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Autore: Francine    07/07/2014    5 recensioni
Devo alzarmi, si dice mentre abbassa la testa sulle ginocchia. I suoi jeans preferiti sanno ancora dell’ammorbidente alle rose che usa sua madre.
Eppure, anche se sa che a quest’ora Alberto starà già istituendo delle squadre di ricerca ed avrà allertato tutti gli ospedali, la polizia, la finanza e i Carramba, lei non riesce ad alzarsi sui tacchi e a rientrare nel locale. Qualcuno la sta osservando.
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mosquito
 
Roma, 07/07/07
1.
 
Le canzoni dicono il vero.
Ne è sempre stata convinta, e questo perché, come per la maggior parte delle forme letterarie, i testi nascono dalla sensibilità e dalle esperienze vissute dai parolieri. Specialmente da quest’ultime; e se un solo essere umano ha provato quelle sensazioni e quelle emozioni che sono poi state messe in musica e parole, per quale ordine cosmico non sarà possibile che anche qualcun altro abbia sentito quelle medesime sensazioni ed emozioni sulla propria pelle?
Lei, adesso, comprende come siano vere ben due canzoni, ed entrambe dello stesso autore. Infatti si sente fuori dal tempo, come se stesse guardando il mondo da un oblò. Per una che detesta con tutta se stessa Gianni Togni, è il non plus ultra. 
Sto messa bene.
La roba, ultimamente, non è più della stessa qualità. Che l’abbiano tagliata male?, pensa, la schiena appoggiata ad un muro umido. Da qualche parte, dentro di lei, l’istinto di sopravvivenza le ricorda che non è prudente stare da sola in un posto come quello, nelle sue condizioni. Lei non l’ascolta. Ha smesso di farlo sei mesi fa, e se, quella volta in macchina davanti al belvedere di Orvieto, avesse dato retta a quella vocina che le gridava di scendere di corsa dall’auto e di tagliare i ponti con Stefano, adesso non si troverebbe in quel vicolo, con la borsa a terra e il tubetto vuoto ancora tra le mani.
Inutile piangere sul latte versato, si dice, convincendosi che, se ha portato alla bocca quei confetti in quella sera di Gennaio, quando i vetri erano appannati dal loro alito e la musica pompava a palla dallo stereo, mentre nelle macchine attorno le altre coppie facevano l’amore, se l’ha fatto è stato soltanto perché lei lo voleva. Pura curiosità. Curiosità di sapere, di sperimentare sulla propria pelle cosa si provi a spararsi una dose, come sia il dopo, quando il mondo diventa un posto migliore e tutto attorno a te brilla come le vetrine del Corso a Natale.
I racconti di Stefano erano sempre troppo blandi per lei. Così, quella sera, pur sapendo a cosa lei stesse correndo incontro, pur sapendo che Stefano si faceva di roba pesante, pur sapendo che difficilmente avrebbe resistito alla voglia di provare com’era, era salita sulla sua TT argento, e quando l’auto si era fermata davanti alle mille lucette del cimitero di Orvieto, che illuminano in modo lugubre il belvedere di notte, non si era stupita più di tanto. Anzi: l’adrenalina e la curiosità l’avevano resa impaziente. Voleva vedere la siringa, voleva vederlo tirarsi su la manica destra – Stefano è mancino – e voleva vedere come si prepara la dose.
Quando aveva visto l’ago zampillare un paio di gocce, sapeva che non sarebbe mai e poi mai diventata una habitué degli spacciatori e delle dosi preparate sul cucchiaino, ma non aveva messo in conto che le droghe si possono assumere in svariati modi.
Così, quando Stefano era riemerso dal languore – come lo chiamava lui – le aveva detto: «No, per te ci vuole altro, una roba dell’ultim’ora…» e le aveva dato delle pasticche come se fossero state caramelle alla menta, lei ne aveva mandate giù un paio. Sarebbe stata questione di una volta sola, così, tanto per provare. Che male avrebbero potuto farle un paio di pasticche? Non avrebbe mai dato il suo braccio a Stefano, aveva troppa paura degli aghi e del sangue per cascarci. E poi, lei, non è una stupida. Ed erano solo pasticchette innocue di un bel verde smeraldo.
Ecco perché, adesso, sa che deve passare due mani di correttore per coprire le occhiaie e usare molto collirio per gli occhi arrossati, accendersi una sigaretta e lasciare che la nicotina le impuzzolisca per bene dita e fiato.
Ripassa la scusa. È andata in bagno ad incipriarsi il naso. Poi ha deciso di farsi una delle quattro sigarette giornaliere, ma siccome ha lasciato il pacchetto in macchina, e siccome non c’era nessuno cui poterne scroccare una, e siccome nel locale manca l’ossigeno – colpa di tutti quegli sfigati che affollano il Transilvania credendo alle balle sul proprietario vampiro – ha preso le chiavi in borsetta e ha fatto quattro passi per strada. 
Alberto comincerà a farle un sacco di storie. Già lo sente. «E perché mai non mi hai chiamato?», e altre frasi assurde che le darebbero fastidio se a pronunciarle fosse Stefano, figuriamoci il fidanzatino buono, il figlio dell’amica del cuore di mamma, che le sbava dietro da quando andavano alle medie. 
Patetico.
Alberto non sa niente, né di Stefano, né del suo vizio. Né si è accorto che diserta i controlli per l’anemia. Ovviamente, non l’hanno più vista in alcun laboratorio di analisi da quando ha cominciato a farsi. Non è sicura che l’uso di quelle pasticche possa risultare dalle semplici analisi del sangue, Stefano dice di no, pur tuttavia, perché rischiare? Infondo, lei ha paura degli aghi, no? Ha paura di vedere il sangue uscire dalla vena ed incolonnarsi su per quella dannata siringa di plastica. Le gira la testa. Sente le orecchie ronzare, e le fanno male le vene dei polsi. 
Vampiri, ecco cosa sono gli infermieri. Fanno la faccia da professionisti, cui il sangue non fa né caldo, né freddo e poi godono un mondo nel fare il loro sporco lavoro. Oh, con quale faccia compiaciuta quel maiale l’ultima volta le aveva cacciato l’ago in vena e subito dopo aveva versato il suo sangue rosso scuro in mezza dozzina di provette dal cappuccio colorato! E lei era lì, alle sue spalle, bianca come un cencio, con il laccio emostatico bello stretto sul braccio, a tenersi un tampone d’ovatta per arrestare il suo umore rosso.
La vittima nel castello di Nosferatu, aveva pensato cercando di concentrarsi su qualcos’altro che non fosse la vista del proprio sangue che usciva dal suo braccio.
Con le anfetamine era diverso. 
Non usciva niente, anzi, era come una macchina che faceva il pieno, solo che al posto della benzina e dell’erogatore col grilletto – e lei ce l’aveva sin troppo facile, come quella volta che l'aveva rilasciato prima di inserire la pistola nel condotto, battezzando i pantaloni nuovi di sua sorella – c’era una piccola pasticchina, come quelle che prendeva da bambina quando aveva mal di testa.
Poi, quando la pillola si scioglieva in bocca, tutto era finito e lei s’incamminava in un paradiso artificiale, sì, ma decisamente migliore di quelli in commercio. Un po’ salato magari, ma come si dice? Chi più spende meno spende.
Sorride. Ricorda di una dottrina filosofica che calzerebbe a pennello per il suo modo di vedere le cose, solo che non ricorda il nome della scuola. Erano quelli che sedevano sotto al portico, o quelli che filosofavano camminando? Si sforza, ma niente, l’unica cosa che le viene in mente del periodo in cui è stata costretta ad accostarsi alla filosofia greca, è la faccia rubizza della sua professoressa. 
Che pensiero cretino, si dice cercando di mettere a fuoco l’ora.
Da quanto è via? Mezzora? Tre quarti d’ora? Le lancette sul quadrante appaiono sfocate, due linee nere su un fondo avorio, e i brillantini sulla ghiera dell’orologio non aiutano, anzi. Riflettono la luce dell’unico lampione del vicolo con un’intensità tale da farle male agli occhi. Come un caleidoscopio. 
Devo alzarmi, si dice mentre abbassa la testa sulle ginocchia. I suoi jeans preferiti sanno ancora dell’ammorbidente alle rose che usa sua madre. 
Eppure, anche se sa che a quest’ora Alberto starà già istituendo delle squadre di ricerca ed avrà allertato tutti gli ospedali, la polizia, la finanza e i Carramba, lei non riesce ad alzarsi sui tacchi e a rientrare nel locale. Qualcuno la sta osservando. 
Vedi, che ti avevo detto? Adesso sì che sei nei guai.
Alza la testa, in direzione dell’impiccione di turno. È dall’altra parte del vicolo, le braccia stese lungo i fianchi, fisso immobile con le spalle rivolte ad un lumino sopra un’edicola piena di ex-voto. Capelli medio lunghi, non molto alto, ma non riesce a capire se si tratti di un uomo o di una donna.
E se fosse un manico? O uno schifoso drogato? E se…
Ruggisce alla sua coscienza di starsene zitta. Probabilmente avrà visto tutto. In genere, le racconta sempre Stefano, la gente si volta dall’altra parte, o va a chiamare la polizia. È quando si fermano a fissarti, che ti devi preoccupare: o è un maniaco che vuole farti, oppure qualcuno che cercherà di derubarti. O che ti chiederà di lasciargli una piccola dose per lui.
Guarda il tubetto, inconfondibile, che tiene ancora tra le mani. Vuoto. S’è ciucciata tutte le pasticche. 
Al diavolo, che ne sapevo che avrei avuto compagnia? 
Ad essere onesti, le dà fastidio dover dividere qualcosa con gli altri. Quella dose se l’è procurata attingendo dal suo conto in banca. È andata allo sportello bancomat, ha inserito la sua tesserina magnetica, ha digitato il suo codice personale ed ha prelevato i suoi centocinquanta euro, metà dei quali sono andati a Luca il Tossico, che bazzica delle parti della Piramide e che la rifornisce sempre di roba buona. Tranne stasera. Non deve essergli ancora andato giù il suo rifiuto. 
Luca le ha più volte fatto intendere che, se solo lei volesse, potrebbero lasciare da parte la questione dei soldi e tornare al caro, vecchio sistema di commercio, tuttora in voga tra quelle popolazioni aborigene dell’Amazzonia incontaminata: il baratto.
Lei scuote la testa ogni volta. La donna dello spacciatore? No, grazie.
Quanto ci metterebbe Luca a pomparla con roba veramente buona per sbatterla poi sulla strada ad arrotondare un po’? Tempo zero, e passare la serata con degli sconosciuti tra le cosce per elemosinare una dose è un’esperienza che si è imposta di non voler mai provare. 
Fin tanto che può comprare normalmente le cose, perché cadere in basso? Sono le ragazze di periferia che battono, non quelle che frequentano l’Università fuori sede, ma le commesse, le sciampiste e le cassiere dei supermercati che non potranno mai essere al suo livello.
Lo sconosciuto è sempre lì, davanti a lei, fermo come uno stoccafisso. Prova a metterlo a fuoco, ma niente. Si alza, ma non riesce a lasciar andare il tubetto. 
«È vuoto, mi dispiace», fa mostrandoglielo. 
Lui non si muove. Lei fa spallucce, raccoglie l’accendino e si accende una sigaretta. 
«Posso dartene una se vuoi. Anzi, tutto il pacchetto», gli dice prendendolo dalla borsetta di raso nera, in tinta con le scarpe, i jeans e la maglia con un gran fiocco sul davanti, che le lascia scoperta la schiena abbronzata. Niente reggiseno. Stanno su da sole e detesta quelle patetiche linguette di plastica trasparente che si vedono lo stesso sulla pelle color caffellatte.
Prima tirata.
Lo sconosciuto non risponde, né si muove. Lei si tortura le labbra, un braccio sotto quello piegato che tiene la sigaretta accesa, e lo fissa. Che sia ubriaco? O magari strafatto, peggio di lei? La sua coscienza, nelle vesti della solita vocina petulante, le invade la mente urlandole di girare sui tacchi e correre quanto più presto possibile da Alberto, Gianni e gli altri.
È il tuo compleanno, Luna! Sei tu al centro dell’attenzione, stasera!
Lei risponde di no: Gianni, Stella e Michele sono venuti solo per far contento Alberto. Lei non piace a nessuno di loro, e la cosa è reciproca. Perché dovrebbe tornare da loro, che sono così mosci da passare un sabato sera al Transilvania? Per ricevere i loro sorrisi di plastica e pagare il primo giro di bevute di tasca sua? Oppure per ricevere l’ennesimo completino di un colore assurdo e di una taglia sballata? 
Seconda tirata e il fumo si perde nell’aria calda e umida.
Stella non la delude mai. Ogni anno, la stessa liturgia. Lei che spegne le candeline, e Stella che le porge la bustina di carta pesante, declinata in un tono pastello degno della migliore boutique di lingerie di Roma, la stessa bustina che tiene in mano quando si incontrano davanti al locale/pizzeria/ristorante scelto per l’occasione.
È Stella che va in missione per tutti i regali. È convinta, con uno zelo pari a quello di un missionario dell’Ottocento, che lei adori più di ogni altra cosa la lingerie, e per questo nel corso degli anni l’ha riempita di completini in toni pastello, assemblati alla cieca, con le mutandine sempre troppo grandi e il reggiseno di una misera prima. 
Per una volta, Stella e i suoi completini da educanda possono anche andare a farsi fottere, pensa lei, decisa a scoprire chi sia quel tizio misterioso che la sta osservando senza dar segni di vita. Morto non può essere, ubriaco nemmeno, perché non barcolla, anzi: sta ritto e rigido come una candela appena uscita dalla cereria.
Luna si avvicina, i boccoli biondi che danzano nel vento caldo dell’estate. 
«Tutto ok?», domanda allo sconosciuto. Lui non si muove di un millimetro, e lei pensa che sia una di quelle sagome che i giornalai mettono fuori dalle edicole per pubblicizzare i dischi. 
Una volta era così scoppiata che aveva attaccato briga con un tizio che la stava fissando un po’ troppo per i suoi gusti. Così l’aveva prima avvisato e poi colpito, mentre Stefano rideva come un pazzo. Lo scocciatore era andato giù e lei aveva scoperto, alla luce di un lampione mezzo fulminato, che non si trattava di un maniaco, ma di Topolino. Se ne stava lì, con le orecchie, il farfallino e quel sorriso da idiota a braccia aperte, come se non chiedesse altro che di essere preso ancora a botte.
Stefano rideva. «Hai fatto più tu di Gambadilegno in anni di storie».
«Hai ragione!», gli aveva risposto ed erano rimasti a ridere come due scemi.
Che sia una sagoma anche questa?,pensa ricordando di aver visto delle lavagne su cui i gestori scrivono il menu del giorno. Il pub scozzese su Corso Vittorio ha un tizio con il gonnellino e la cornamusa che regge con le sue manacce una lavagna. Se qualche locale del genere avesse avuto la stessa brillante idea, e lei lo colpisse perché esasperata da quel silenzio, si romperebbe una mano. E Alberto la porterebbe di gran carriera al Santo Spirito.
Ospedale.
Analisi.
Cloroformio e luci al neon.
E aghi.
Stai calma, ok? Non fare cazzate e stai calma. 
Lo sconosciuto è sempre in ombra, la luce del lampione che gli accarezza le spalle. Luna ha una strana impressione. È come se la luce cercasse di scaldare quel tizio, come se, nonostante l’afa e il caldo di Luglio, la schiena di quell’uomo fosse fredda.
«Do you speak english?» chiede ricorrendo all’inglese, il fumo della sigaretta che si perde nella pallore della luna.
«Yes I do». E basta.
Ok, questo tizio non vuole essere disturbato. Sorride, fa un gesto scrollando la cenere a terra, e se ne va. «Bye bye», lo saluta agitando la mano libera e torna dai suoi amici. Di assurdità ne ha le tasche piene, per quella sera. Vuole starsene fermo come un baccalà in un vicolo che puzza di piscio? Facesse un po’ come gli pare…
Terza tirata. La mano di lui sulla sua spalla nuda. 
«Aspetta…». 
Quando si è avvicinato? Come ha fatto? Non l’ho sentito muoversi, e qui è pieno di sampietrini, pensa lei con un brivido lungo la schiena.
Poi incontra i suoi occhi. Blu scuro e talmente profondi da risultarle innaturali. Scuri e lucenti come le bacche di sambuco che coglieva con suo nonno da bambina. Pelle di luna, labbra carnose e voce profonda. È più alto di lei, un metro e novanta, quasi. Indossa un completo scuro, come i suoi capelli, un po’ mossi e ribelli,e una camicia chiara con un bel collo inamidato. Profuma di soldi lontano un miglio.
«Ti ho spaventata?».
Tu che dici? «No. Non ti ho sentito arrivare…», risponde, invece. «Tu parli italiano?».
«Sì» risponde lui con un marcato accento tedesco a macchiargli la voce.
«E allora perché non…»
Sorride, e le sembra che le sia esploso un fuoco d’artificio in pieno petto. Fallo ancora. È quasi meglio delle pasticche… «Scusami. Devo aver alzato un po’ troppo il gomito, stasera».
«Non preoccuparti, sono abituata alle stranezze», replica lei, scrollando la sigaretta per l’ultima volta. Il mozzicone cade a terra e si insinua tra un sampietrino e l’altro, evitandole di alzare il piedino e di schiacciarlo sul porfido. «Pensa, ho un’… amica, che ogni anno mi regala sempre un completino intimo, e sempre della taglia sbagliata».
Perché gli racconta una cosa simile? Forse perché di fronte ad uno sconosciuto che non s’incontrerà più, ci si sente liberi di confidarsi senza remore? Ma lei quel tizio non lo rivedrà sul serio mai più? No... 
«E ogni volta vai a cambiarlo».
«Macché!», replica scrollando i riccioli biondi e spargendo il profumo della lacca attorno a sé. «La merce comprata saldo non si cambia».
«Deve essere seccante», commenta lui, e lei si rende conto di quanto sia affascinante la sua bocca. Non solo per una questione di labbra, ma per i suoi denti. Sono perfetti. Da pubblicità. Lei sorride di meno. Si sente in soggezione per quei suoi canini sgraziati e grossi che le sono nati fuori dalla cavità. Troppo grandi per uno spazio troppo piccolo.
«Mah, io c’ho fatto il callo», dice sollevando le spalle. «Che vuoi, quando nasci a Luglio è automatico che la gente acquisti il tuo regalo con lo sconto».
Una risatina soffocata.
«È il tuo compleanno?».
Intuitivo, pensa lei. «Aspetta…», uno sguardo all’orologio che adesso brilla con minore intensità. «Esatto, da dieci minuti».
«Posso farti gli auguri?».
«Lo stai già facendo, anche se non so il tuo nome».
«Emil. Emil Sinclair», le dice porgendole una mano vellutata e fredda. «Come quello del romanzo. E il tuo?».
Quale romanzo? «Luna. Luna Olimpia Colapicchi». Si presenta a sua volta, mentre sente la pelle scottare un po’ dove lui l’ha sfiorata appena con le labbra.
«Luna…», mormora lui assaporando quelle quattro lettere.
«Luna, sì. E non ridere, perché non è divertente», lo ammonisce, ben sapendo che lui svetta su di lei di quasi trenta centimetri. 
Chissà perché mi sembrava basso, prima. Sarà l’effetto della roba tagliata male? Ma che mi ha dato Luca? Mentine?
«Non si deride mai una signora. Specialmente il giorno del suo compleanno».
Sorride ancora ed ecco di nuovo quella sensazione di farfalle allo stomaco. «E poi, io trovo che il tuo nome sia grazioso». 
«Grazie. Sai com’è, a mia madre piaceva una canzone che andava di moda quando aspettava me, e così…».
«Doveva essere una bella canzone…», commenta lui, galante, e lei arrossisce un po’.
«Mah, una banale canzonetta estiva». Liquida la faccenda con due parole. Il suo sentirsi speciale crolla ogni volta che ripensa al perché sua madre le ha imposto un nome che, a conti fatti, è dato ai barboncini bianchi.
«Non credo di conoscerla. Potresti cantarla per me?».
Lei lo guarda perplessa. Sbatte le lunghe ciglia ricariche di mascara allungante, si dice che non sarebbe mica male entrare nei ventitré anni con un fico simile sottobraccio; poi il cervello le mostra l’immagine di Alberto, che a quest’ora starà cercandola disperato assieme ai sommozzatori, convinto che sia stata rapinata, violentata e buttata nel Tevere.
«Qui?», chiede. «Ma…».
«No, non in questo vicolo». Lui sorride e lei si sente calamitata da quei pozzi blu notte che ha al posto degli occhi. «Andiamo in un luogo più consono…».
«Casa tua, magari?».
Lui la fissa, seccato. «No. Intendevo un luogo ben illuminato, dove io possa vedere in faccia te e tu me. Avevo pensato d’invitarti a passeggiare lungo il Tevere, ma evidentemente non ti interessa. Buona serata e ancora auguri». E se ne va da dove era arrivato.
Non sa nemmeno lei perché, ma decide di fermarlo. 
«No, aspetta! Scusami, non volevo essere così sgarbata!», si sente dire alle spalle larghe di Emil. Lui continua a camminare, come se le sue parole non gli facessero alcun effetto. Lei non demorde. È veloce, e si ritrova costretta a correre, la borsetta a tracolla e il fiato corto, mentre lui sembra andare adagio, come un vecchietto.
Alla fine, la stradina sfocia su Lungotevere degli Inventori. Il Mattatoio è a sinistra, Trastevere oltre il fiume. Lui l’aspetta, sotto un platano enorme, dall’altra parte del marciapiede.
«Certo che sei strano, tu…», gli dice non appena lo raggiunge.
«Io? Davvero?», fa lui cadendo dalle nuvole. «E tu, allora? Prima mi fai capire che hai paura di me, e poi mi segui?».
«Senti, ho esagerato, ok. Ma cerca di metterti nei miei panni. Sei una ragazza, sola, in un vicolo, ed un bel ragazzo ti chiede di seguirlo chissà dove. Tu non avresti paura?».
«Ma poi l’hai fatto lo stesso no?», commenta lui incrociando le braccia.
Lei fa spallucce. «Ho deciso che il gioco valeva la candela».
Emil sorride e le fa posto accanto a sé. «Potresti cantare per me quella canzone?», le chiede e lei, senza neppure sapere come, ripesca quelle parole dal cassetto più profondo della sua memoria. 
La sua voce si trasforma in canto e si alza leggera verso la Luna piena, senza melodia, senza accompagnamento, dando a quelle parole il ritmo che le piace. Lui la sta ascoltando, lo sente accanto a lei sintonizzarsi sulle parole che canta e sul tono che traspare dalla sua – penosa – interpretazione.
«Bella. Magari un po’ scontata, è vero, ma ha un suo fascino», commenta quando lei termina la sua esecuzione.
«E non hai sentito l’assolo di violini…», aggiunge Luna, chiedendosi se assolo in quel caso sia la parola giusta.
«Immagino…». Lui non commenta, forse per educazione, forse perché lei c’ha preso.
Restano a fissare la luna sopra le loro teste splendere come se dovesse esplodere da un minuto all’altro.
«Ti piace la luna piena?», le chiede lui dopo un quarto d’ora buono passato in silenzio.
«È molto romantica», risponde, mentre l’immagine di Stefano, che troneggia sempre nei confronti che fa tra il suo fidanzato di facciata e quello reale, sbiadisce a confronto con il bel ragazzo che si ritrova accanto. «A te?».
«La trovo deliziosa», e lo dice come se stesse assaporando un pezzo di formaggio delicatissimo. «Trovo sia un peccato associarla ai lupi mannari…».
«I licantropi, intendi?».
«Precisamente…».
«Beh, ma anche ai vampiri, no?».
«In misura minore», replica lui. «Ancora mi chiedo come si possa collegare un simile gioiello a quelle bestie ributtanti».
Sembra punto sul vivo. Oddio, non sarò incappata in un altro pazzo che crede di essere un vampiro come il proprietario del Transilvania?, si domanda Luna accavallando le gambe.
«Vedi, io sto facendo l’Erasmus alla Sapienza».
«A quale Facoltà sei iscritto?».
«Scienze Umanistiche. Lingue e Letterature Straniere. Quadriennalista di Tedesco».
«Nuovo o vecchio Ordinamento?».
«Vecchio. E tu?».
«Anch’io. Sto a Scienze della Comunicazione, ma non sono di Roma.».
«Ah no?».
«No, sono di Orvieto. Conosci?».
«Sì, bella città. È anche vicina, giusto?».
«Sì, ma non abbastanza perché il fidanzato rompiscatole piombi qui ogni fine settimana…».
Lui ridacchia. «Povero me. Non solo ti rapisco ai tuoi amici, ma anche al tuo fidanzato!», dice coprendosi gli occhi con una mano. «Mi aspetterà sotto casa tua con le pistole pronte?».
«Può essere».
«Bene, almeno so di che morte morire…».
«Stavi dicendo, prima che t’interrompessi?».
Lui si specchia nei suoi occhi azzurri, poi torna a guardare la luna. 
«Mi sto specializzando nel filone gotico…», e lui inizia a raccontarle dei suoi studi, delle sue passioni, e dei libri – tanti – che ha divorato come se fossero i rebus della Settimana Enigmistica che lei risolve in spiaggia mentre prende il sole. E lei si perde in quei castelli dalle mura grigie, le finestre perennemente battute dalla pioggia e fantasmi, e cripte, e sacrari nascosti in cantina, come i prosciutti che zio Lanfranco custodisce all’insaputa di sua moglie Benedetta.
«Devo farti vedere il tesserino universitario per convincerti del fatto che non ho cattive intenzioni?», le domanda fissandola dritto in viso.
«No, ti credo», risponde lei. «Ricominciamo da capo?».
Le prende la mano sinistra, e sente appena le sue labbra sfiorarle la pelle. «Sono Emil Sinclair. Per servirti».
«Luna. Luna Olimpia Colapicchi», si presenta a sua volta, mentre sente la pelle scottare un po’ dove lui l’ha sfiorata appena con le labbra.
Parla in un modo strano. Forse sarà per via dell’accento tedesco che gli indurisce la voce, forse perché lui è un tipo un po’ sui generis. C’è qualcosa di bizzarro in quel ragazzo, e questo a prescindere dal suo modo di parlare e dall’estro, per così dire, del suo abbigliamento: è la sicurezza che dimostra ad ogni battito impercettibile delle sue lunghissime ciglia scure ad irretirla, a farla sentire come una mosca nella tela del ragno. E lei scopre che questa sensazione le piace.
«Ti spiace se fumo?», domanda estraendo un’altra sigaretta dal pacchetto e cercando l’accendino nella borsetta e armeggiando con la rotellina. 
Lui glieli toglie delicatamente dalle mani e li lancia in un cassonetto aperto, poco distante.
Sigaretta e accendino s’insaccano con una parabola perfetta, sparendo con un tonfo sordo. «Perché sporcarti la bocca con quella schifezza?», domanda lui sorridendo. «Conosco molti altri modi per divertirsi…».
Se l’avesse fatto Alberto quello che ha fatto lui, adesso se ne starebbe a testa in giù nel cassonetto a cercarle accendino e sigaretta. Invece, Luna non riesce a dire nulla. Lui sorride, come attendendo una sua risposta. 
«E cioè?», domanda lei, mite, ricacciando il pacchetto nella borsa.
Il sorriso contagia gli occhi blu scuro di lui. «Passando ho visto alcune discoteche, lungo il Tevere. Che ne diresti di andare lì, ad esempio?».
In discoteca? Luna fa un passo indietro. «Spiacente, ma è proprio da un disco-pub che sto scappando», risponde lei scuotendo i boccoli biondi. «Vista una, viste tutte».
«Scommettiamo?», domanda lui mentre la luna bacia il logo d’argento della spilla che gli ferma il foulard.


 
2.
 
«Il DJ ci sa fare, vedrai».
Di discoteche alternative ne ha conosciute a dozzine nella sua vita e tutte, caso strano, erano reclamizzate come la migliore sulla piazza, la più cool, la più radical-chic della Capitale. Questa dove Emil la sta portando si chiama Mosquito. Il nome è un po’ abusato. Tanto abusato. E non va più da almeno un paio d'anni. Quando lui gliel’ha detto, mentre sfrecciavano sull’Ardeatina male illuminata, ricorda di aver fissato la luna e di aver sorriso. 
«E che tipo di musica metterebbe?».
«Vedrai. Moritz è un po’… particolare, ma in fatto di scelte musicali, sa il fatto suo», risponde salendo in quinta. 
«Il tipo giusto nel posto giusto al momento giusto?».
«Non proprio. Lo definirei, piuttosto, il tipo giusto al momento giusto in un posto destinato ai migliori, mia cara», e qualcosa dentro di lei le dice che è la verità. 
All’altezza di via di Tor Carbone, la Bentley GT Continental grigio perla imbocca una svolta a sinistra, inserendosi in una stradina laterale, sterrata, che costeggia la strada accanto a delle villette a schiera ad un piano, dal tetto rosso scuro e tutte le luci spente. 
Dove ve ne andate? Statevene a casa a dormire!, sembrano dirle quelle finestre spalancate sul buio. E lei vorrebbe rispondere loro che dormire è un’idiozia. Una perdita di tempo.
Quante cose si possono fare mentre si dorme?
Quante cose si possono vedere?
Quanto a lungo si può ballare?
E lei dovrebbe privarsi della stragrande maggioranza dei piaceri della vita solo per schiacciare un sonnellino? 
Ma stiamo scherzando?
«Eccoci».
La fila per entrare è lunghissima, la vede chiaramente prima ancora che lui fermi il motore e consegni le chiavi dell’auto ad un ragazzo con indosso una divisa rossa dai bottoni dorati. Lei osserva la scena incredula, stupita dalla naturalezza e dalla noncuranza con cui Emil consegna le chiavi di quel gioiello ad un tizio sui diciotto anni che assomiglia ad una di quelle scimmiette ammaestrate che un tempo suonavano l’organetto agli angoli delle strade. 
«Andiamo?» e lei lo segue, docile, verso l’ingresso.
Ci saranno una cinquantina di persone in fila, e Luna teme che faranno giorno attendendo il loro turno, ma lui le posa una mano sulla spalla ed avanza assieme a lei, mentre la coda si apre in due al loro passaggio. 
Il buttafuori, non appena scorge la chioma un po’ scarmigliata di lui, sposta di peso un ragazzo e si piazza davanti ad Emil. Solleva gli occhiali scuri che porta sul viso olivastro e fissa per qualche secondo di troppo la spilla che ferma il foulard di seta del ragazzo tedesco.
«Sa quello che sta facendo, signore?», domanda con un tono secco e asciutto, molto professionale, che desta l’ammirazione di Luna, nonostante quell’ammasso di muscoli abbia rovinato la loro entrata trionfale.
«Stai tranquillo, Claudio», gli sorride Emil. «È stato Moritz ad invitarmi alla sua festa di compleanno. Vuoi vedere l’invito?».
«Non ce n’è bisogno, signore», replica Claudio sistemandosi gli occhiali. «Debbo annunciarvi, o preferisce fare una sorpresa?».
«Tu, Luna? Che ne dici?», le domanda Emil, ricordandole all’improvviso che non sta guardando un film in tv. «Annunciazione o sorpresa?».
«Sor… sorpresa…» balbetta lei guardando quegli occhi blu in cui annegherebbe persino Maiorca, con il dubbio di aver scelto la risposta giusta.
«Hai sentito cosa ha detto la signora, Claudio?».
«Certo, signore, come preferisce», ed apre personalmente la porta. «Prego. Signora. Signore», aggiunge sorridendo, ed Emil, con una grazia che farebbe sembrare la migliore top delle model una papera sgraziata, infila l’entrata con lei sottobraccio come se stesse tornando a casa.
«Alles Gute zum Geburstag, Luna», le sussurra lui. «Buon Compleanno, Luna».
Cool è l’aggettivo che per primo le viene in mente, ma neppure quello riesce ad esprimere al meglio l’ambiente in cui si trova. La pista è una distesa di teste che danzano a tempo di musica. Nessuno si muove fuori tempo. Nessuno ha l’aria di stare nel posto sbagliato. Nessuno fa da tappezzeria.
Fiaccole accese lungo il perimetro a fare atmosfera, odore di fiori bianchi nell’aria, e il Te, Deum riarrangiato in chiave techno. Luna non sa più dove guardare, gli effetti delle pasticche amplificano le sensazioni attorno a lei. Emil avanza verso il centro della pista e la trascina con sé. Lei si sente tutti gli occhi puntati addosso, ma non è come quando passeggia per Orvieto con la microgonna di jeans sfrangiato che ha comprato in quella boutique di via dei Coronari. Luna ha la precisa sensazione che queste persone bellissime che stanno ballando attorno a lei siano attratte dalla sua presenza.
Nessuno la sta osservando direttamente, escluso Emil che le balla davanti con una grazia che farebbe impallidire persino Nureyev, ma sente i loro occhi spogliarla, andare oltre i suoi ridottissimi vestiti, sotto la pelle, e i muscoli, fino alle vene. Fino al suo sangue.
Devo essere impazzita. La roba che mi ha passato Luca era andata a male. Molto male.
«Allora?», le soffia all’orecchio Emil e lei rabbrividisce. «Avevo ragione, o no?».
Luna annuisce. «È un posto da favola! Ma non vedo la consolle...», ed Emil le risponde guardando in alto. 
Il DJ è lassù, su una specie di torretta realizzata con canne tinte di nero, che mette i dischi in continuazione, un paio di cuffie tra i riccioli biondi. 
Non riesce a vederlo bene. Sa solo che ha dei basettoni che farebbero invidia a Robert Redford e che le ricorda vagamente quell’attore che interpretava il poliziotto biondo in Starsky e Hutch, oltre al fatto di saperci fare.
Devo ricordarmi di prendere un bigliettino di questo posto, si dice, e pensa alla faccia che farà Stella quando lei deciderà di averne abbastanza del Transilvania e porterà gli amichetti di Alberto in una vera discoteca all’aperto, a ballare della vera musica messa su da un DJ con i controcoglioni, come direbbe Stefano.
Già, Stefano… Lui si troverebbe a meraviglia in questo posto. Ci sguazzerebbe come il pesce nel barile e, tanto per restare in tema, non avrebbe la faccia da pesce fuor d’acqua, cosa molto più probabile nel caso di Alberto e della sua cricca di amici della parrocchia. 
Luna ripensa a quel Claudio, il buttafuori. A momenti non faceva entrare uno come Emil, perfetto sotto ogni punto di vista: cosa accadrebbe se lei si presentasse insieme alla gente con cui si accompagna di solito, cioè quegli amici scelti accuratamente tra i più elitari della Facoltà? Quante possibilità ci sarebbero che Claudio scuota la testa e non permetta loro di varcare l’ingresso? Tante. Troppe. Sarebbe la prima volta che si vedrebbe rifiutare da un qualsiasi locale. Sarebbe un’umiliazione troppo grande, specie da subire davanti a Stella.
Ok, Luna, ragioniamo. Tu che vuoi fare? Portarli qui e lasciarli a bocca aperta, oppure essere sbattuti via tutti insieme, come dei perdenti?
Si risponde che la soluzione migliore sarebbe una sana via di mezzo, ossia arrivare assieme a loro, fare magari un po’ di fila, ed entrare da sola, mentre Alberto e gli altri resterebbero confinati fuori della porta. In fin dei conti, saprebbero muoversi senza sembrare dei ciocchi di legno? No, quindi, tanto vale che non le rovinino la serata e che restino a mangiarsi le unghie all’esterno, osservando le persone meravigliose e affascinanti cui Claudio permette di entrare, mentre loro restano fuori, come i cani che sono.
Però, come fare per poter entrare senza colpo ferire? Pretendere che Claudio si ricordi di lei è un po’ troppo utopico. Non sa neppure come finirà questa serata, se rivedrà ancora Emil e se tornerà al Mosquito a sufficienza perché diventi una habitué del posto. Quanto tempo ha impiegato Sergio, il buttafuori dell’Orion, per ricordarsi di lei e non farle fare la fila ogni volta?
Quasi un anno, risponde mentre il Te, Deum lascia il posto all’Inno alla Gioia. 
«Freude, schöner Götterfunken, Tochter aus Elysium, Wir betreten feuertrunken, Himmlischer, Dein Heiligtum ! Deine Zauber binden wieder, Was die Mode streng geteilt ; Alle Menschen werden Brüder, Wo Dein sanfter Flügel weilt».
Le labbra di Emil seguono il testo che si snoda sulla musica di Beethoven molto velocemente. Lì per lì, le rammenta quando Alberto s’inventa l’inglese per cantare dietro i Beatles; poi, quando capisce di aver paragonato la merda al cioccolato, e ricordando l’accento che colora la voce bassa di Emil, capisce. 
Sa le parole. Le conosce. Le ha imparate a memoria, magari come ha fatto lei per Impressioni di Settembre della PFM, seduta sul bordo della vasca smaltata, le gambe nude che scalciavano in aria, inseguendo parole nel vuoto di quei pomeriggi passati da sola mentre i suoi lavoravano fino a tardi, in quell’ufficio grigio e polveroso dove non le era permesso raggiungerli.
Lei lo guarda. No, lasciare da solo uno come lui è un delitto. Anzi, non le dà nemmeno l’idea del tipo solo, quanto di quello abituato ad avere relazioni di vario genere con le persone. 
È così che vivi tu? Sono tutte pubbliche relazioni?
Emil sorride al suo indirizzo e il suo cuore schizza nuovamente in orbita. «Che ne dici? Non è la migliore discoteca in cui tu sia mai entrata?».
Luna annuisce, entusiasta. «Il tuo amico…».
«Alludi a Moritz?».
«Proprio lui! È un genio!».
«Sì, ma tu non dirglielo mai!».
Emil ride, mentre la musica si lancia in crescendo verso la chiosa finale dell’Inno. E Luna nota che attorno a loro due si sta creando il vuoto, come se fossero fuori luogo e gli altri se ne fossero accorti. Cos’aveva detto quel Claudio? 
«Sa quello che sta facendo, signore?», e lei inizia a temere che ci scappi la rissa.
«Emil…», piagnucola stringendo la sua camicia di seta tra le dita. «Tu sei sicuro che questo Moritz ci aspettasse?».
«Sì, mi ha mandato lui stesso l’invito a casa», la rassicura carezzandole il collo. «Ma noto che l’educazione non è il piatto forte delle abitudini dei suoi… amici».
Poi Emil si volta. La folla, sempre ballando, si divide in due, come all’entrata, e spunta una testa rosso fuoco che guarda fisso proprio lui. Avanza, anche lei dotata di una classe che calamita gli occhi di Luna sul suo fisico asciutto e sul calice pieno a metà di vino rosso.
«Ma guarda chi c’è…». Il tono non è dei più amichevoli, e Luna sente le braccia di Emil cingerle le spalle. «Emil Sinclair. E a cosa devo l’onore?».
Emil usa un rapido movimento degli occhi per indicare la torretta di canne dove sta lavorando il DJ. «Spero che la mia presenza non ti sia di disturbo, mein Liebe…».
«Sia mai. È il compleanno di Moritz, dopotutto…». 
Lei sorride, mostrando una fila di denti perfetti come quelli di Emil. Luna ricorda che da bambina, guardando un documentario in televisione, aveva scoperto che quando due ippopotami sono l’uno davanti all’altro e si mostrano i denti, non si stanno sorridendo. Si stanno sfidando, e la sfida è l’emozione che trabocca dagli occhi rossi della ragazza vestita di pelle nera che si sta rivolgendo ad Emil.
Chi è? Qualcuna a cui hai spezzato il cuore?
«Almeno su una cosa concordiamo, allora», ribatte Emil con un sorriso.
L’altra annuisce, alzando il suo calice. «A Moritz!», esclama e lo tracanna tutto d’un fiato, sparendo nella folla, che riprende a ballare come se niente fosse.
Luna si ricorda all’improvviso di avere la bocca riarsa dalla sete.
«Vuoi qualcosa da bere?», le domanda Emil, e lei sente che vorrebbe provare lo stesso cocktail di quella strana ragazza.
«Quella chi era? E che stava bevendo? Non ho mai visto un drink così rosso…».
«Andiamo».
Emil, sempre cingendole le spalle, la scorta verso il bar. «Un Cuba Libre per la signorina», ordina al barista, un uomo grasso e irsuto con una bandana rosso scuro sulla testa.
L’uomo annuisce, mentre l’orecchino al suo lobo destro brilla di una luce azzurrina, e Luna si ritrova davanti un drink che non aveva ordinato.
«Non mi piace il Cuba Libre…», protesta lei arricciando il naso.
«Perché non hai mai provato quello che fa Santo», ribatte Emil scambiando un’occhiata complice col barista.
Luna annuisce, la sua volontà che si piega sotto lo sguardo blu notte di Emil, e porta alle labbra la bibita color ambra scuro. «Squisito!».
«Avevo ragione o no?», domanda Emil mentre la borsetta della ragazza vibra.
Luna estrae il telefonino. Ci sono due dozzine di chiamate senza risposta. Alberto. Non deve aver sentito nulla, con tutti quei bassi pompati ad arte sulla pista e quelle note classiche che le scorrevano potenti sotto pelle.
Lui la guarda, aspettandosi una sua reazione. Luna ricambia lo sguardo, sentendosi come chiamare da quei pozzi d’acqua scura, senza dire né a, né , quando il cellulare vibra di nuovo, e le note di Goodnight Moon si spandono per l’aria.
Alberto. La sta cercando. Apre la comunicazione per far smettere quella cacofonia digitale.
«Sì?».
«Luna? Dove sei?! Ma sei impazzita? Sparire così?! Stai bene?».
«Alberto, calmati…».
«Calmarmi? Calmarmi?! No che non mi calmo! Hai una vaga idea di quanto io sia preoccupato? Dove sei?!».
In paradiso. Luna alza gli occhi su di Emil. Sorride. «Non so dove sono di preciso». Infondo, non è una bugia vera e propria, no?
«Come sarebbe a dire? Senti, leggimi una targa del posto dove ti trovi e vengo a prenderti. Dove sei? In una discoteca?».
«Tranquillo, Alberto… Io…» sto bene, ma non fa a tempo a sillabare un’altra parola che Emil le toglie delicatamente il telefonino di mano e lo lancia oltre i tavolini del bar, centrando in pieno un cestino dei rifiuti.
«Scusami, ma doveva essere un tipo parecchio insistente, vero?». 
Emil le sorride anche con gli occhi blu, e lei si chiede chi sia questo meraviglioso ragazzo pronto a toglierla d’impaccio quando ne ha bisogno con modi non propriamente ortodossi, ma di sicuro effetto ed impatto.
L’uomo fatto apposta per me, pensa Luna infischiandosene del cellulare nuovo di zecca finito nella spazzatura. Cosa mi hai fatto, Emil Sinclair? Chi sei tu, in realtà?
«Balliamo?», e lei afferra le dita fredde che lui le porge.


 
3.
 
Le quattro del mattino. Infondo è presto, l’alba ancora si deve svegliare, come recita la sua canzone, e l’orizzonte è solcato da una linea chiara. Tra meno di due ore sorgerà il sole, ma a Luna non importa. Lei è una creatura della notte, e danzerà con Emil fino a quando il gallo non avrà cantato. Allora, e solo allora l’incantesimo si spezzerà e lei ritornerà all’appartamento a San Lorenzo che divide con Claudia e Sara. 
Voglio ballare. Ballare fino a non sentirmi più i piedi, pensa mentre si accorge con sgomento che Emil non c’è più. 
Davanti a lei, invece, si trova un altro ragazzo, anche lui bellissimo e anche lui un po’ fatto. Indossa una maglietta rossa su di un paio di jeans sfrangiati. I capelli ramati nascondono un viso su cui spunta un tatuaggio d’ispirazione maori che parte dallo zigomo sinistro e si perde sul suo collo. Balla, rapito dalla musica, e Luna si chiede se questo Mosquito non sia una discoteca per fotomodelli stratosferici.
Lui apre i suoi occhi neri su di lei. Sorride.
«Tranquilla, Emil torna subito. Ha detto che doveva fare gli auguri al festeggiato. A modo suo, ovviamente. Questi tedeschi hanno una parola per tutto», le dice con un accento americano molto pesante.
Sole, mare e sale dell’Oceano. Luna annuisce, chiedendosi come mai uno come lui, che sembra scappato da Woodstock, conosca Emil. Sembrano appartenere a due mondi diversi, lontani anni luce.
Si guarda intorno. La ragazza dai capelli rosso fuoco la sta osservando seduta ad un tavolino, un calice di vino corposo tra le dita affusolate. Sorride, le labbra piegate in un arco dello stesso colore dei capelli, e Luna sa che sta guardando proprio lei.
«Tranquilla, non ti si avvicinerà. Almeno non fino a quando ci sarò io con te».
Lei dà le spalle alla rossa che continua a fissarla, perforandole la schiena con i suoi occhi penetranti.
Luna vorrebbe chiedere a quello strano ragazzo chi è quella donna per Emil, perché mai non le ha staccato gli occhi di dosso un solo momento, e che diamine vuole lei da loro due, ma lui non la guarda e continua a ballare.
«Sei anche tu un amico di Moritz?».
Lui sorride, mostrando una fila di denti accecanti, simili a quelli di Emil. «Proprio amici non direi…», risponde lanciando uno sguardo alla torre di canne. «Diciamo che ci siamo… frequentati per un certo periodo. Per questioni di lavoro, capiamoci. A me piacciono le donne, non i bambolotti come Moe…», chiarisce. Deve aver visto gli occhi di Luna tingersi di delusione, rabbia e un pochino di disgusto quando ha pronunciato con enfasi quel “frequentati”.
E ad Emil?, vorrebbe chiedere, terrorizzata all’idea che quel bel pezzo di manzo teutonico abbia certi gusti. « mmagino che anche tu, qui, sia una specie di pesce fuor d’acqua… giusto?».
Mai quanto te, stellina, sembrano dirle quegli occhi scuri come la notte.
«Diciamo che non corre buon sangue tra gli amici storici di Moe e me, Jeremiah, Clint, ed Emil. E Cecily», le risponde ballando. Si è fatto più vicino. Poi, mentre lei si chiede chi sia, adesso, questa Lorelei, e perché l’abbia nominata assieme ad Emil, lui scoppia a ridere. «Non corre buon sangue. Ah, ah, ah…».
Luna non sa perché lui rida a quella battuta. Si unisce per cortesia, e perché sa che è meglio assecondare i pazzi, piuttosto che chiedere loro spiegazioni. Anche perché, che altro potrebbe dirle quel ragazzo, visto che non riesce a smettere di ridere di cuore?
«Cecily?», si sente domandare senza accorgersene. La testa le rimbomba, forse per i troppi Cuba Libre tracannati come fossero acqua e limone. 
Ma come, Luna? Ti metti a fare la gelosa di uno appena conosciuto? E se questa Cecily fosse la fidanzata ufficiale di Emil?
«Cecily, già. Quella mezza matta…», e basta. Lui non si sbottona oltre, e lei inizia a credere di averci azzeccato.
Che ti aspettavi? Che uno come lui non avesse nessuno? Che fosse libero come l’aria un tipo simile? Svegliati, Luna! Chissà quante altre ne avrà, pronte a scaldargli il letto a comando!
Lei sa che quella vocina maledetta ha ragione, come sempre; tuttavia, perché mettere limiti alla Provvidenza?
«E tu come ti chiami?», domanda al ragazzo che sta ballando davanti a lei.
«Sono Jordan. E tu?».
«Luna».
«Arrivederci, allora, Luna. Ecco il tuo principe azzurro… », risponde, e indicando con un gesto delle spalle Emil che si sta avvicinando, Jordan scompare nel mare di folla che sta ancora ballando sulla pista.
Luna non bada molto a lui. I suoi occhi, ora, sono calamitati sul sorriso da malandrino di Emil, che le si avvicina e le sussurra all’orecchio: «Andiamo in un posto più tranquillo?».


 
4.
 
Alle spalle di via Tagliamento, all’interno del trittico di palazzi firmati dall’architetto Coppedé all’inizio del secolo appena trascorso, si trova Piazza Mincio, una rotonda al cui centro si trova una fontana ornamentale e su cui si affacciano tre edifici, ritrovo abituale della gioventù del quartiere, ed un villino. Il Villino delle Fate.
Quelle poche volte in cui Stella aveva trascinato tutti loro a ballare al Piper Club, Luna aveva osservato curiosa la villetta in stile liberty che si affaccia sulla piazza, con piccole torri, anditi ricoperti di marmi verdi e azzurri, scene dal sapore medievale affrescate sui muri e un’aria da fiaba che solo l’architettura del primo Novecento riesce a trasmetterle.
Il cancello si apre e la Bentley GT Continental di Emil trova posto sotto al pergolato di uva fragola che aspetta il caldo di Agosto per maturare al sole. Luna si guarda intorno, come se fosse entrata nel castello delle favole. Che Emil avesse il portafogli imbottito di euro stampati in Germania, l’ha capito subito, dal primo sguardo; solo, non credeva fosse ricco fino a questo punto.
Ma questo posto non era chiuso? Sei davvero solo uno studente Erasmus?, si domanda lei scoccandogli un’occhiata di sguincio mentre il comando a distanza dell’antifurto emette il suo bip.
«Da questa parte…», le dice mostrandole la strada. Luna lo segue per una scala a chiocciola in ferro battuto nero che li conduce diretti al piano padronale. Emil avanza per un lungo corridoio lastricato di marmo candido con le pareti tappezzate da una carta da parati nera, su cui spiccano degli acquerelli dai colori smorti.
«Hai sete?», le chiede aprendo la porta di un salottino declinato nei toni del rosso cupo. Sul soffitto, una goccia bianca in un mare di sangue, un lampadario in vetro di Murano, così pesante che sembra debba cadere sulle loro teste da un minuto all’altro.
«No, grazie. Ho bevuto a sufficienza», risponde restando in piedi. Meglio smaltire la sbornia e le pasticche, prima di ricominciare.
«Moritz ci raggiungerà tra poco».
«Come?».
Luna non sa se essere più basita o impaurita: che cosa ha in mente questo tizio? Un festino privato?
Emil si accomoda, le mani posate sulle ginocchia magre e la giacca addormentata sulle sue spalle, e sbatte le sue lunghe ciglia nere. «Non volevi conoscere Moritz per poter tornare senza problemi al Mosquito?», domanda il ragazzo guardandola come si fa con un cucciolo.
«E tu cosa ne sai?», domanda lei a bocca aperta.
«Lo hai detto tu». Emil si rilassa sul sofà. «Mentre ballavamo, ricordi? Pensavi che fosse il modo più veloce e sicuro per rientrare al Mosquito, visto che i buttafuori tendono a non ricordarsi di te, se non dopo un anno». 
Oddio, la roba che mi ha passato Luca faceva davvero schifo, pensa Luna cadendo di peso su di una poltrona dallo schienale alto e imbottito, che da le spalle alla porta. «Ho… ho detto davvero quelle cose?».
Emil annuisce.
«Io… credevo… beh, sì, credevo di averle solo pensate…».
Lui inarca elegantemente un sopracciglio, segno evidente che non ha capito bene le sue parole.
«Hai pensato a voce alta? È questo che intendi?». Luna annuisce. «Oh, succedeva anche a me, una volta».
Lei si fa piccola piccola, chiedendosi quanto abbia ascoltato delle sue parole e quanto lei abbia pensato a voce alta, invece che tra sé e sé.
«Tranquilla, non c’è niente di male. Sul serio, non mi sono offeso», la rassicura con un sorriso caldo. «Piuttosto, che ore si sono fatte?», chiede guardando la pendola alle sue spalle. Le cinque meno dieci. «Moritz sarà qui tra poco. Tu non hai fame?».
Fame? A quest’ora?, pensa lei. «No», risponde: ha lo stomaco sottosopra per i troppi Cuba Libre ingurgitati, e gli effetti delle pillole si stanno facendo ancora sentire, facendole percepire luci, suoni e colori ovattati.
«Io, invece, sì. E scommetto che anche Moritz…»
«Anche Moritz, cosa?», chiede una voce calda e bassa alle spalle di Luna, che si alza e si volta a guardare il favoloso DJ che l’ha fatta ballare per tutta la notte su melodie classiche riarrangiate in chiave techno e house.
Biondo, biondissimo, con i basettoni vagamente ottocenteschi curati e freschi di rasatura, indossa un completo grigio chiaro con un foulard che gli copre il collo, Lord Byron ha appena fatto il suo ingresso nel salottino rosso cupo. Se Emil profuma di denaro lontano un miglio, costui si può permettere il lusso di indossare un completo di sartoria con dei diamanti al posto dei bottoni.
Sono finti. Devono essere finti, si dice Luna avvicinandosi ad Emil che ha già raggiunto il suo ospite e l’ha introdotto nella stanza.
«Luna, ti presento Moritz. Moritz, lei è Luna».
«Piacere».
«Il piacere è mio», risponde Moritz con un baciamano, meno elegante di quello di Emil, ma ugualmente efficace.
«Tedesco anche tu?», domanda Luna, strappando una risatina ad Emil. Moritz la guarda con malcelata accondiscendenza. «Cosa ho detto di sbagliato? Jordan ha detto che ve la intendevate perché siete entrambi tedeschi. Non volevo…».
«Ah,Jordan. Quando imparerà a tenere chiusa la sua boccaccia a stelle e strisce?», domanda Emil alzando gli occhi blu al soffitto.
«Tranquilla, Luna, tranquilla. Si tratta di una vecchia disputa tra me ed Herr Sinclair», le spiega Moritz. «Lui è tedesco, io, invece, austriaco».
«E cosa cambia? Non parlate entrambi la stessa lingua?», insiste lei.
Emil ride.
«Herr Sinclair afferma che solo i tedeschi possono fregiarsi di parlare la lingua di Goethe, per intenderci, mentre noi austriaci parleremmo una sorta di… Come lo definisci, tu?».
«Rozzo dialetto da montanari», gli risponde Emil, sedendosi sulla poltrona prima occupata da Luna. 
«Questi tedeschi…», commenta Moritz accompagnando la ragazza sul sofà. «Sono stati a tanto così dal dominare il mondo e ancora non si capacitano di come non vi siano riusciti, mentre l’impero Austro-Ungarico è stato una potenza per secoli, senza quasi sforzarsi. Dico bene, Herr Sinclair?».
I due si fissano, sorridendosi poco amabilmente l’un con l’altro.
«Forse… C’è da dire che il vostro tedesco risulta alquanto indigesto per noi. Sempre meglio di quello parlato nei cantoni svizzeri, sia chiaro».
«Concordo», annuisce Moritz. «Quella pronuncia dà fastidio anche a me».
Cala il silenzio, riempito solo dalle lancette della pendola alle spalle di Emil.
Il padrone di casa fissa ora l’amico, ora Luna, le gambe accavallate e le mani posate sui braccioli della poltrona. Moritz le lancia delle occhiate con cui la spoglia, letteralmente. Luna si sente come quando era sulla pista ed aveva l’impressione che gli occhi affamati di quelle persone bellissime le stessero penetrando sotto la pelle. Fino al sangue.
Scappa. Fai finta di dover andare in bagno e datti più veloce della luce!, le grida la vocina nella testa. Ma Luna sente che le gambe le sono diventate di piombo.
Vorrebbe muoversi. Alzarsi lentamente e infilare la porta mettendo quanta più strada possibile tra lei e quei due bellissimi ragazzi, ma non può. Anche se il cervello manda l’impulso alle gambe, i muscoli sono come intirizziti, come fossero quelli di una statua di marmo scolpita da un artista di scuola michelangiolesca. 
Sente il sangue scorrerle talmente veloce nella testa che quasi sviene. Ha la nausea. Prova ad aprire la bocca per parlare, ma non ci riesce. Vede solo gli occhi blu di Emil che incatenano sul suo sguardo al proprio, ed un sorriso ferino sul viso del ragazzo che, stranamente, non deturpa i suoi lineamenti perfetti, ma che, anzi, li esalta. Come una tigre con le fauci sporche di sangue.
«Tu non hai sete, vecchio mio?», domanda Emil in tedesco. Lei stranamente, capisce ogni singola parola.
«Da morire. Ho fatto una corsa per arrivare fin qui prima dell’alba…».
«E allora, che aspetti? Serviti pure», gli dice il padrone di casa mentre il suo sorriso si va accentuando sempre di più. «È il tuo compleanno, giusto?».
«Herr Sinclair, se non ti conoscessi, penserei che tu stia cercando di corrompermi…», mormora Moritz mentre Luna sente il suo fiato e la sua lingua sul collo. «Ma si è fatta, questa qui?».
«Sì. Ho sentito il suo sangue a metri di distanza…», risponde candido Emil. «Non è l'eroina, ma spero ti piaccia lo stesso…».
«Scherzi? Ho un debole per la frutta matura, io…», replica l’altro mentre Luna si accorge che le tende di pesante velluto color vinaccia sono tirate sull’ampia vetrata alle loro spalle, e che il muro, qua e là, è chiazzato di macchie rosso scuro.
Sangue.
Cosa siete, voi?, grida Luna dentro di sé, incapace di articolare un qualsivoglia suono. Poi, nota lo specchio che aveva visto entrando nel salottino, un grande specchio di fattura antica, posto sul piccolo camino a destra della poltrona. La figura snella e armonica di Emil e quella più massiccia di Moritz non si riflettono sulla superficie anticata.
Ci sei arrivata, finalmente?, le chiede una voce, quella di Emil, che le esplode dritta nel cervello.
Luna grida tra sé e sé, andando a ripescare le parole del rosario nei suoi ricordi di bambina, di quando frequentava la parrocchia di don Ottavio sotto casa. 
Ave maria…
«Non serve… Devi pronunciare ad alta voce quella nenia. E crederci», le dice Moritz sciogliendo il grande fiocco d’organza che le decora lo scollo anteriore. «Vuoi favorire, Sinclair?».
«Prego, prego. Dopotutto, è il tuo compleanno, giusto?», sorride maligno Emil.
Sorriso che si allarga e diventa ancora più feroce quando Moritz affonda i suoi canini nel collo di Luna. 
Il dolore è lancinante. Il sangue pompa impazzito, come se cercasse di scappare dal risucchio vorace ed assetato di Moritz. Dentro di sé, Luna si divincola, lotta, piange e grida aiuto. Spera che arrivi la Cavalleria. Spera che Stefano, o anche Alberto, o anche un emerito sconosciuto piombino dalla vetrata con un rosario intriso d’acqua benedetta e una corona d’aglio in mano da usare a mo’ di spada contro quelle bestie che la stanno succhiando come fosse un’ostrica prelibata.
Ma non arriva nessuno. Le lancette della pendola continuano a muoversi, minuto dopo minuto, indifferenti a quella scena che devono aver già visto tante, troppe volte. Ci abbiamo fatto il callo, tesoro, sembra dirle la sottilissima lancetta dei secondi mentre scatta assieme al suo cuore. Pum, pum, pum.
Non arriva nessuno a salvare la principessa. E Luna grida, piange, si dispera. Promette che farà la brava. Che smetterà di trattare il prossimo come merda, che finirà gli esami, che mangerà tutte le verdure, che smetterà di farsi e di fumare, che.
«Buon compleanno, Moritz…», è l’ultima cosa che sente prima dell’oblio.



Le canzoni citate in questa storia sono Luna del 1980 e Semplice, del 1981. Entrambe appartengono a Gianni Togni.
Questa storia è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti e persone realmente esistiti o tuttora esistenti è da considerarsi puramente casuale.
Questa storia è stata scritta per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo. L’intreccio qui descritto rappresentacopyright dell'autrice (Francine) e non ne è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.



 
   
 
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