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Autore: BloodGirl    07/07/2014    2 recensioni
Riprendo ad osservare Giovanna. Finché ho uno strano presentimento. Come se stesse per succedere qualcosa di spiacevole e allo stesso tempo sollevante.
Mi sporgo dall’alto delle mura.
Allungo lo sguardo.
Vedo uno scintillio minaccioso.
In meno di due secondi mi ritrovo fuori dalla città.
Corro verso di lei. Quasi disperato.
Non voglio che le succeda nulla di male.
Mi metto davanti a lei, proteggendola.
La freccia arriva puntuale. Si conficca nel mio fianco. Fa male.
Guardo Giovanna, dietro di me di qualche passo. Per fortuna, è salva. Sono felice.

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"Allora, stando a una prima analisi, si potrebbe dire che non è nulla di che, ma… - tira un sospiro, quasi drammatico – con uno studio più approfondito non è così. Gli occorre il prima possibile un’operazione di emergenza."


Eccomi qui, con una one-shot questa volta. Credo che sia la mia migliore creazione, modestamente XD
No scherzo, ma a me piace molto come è venuta. Vi auguro una buona lettura!
E se magari recensite, non mi dispiace XD
Ciao!!!
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeanne D'Arc, Kirino Ranmaru
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Compiégne

Anno 1431.
Assalto di Compiégne.
Secondo la storiografia è proprio qui dove Giovanna D’Arco verrà catturata e dopo processo, arsa sul rogo. Ma io spero che non sia vero. Che la storia sia solo un’immensa bugia. Perché quello che ho incontrato per ora, non corrisponde minimamente a ciò che è scritto sui libri di scuola.
Lei ora sta combattendo nell’ultima battaglia della sua vita e io non riesco a starmene in disparte a, semplicemente, guardare. Vorrei stare al suo fianco e confortarla. Ma lei ci ha proibito di aiutarla.
Sta cercando disperatamente di difendere la sua città da un assedio. Ma è come una farfalla in mezzo a un campo innevato: non c’entra nulla.
Perché siamo qui noi?
Molto semplice. La macchina del tempo ha subito un sussulto e così ci siamo dovuti trattenere per qualche anno, anche se su di noi il tempo non ha avuto effetti. E spero che neanche la storia si sia trasformata.
Siamo appostati dentro le mura della suddetta città. Guardiamo dall’alto l’intera scena e non sembra che riporterà una vittoria, questa volta.
Ogni mio compagno è affacciato verso il terreno. Guardano lo scontro, anche loro, senza parole. Non credo che abbiamo mai visto una battaglia. E sinceramente neanche io. Ed è molto diverso da una semplice partita di calcio. Ci sono tattiche, strategie, schemi, imprevisti e mille altre situazioni. Però… sembra una barzelletta… ma sono più simili di quello che sembrano.
Nel silenzio più totale, una voce si distingue.
-Di che battaglia si tratta?- è possibile che Arion sia così stupido?! È uno dei momenti cruciali per la storia e non sa di cosa si sta parlando. Per fortuna, gli risponde Riccardo.
-Non è una vera e propria battaglia. È dove Giovanna si arrenderà e sarà processata. Infine bruciata sul rogo-.
L’espressione del numero otto è diversa da quello che mi aspettavo. È tra lo sconvolto e lo spaventato. Ma in fondo credo che tutti abbiano questa espressione.
Riprendo ad osservare Giovanna. Finché ho uno strano presentimento. Come se stesse per succedere qualcosa di spiacevole e allo stesso tempo sollevante.
Mi sporgo dall’alto delle mura.
Allungo lo sguardo.
Vedo uno scintillio minaccioso.
In meno di due secondi mi ritrovo fuori dalla città.
Corro verso di lei. Quasi disperato.
Non voglio che le succeda nulla di male.
Mi metto davanti a lei, proteggendola.
La freccia arriva puntuale. Si conficca nel mio fianco. Fa male.
Guardo Giovanna, dietro di me di qualche passo. Per fortuna, è salva. Sono felice.
Però la testa mi gira. Sento freddo.
Cado. Sento quella punta maledetta muoversi al mio interno. Fa male.
Ascolto la battaglia attorno a me. Nel silenzio.
Lentamente, vedo tutto nero.
 
***
 
Mi risveglio tutto infreddolito. Vedo abbastanza sfocato. È fastidioso.
Credo di trovarmi in una tenda, dato il soffitto di stoffa e l’ambiente scuro. Ma, comunque, abbastanza grande.
Sono sotto a delle coperte un po’ trasandate. Non ho la maglia. Per metà sono fasciato da bende candide. E sono confuso. Credevo di essere morto, dopo quella freccia. Ma il dolore che provo è qualcosa di eguale. Sento tutto il busto paralizzato e il fianco mi formicola. È caldo. Fastidiosamente caldo.
Cerco di alzarmi, anche se so che è una pazzia. Infatti una fitta mi pervade ed emetto un gemito. Mi distendo di nuovo. Un uomo abbastanza alto, biondo e con indosso vestiti tradizionali dell’epoca entra nella tenda. Vedendomi sdraiato e con gli occhi aperti, esclama verso l’esterno:
- Vedo che ti sei svegliato. Ehi Giovanna, il tuo amico è sveglio-.
Subito entra lei. È molto preoccupata, come se avesse visto la morte in faccia. Si precipita accanto a me, inginocchiandosi. Mi accorgo solo ora di non essere per terra, ma su una specie di ripiano in legno, alto da terra un metro. Tira un sospiro di sollievo e quasi piange da quanto è sollevata. Unisce le mani in una preghiera. Dice:
- Per fortuna sei vivo … Gabi!-
Seguono anche gli altri. Sono visibilmente preoccupati, quasi in una smorfia. Si dispongo tutti intorno al “letto”, in attesa che qualcuno abbia il coraggio di parlare. Nessuno si muove. Quasi hanno paura che un loro gesto, una loro parola possa in qualche modo ferirmi. Ma non potrei essere peggio di così.  Inizia a parlare il mio migliore amico, l’unico su cui posso contare per un po’ di conforto. Parla cauto e quasi in un sussurro:
-Come sta dottore?-
-Allora, stando a una prima analisi, si potrebbe dire che non è nulla di che, ma… - tira un sospiro, quasi drammatico – con uno studio più approfondito non è così. Gli occorre il prima possibile un’operazione di emergenza-.
Le parole del medico sono ferme, calme. Come se avesse detto centinaia di volte frasi di quel tipo. I miei compagni sono tra uno stato di trance e shock momentaneo. Giovanna ha preso a singhiozzare. I suoi occhi sono lucidi, sotto le lenti cristalline. Ma io non sono messo meglio. Il mio cuore ha preso a battere all’impazzata e so che spetterà a me la decisione finale.
Ma non voglio che ciò accada.
Sembra tutto un assurdo sogno.
Non posso essere in fin di vita.
Non io. Sono solo una ragazzo di quindici anni.
È una cosa così assurda.
Anche se è reale.
Perché il dolore che provo è vero. Non è finzione.
Lo sento sulla mia pelle, nel mio cuore.
I miei compagni chiedono all’adulto di rimanere soli con me. Probabilmente vogliono sapere questa mia decisione. Ma non voglio decidere. Ho troppa paura che accada qualcosa.
Un silenzio tombale pervade lo spazio.
Non so cosa dire. Nessuno sa cosa dire.
Finché, dal nulla, la fatidica domanda giunge:
- Allora…- sospiro, profondamente – te la senti di affrontare l’operazione?-
Vorrei urlare. Ma le mie attuali condizioni non me lo consentono. “No!” vorrei rispondere. In un luogo così, lontano dalla mia famiglia, dalla mia città, da casa mia. Non riuscirei. Davvero, vorrei. Ma non riesco.  Fisso il nulla sopra di me, quasi in lacrime.
Guardo Giovanna.  La sua mano è poggiate sulla mia. È  così calda, quasi confortevole. Trasmette amore materno. O forse qualcosa di più.
Mi concentro sui suoi occhi acquamarina. Così puri, limpidi, calmi. E vedendo l’appoggio della persona da me amata, prendo la mia decisione. Stringo la sua mano. Lei ricambia.
- Si!- rispondo a gran voce.
I miei compagni mi guardano un po’ increduli. E anch’io lo sono. Però sono fermamente convinto che andrà tutto bene. Non importa quante pene patirò. L’importante è che possa rivedere il sorriso di Giovanna.
La squadra accetta la mia decisione in silenzio. Richiamano il medico e gli comunicano che accetto l’intervento. In quella tenda rimaniamo solo io e il dottore. L’operatore e l’operato. L’ansia inizia a crescere in me. In quest’epoca non esiste anestesia. E ho paura che faccia molto male. Quasi come la morte.
L’uomo avvicina alla mia branda una specie di tavolino in legno con diversi arnesi. Il cuore mi batte prepotente nel petto. In fondo è stata una mia decisione. Perché sono così ansioso? E impaurito?
Accende un lume, per vedere meglio il mio dolore. La luce crea un’atmosfera sinistra, quasi tetra.
Le ombre che si proiettano sulle pareti di tela sembrano fare una piccola danza al ritmo della fiamma.
Il medico si avvicina. E io non sono a mio agio. Provo la stessa sensazione che si prova prima di un esame che potrà cambiare il tuo futuro. O prima di una partita molto importante che può cambiare le sorti della storia. Solo mischiato a un’elevata quantità di paura di morire.
Mi incatena le braccia e il corpo alla tavola. Non sono tranquillo.
Prima di iniziare però si raccomanda una cosa, molto inquietante:
- Cerca di non urlare troppo. Altrimenti i tuoi compagni si preoccuperanno…-
Con ciò, comincia.
Mi leva le bende, delicatamente. Con un tocco da angelo. Lievemente percettibile. Butto lo sguardo in direzione della ferita. Lo devo subito ritrarre. Inizio a respirare a fatica e sempre più forte. Come se il mio respiro mi potesse dare qualche sollievo. Ho visto un orrendo buco nella mia pelle. Profondo. Troppo profondo. Sento il sangue ribollire e continuare a uscire da quella voragine, copioso.
Prende un arnese dal suo tavolino. Poi un lungo respiro. Sembra un piccolo coltello. Ho paura… Con il sudore che gli cola dalla fronte, affonda lo strumento nella mia carne, all’altezza della ferita.
Sempre più deciso.
Sempre più in profondità. Per un tempo che mi pare infinito.
Il dolore che mi pervade ad ogni respiro sembra troppo grande per un essere umano. Solo una persona immortale, che ha vita infinita, potrebbe sopravvivere a questa tortura. Perché sa che non può morire.
Rivolgo il viso dalla parte opposta all’intervento. Ho gli occhi chiusi, con forza. Il mio respiro si è fatto più pesante o leggero. Non saprei definirlo con certezza. Perché i miei sensi sono puntati su quel maledetto fianco.
Per sbaglio, apro gli occhi. Vedo tutto sfocato. Riesco solo a distinguere gli oggetti in generale. Sento la testa pulsare, e temo di svenire.
Guardo il medico, che lavora attentamente. In questo momento sta alzando un paio di forbici dal tavolino. Percepisco il taglio netto sulla mia pelle. E brucia. L’aria mi fa male. Solo respirare mi fa male.
Continuo ad osservarlo. Voglio supplicarlo di smettere l’operazione. Preferisco la morte a questa violenza. Però so che è inevitabile.
E così, con tutte le mie forze, rimango ancora in silenzio. Volto ancora lo sguardo verso il nulla della tenda. Aspetto, dolorante.
Finché, nel mio campo visivo vedo l’errore più grande della mia vita.  Le forbici. La loro cima è imporporata di rosso, scarlatto. Sangue. Il mio sangue. Chiudo gli occhi. Come se potessi scomparire insieme al mio dolore.  La testa mi pulsa.
Sento che muove qualcosa al mio interno. Fa male. Troppo male. Non riesco più a trattenermi. Urlo.
Un urlo di terrore. Liberatorio. Quasi drammatico. Sovrumano.
Urlo. Come non ho mai urlato in vita mia.
Fino a quando non estrae quella freccia maledetta. Provo sollievo. Ma fa male. Tanto male.
Come d’istinto, cerco di portare le mani sulla ferita. Ma sono bloccate dai lacci.
Sto per gridare. Dirgli di sbrigarsi sarebbe un sollievo. Solo che se ne accorge.
Mi mette una mano sulla bocca, e scuote la testa. Così, però, mi fa solo più male. Per qualche secondo che mi pare un secolo, perdo il respiro. E mi sento morire dentro.
Mentre mi libera di questo piccolo supplizio, parla:
- Cerca di resistere ancora un po’. Devo solo cucirti…-
Le sue parole sono così rudi che mi fanno paura.  Vedo che alza un ago. Affilato, come la morte.
Lo abbassa verso di me, e inizia a ricamare.
Sento ogni millimetro di filo passare tra la mia pelle. E brucia. Solo un po’. Ma non riesco a rimanere sveglio ancora un minuto di più. I miei occhi, rimasti aperti per così poco tempo, si chiudono come se avessero volontà propria. Lasciandomi, finalmente, riposare.
 
***
 
Finita l’operazione. Siamo tutti molto preoccupati. Soprattutto dopo quegli urli demoniaci nessuno è riuscito più a rimanere tranquillo.
Sono la prima che entro nella tenda. Spalanco le due estremità di tela. Gabi è ridotto male. È molto sofferente. Mi avvicino a lui per vederlo meglio e tenergli compagnia. Mi inginocchio.
Il suo viso è pallido. Gli occhi azzurri come il cielo chiusi. Respira affannosamente. Piccole gemme di sudore gli colano dalla fronte.
L’intero suo corpo è immobilizzato dal dolore. La coperta rovinata lo copre interamente, lasciando scoperte le braccia e parte del suo petto.
Mi dispiace tanto per lui. È ancora così giovane e con un’intera vita davanti. Non potevo lasciarlo, semplicemente, morire.
Anche gli altri suoi amici ci raggiungono. Rimangono paralizzati dalla fragilità del momento.
Gli stringo la mano. Forte, forte. Per rincuorarlo. Per trasmettergli un po’ di sollievo. Di amore.
Per un lungo periodo, rimaniamo tutti in silenzio. Mentre il povero Gabi soffre in silenzio.
Per sbaglio, però, gli sfioro la ferita. Apre gli occhi, gemendo. Sono lucidi e spenti. Quasi non riconosco il cielo che prima si perdeva nelle sue iridi.
Subito, il suo migliore amico, gli si avvicina e sussurra:
- Come stai?-
Non ha la forza di rispondere. È ancora molto sofferente. Guardo Riccardo, come a volergli dire “sta bene, ma gli occorre riposo”.
Ne ho visti parecchio di miei compagni in queste condizioni. Ma per lui è diverso. Lui mi capisce e credo che sia anche il migliore amico che abbia mai trovato finora.
Mi ha aiutata parecchio. Ha creduto in me, così che io potessi di nuovo avere fiducia in me stessa. Non lo ringrazierò mai abbastanza per l’aiuto che mi ha dato.
In quel momento, il dottore dice le sue considerazione e pensa ad alta voce:
- Sta bene. L’operazione è andata al meglio. Non si potrà muovere e alzare per almeno una settimana. Ma poi sarà come nuovo, con una cicatrice in più. Solo… spero che la freccia non abbia già fatto infezione. In quel caso…-
La nota sospensiva dell’adulto mi fa venire i brividi. Non voglio neanche pensare a cosa potrebbe succedere. Non voglio pensare che potrei aver mandato a morire il mio amico.
I volti di tutti sono preoccupati e rivolti verso il suo viso.
Proprio lui, sento che mi fa pressione sulla mia mano, intrecciata alla sua. Lo sento parlare. La sua voce è spezzata. Come se fosse stata soffocata.
- Non preoccupatevi… sto bene…-
Tutti gli si avvicinano, rimando parole di conforto e di forza. È una scena molto commovente. E non posso fare almeno di fissare il suo viso, così bello. Cerca di assumere l’espressione più confortevole e sana che possa. Ma io sento il suo battito. Accelerato, molto. Sta anche tremando più del normale. Le lacrime mi vengono agli occhi e cerco di ricacciarle indietro. Ma sono più forti della mia volontà. Rigano le mie guance, mentre rivolgo un sorriso a Gabi.
Lui mi nota e, con mia grande sorpresa, chiede di rimanere solo con me. Escono tutti, chi felice e sollevato, chi ancora preoccupato. Quando anche il suo migliore amico ci lascia, si volta verso di me. Sorridendo.
Vederlo così felice, nonostante stia soffrendo, mi commuove. Inizio a singhiozzare.
- Ehi, non fare così. Sto bene…-
Un colpo di tosse rauca lo scuote, facendomi sobbalzare. Mi alzo in piedi, sempre tenendogli la mano.  Gli accarezzo una spalla. La sua tosse è cessata. Per fortuna.
Lo guardo, nella semi-oscurità della tenda. E mi perdo nei suoi occhi, che si sono riaccesi, come una stella nel cielo notturno.
Sono troppo felice che sia vivo. Tantissimo. Non posso fare a meno di piangere dalla felicità. Le lacrime mi scendono copiose, mentre mi accascio sul suo petto.
Sento una mano accarezzarmi la testa. Mi volto verso di lui, con ancora gli occhi colmi di lacrime. Anche lui mi guarda. Il tempo sembra essere scomparso. Io e lui. Due amici molto uniti da un profondo sentimento.
Riprendo mia volontà quando lo sento singhiozzare. Le lacrime, come gemme argentee, gli scivolano lungo il viso.  I suoi occhi di cielo sono pieni di gocce amare di felicità. E io vorrei dirgli quanto è importante per me. Solo che i suoi compagni giungono nella tenda. Ci comunicano la triste notizia che devono tornare a casa. Nel loro tempo.
Gabi rimanda indietro le sue lacrime ed con un dito rimuove le mie.
Infine, viene caricato su una barella di tela, mentre fissa il cielo.
Lo riportano sul veicolo con il quale sono arrivati. Lo adagiano su delle sedie rosse imbottite che sembrano molto morbide.
Rimane immobile.
Fisso.
A guardare il cielo.
Le nuvole candide.
Mi avvicino a lui, per salutarlo.
- Ciao, Gabi. Mi raccomando, riprenditi…- e lo bacio amorevolmente sulla fronte, per andarmene.Non dice una parola, e in parte mi ferisce. Ma sono che non riesce quasi a muoversi.
 
Vedo quello strano carro prendere il volo e scomparire in un portale colorato. Piccole gocce cadono sul terreno.
“Non ti dimenticherò mai…”
 
 
   
 
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