatto e sorrise.
«Vuoi essere il nostro campione?», chiese.
E la cosa rispose: «Sì.»
  
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