Allora … Sono tornata, chiedo
scusa per non aver aggiornato, ma ero in pausa per maturità. Ma ora sono una
donna libera e dal due pomeriggio che lavoro su questo capitolo, non ne sono
molto contenta, particolarmente la parte di Madonna Aclima, ma spiegherò meglio
sotto perché questo taglio OOC. In questo capitolo ci priviamo di uno dei
personaggi principali, che vi prometto avrà tanto – ma proprio tanto – nel prossimo. Il titolo come sempre è
tratto dalla genesi.
Vorrei ringraziare tutto coloro
che hanno recensito (Sapphire41, Verdeirlanda e Chemical Lady), grazie di cuore ed anche tutti coloro che hanno
letto silenziosamente, chi preferisce, segue e ricorda. Grazie di cuore a
tutti.
Buona Lettura
RLandH
Sono forse il guardiano di mio fratello?
Atto IV: Ho acquistato un uomo
dal Signore
Il ragazzo era magro, ma non da
sembrare rachitico, era snello ed anche molto più alto di lei, aveva una
carnagione livida ed i capelli biondo palliericcio, ordinati con una
scriminatura laterale, un espressione mogia in viso, che lei vedeva dipingersi
ogni volta che si voltava verso di lei. Non era bello, c’era qualcosa che
stonava, che lo rendeva scialbo alla vista. Indossava un vestito semplice
tortora, compreso di una casacca e dei calzoni. E mangiava una mela che aveva
rubato dalla sua cesta. Anche se in modo
strano, le ricordava un ragazzo che aveva conosciuto a Corcira, che lavorava come manovale per un fabbro, non si
somigliavano molto, quello era un uomo cesellato, dai capelli indomabili e
rossi. Ed aveva quattordici anni ed un giovanotto così non faceva che renderle
molli le gambe. Ma era per il modo di fare, con quello sguardo distante e
l’attenzione per il dettaglio. Quando il ragazzo di Corcira, guardava il
metallo raffreddarsi d’una lama ben curata, aveva avuto la stessa espressione
che quel ragazzo aveva avuto tutto il tempo parlando della sua arte.
Soddisfazione, amore, devozione.
“Non credo possiamo entrare,
maestro Alessandro” aveva bisbigliato la ragazza, affiancandolo, “Tranquilla”
aveva risposto lui, muovendo due dita delle mani per calmarla, “Preferisco
Sandro o Botticelli” aveva detto, con una smorfia sul viso. Filippa aveva annuito diligente, osservando
il giovane morsicare i resti della mela che i soldi della sua signora avevano
comprato. Era già più d’un’ora che era via, la sua padrona si sarebbe infuriata
come una belva ed il buon Lele si sarebbe preoccupato? E se non fosse tornata
per tempo all’arrivo di Da Vinci? Sandro proseguì dritto fino ad una porta
imponente, cui davanti vi era un uomo vestito d’uno scuro blu, come la notte. “Filippino
Lippi sta lavorando ad un quadro giusto?” domandò, quello annui, “Ditegli che
ici vi è Sandro Botticelli” disse con più calma, ma per nulla affabile, senza
sforzare un sorriso. Filippa era come sconvolta da tutta quella onestà, aveva
come l’impressione il ragazzo non volesse nascondere nulla.
Avevano aspettato sotto la porta,
fino a che non era venuto un tale, un ragazzo vestito di rosso, dai ricci
crespi e gli occhi castani, insozzato dalla testa ai piedi. “Botticelli hai
interrotto la mia vena artistica” disse con un tono irritato, prima di notare
lei che se ne stava impacciata con il suo cesto di frutta vicino al giovane
artista, “Oh” disse spalancato la bocca, prima di sorridere affabile, “Non
esiste di fatti nulla di più romantico che guardare i quadri di casa De Medici”
gracchiò, prima di colpire con un buffetto l’altro sulla schiena. “Taci Lippi”
rispose con un tono sostenuto Sandro, facendo ridacchiare l’altro, “Capiti a
fagiolo, avevo giusto bisogno d’una mano esperta per un dipinto” aveva mormorato,
“Sempre se tu non possa lasciar sola la tua signora” aveva detto malizioso Filippino, “Fate pure” mormorò Fillippa,
arrossendo sulle gote, un po’ perché desiderava vedere l’arte prendere forma,
un altro po’ perché era stata definita la signora di Botticelli. Sandro roteò
gli occhi, “Sei un’offesa all’arte, Lippi” rispose a denti stretti, prima di
seguire Filippino dentro la residenza De Medici. Forse sbagliava Filippa, ma
nonostante il giovane non si stesse mostrando più cortese rispetto come era stato
con lei o con chiunque avessero incontrato dal mercato alla tenuta, aveva
l’impressione che tra i due vi fosse una genuina amicizia, era un pensiero
dovuto alla leggere allegria con cui Lippi rispondeva a tutte le mal parole di
Sandro.
“Che sciocco uomo, non mi sono presentato” aveva detto il
giovane pittore, mentre percorrevano un corridoio, illuminato da vetrate
dall’alto e candele, “Ne il nostro Sandro ha provveduto” disse piccato, ma
Botticelli preferì ignorarlo continuando per la sua strada. “Filippino Lippi da
Prato” allungandole una mano, lei rise un poco, dall’imbarazzo d’esser trattata
con così tanto riguardo, cosa che abitualmente nessuno le rivolgeva mai. Non
che se ne stupisse, per qual motivo qualcuno doveva essere galante con una
cameriera d’altronde? “Filippa Demopulo da Zacinto” aveva risposto, stringendo
la mano lievemente pavida, ma se possibile il sorriso del ragazzo s’era aperto
ancora di più. “Una Filippa per un Filippo” aveva canticchiato, prima di
guardar con la coda dell’occhio il terzo membro. Sandro li aveva degnati di uno
sguardo stizzito, concentrandosi più sui decori degli arazzi che suoi due
essere umani al suo fianco. Lei era brava a capire le persone, aveva imparato
dopo ogni frustata come interpretare gli atteggiamenti delle persone, per non
sbagliare più, per non dover essere punita. E Sandro Botticelli era come un
libro aperto, aveva visto i suoi quadri, la delicata dedizione che doveva
averci concentrato, i pigmenti di colore lucente, il dettaglio, un uomo che
riversava tale interesse nell’arte non aveva tempo di guardare gli uomini. “Non
so dove tutta abbia trovato questa venere, Botticelli, ma non la meriti” disse
Lippi, baciandole le dita; Filippa fu colta di sorpresa, così presa a studiare la secca figura di Sandro che
non s’era accorto che l’altro artista aveva continuato a tenere la sua mano
tutto il tempo fino a che non aveva sentito le labbra sulla pelle. A quel punto
Botticelli li aveva guardati, lo sguardo
era stato di fastidio, “Filippa vuole Da Vinci” disse piccato e lanciò uno
sguardo significativo a Lippo, Filippino la guardò, mosse il viso sconsolato e
con la mano libera carezzò il dorso della sua, quella che aveva appena baciato,
“Ti spezzerà il cuore e lo getterà giù dalla torre del campanile” disse sconsolato.
E lei rise a quello sguardo di finta rassegnazione, cosa che fece sogghignare
anche l’altro.
S’erano arrestati davanti un
ampio quadro, da occupare l’intera parete d’una stanza, Filippa aveva sentito
le vertigini farsi strada, un numero impressionanti di figure erano ritratta a
matita ed altre prendevano forma nel colore, “La morte di Lucrezia, giusto?” domandò Sandro, per la prima volta
perdendo dal viso l’espressione annoiata, “Si, ti avevo accennato che m’era
stato consegnato tale virtuoso tema” aveva risposto l’altro, piazzando
orgoglioso le mani sulla cintola, “Solo che il tuo arrivo m’ha spento la verve”
mormorò con fasullo rammarico, “Prepariamo un salasso” commentò Sandro, “E
purifichiamo il sangue della tua vena artistica” aggiunse, prima d’avvicinarsi
ai colori che Filippino doveva star usando prima. Demopulo rimase qualche passo
indietro, in disparte, sconvolta, affascinata, la vita sembrava essere
sbocciata sul viso di Sandro con l’irruenza d’un papavero che sorgeva in tutta
la sua beltà facendosi strada tra le fessure dei mattoni delle vecchie
acropoli. Aveva detto che Botticelli non era bello, ma mentiva, era l’uomo – o
meglio giovane uomo – più bello che avesse mai visto, o almeno lo era, con il
riflesso d’un dipinto negli occhi e l’ardore sul viso. E quando i due ragazzi
si misero a dipingere non si sentì affatto in voglia di disturbarli in alcun
modo ne di andare via, s’accomodò per terra, con la cesta sulle gambe e li
guardò, la madonna e Da Vinci erano sprofondanti lontano in un angolo della sua
mente. Esistevano solo Filippino, Sandro e la loro arte.
Botticelli si voltò un attimo
verso di lei, aveva una striscia ciano sulla guancia ed i capelli pagliericci
insudiciati di rame verdastro, il vestito tortora era maculato di magenta vivo,
sembrava essersi trasformato anche lui in un dipinto, suggestivo e magnifico.
Per un attimo Filippa sentì chiaramente le gote colorarsi di fuoco, ma Sandro
non le aveva che rivolto uno sguardo disinteressato, tornando ben presto alla
parete che stava dipingendo insieme l’altro artista. Era stato come se avesse
voluto semplicemente accertarsi che fosse ancora lì. Filippa si strinse il
cesto al petto, mordendosi un labbro. Posò la testa ad una colonna e continuò
ad osservare l’operato dei due artisti con vivo interesse, fino a che non la
sentì, una sensazione di insofferenza all’altezza del ventre. Una percezione maligna. Qualcosa
che le era già capitato più volte, spesso quando era bambina. Molte dimeno da
quando era cresciuta, l’ultima volta era stato a quindici anni, quando aveva
cominciato a lavorare per la sua signora. S’era trovata a camminare per le
scale della tenuta, portando un secchio d’acqua, seguendo le istruzioni di
Betta, che portava un corpetto stretto ed i capelli fermi in un ferretto
dall’aspetto di farfalla, troppo nobile per il suo rango. Aveva visto dalle
ampie finestre il parco, la madonna era ferma nei giardini, camminava con
un’ampia gonna azzurra criscolla, un corpetto damascato d’un vibrante giallo limone, i capelli neri
raccolti con perle bianche. Teneva sottobraccio quel figlio, che era dovuto
andare poi via, per la sua strada. E rideva la madonna, Filippa ricordava che
cinque anni prima, la sua signora rideva ancora. S’era voltata verso di lei, occhi scuri come
l’ematite, neri come quelli d’un satanasso, la stritolarono la gola, poi
l’aveva sentita, quella orribile sensazione, che aveva avuto prima di andar via
dalla Grecia. Come di qualcosa che s’arrampicava sulla schiena e poi lo
scricchiolio, una voce profonda e Filippa, la sgradevole e tonante sensazione
che qualcuno l’avesse chiamata.
La madonna s’era concentrata di
nuovo verso il figlio, aggiustandoli i capelli scuri così simili. Ma Filippa aveva continuato a sentire lo
sgradevole sensazione d’un fiato sul suo orecchio, una piccola voce stridente,
che s’era poi ingrossata come d’un urlo.
Il secchio l’era scivolato via dalle dita nodose, che s’era rovesciato
sul pavimento. Betta s’era volta, con gli occhi scuri ed intimidatori. “Che
seccatura” aveva detto, ma all’ora alle orecchie di Filippa non era venuta che
un suono stridulo d’una lingua che non sconosceva ancora. Per l’ultima volta la
voce l’aveva chiamata ed ignorando i rimproveri di Betta, lei s’era voltata, ma
nessuno pronunciava il suo nome. “Io
l’ho detto, prendiamo un’italiana” aveva ringhiato la signora alle sue spalle,
con i pugni ai fianchi, “Questa neanche capisce quello che dico” s’era lagnata
ad alta voce.
“Filippa”
la voce la riportò al suo tempo, pensò qualcuno la stesse chiamando, ma di
fronte lei, impettito ed insozzato di vernice c’era Sandro, “Mi ero persa in un
ricordo” aveva ammesso a voce bassa, sollevandosi sulle sue gambe, sentendole
molle come l’argilla. Il cesto di cibo,
le era scivolato dalle dita, rovesciandosi nuovamente sul pavimento, “Hai le
stigmati alle mani” aveva detto con un tono secco Sandro, lo stesso che aveva
la vecchia Betta quando le parlava. Filippa era caduta sulle ginocchia e s’era
messa a raccogliere i viveri e questa volta, il fischio sulle sue orecchie fu
forte, come qualcuno cantasse appollaiato alle sue spalle. Filippa, una voce greve, sussurrata, una voce che un tempo le dava
il buongiorno, prima di finire inghiottita nella memoria, che era poi riapparsa
più e più volte nella sua vita, nei momenti più imprevedibili, quella di suo
padre. Bisbigliò qualcosa, ma la gola s’era fatta secca; Sandro s’era chinato
al suo fianco, aiutandola a raccogliere i viveri, ignorando Filippino e gli
altri membri della servitù medicea. L’aveva toccata alla spalla, “Sei pallida”
aveva mormorato, Filippa aveva sollevato il viso, sentendolo sciogliersi come la
cera e la voce di suo padre era echeggiata ancora, non nelle mura, nella sua
testa, “io … io …” sussurrò, prima che il palmo che la sorreggesse, scivolasse,
lasciandola cadere a terra.
Quando aveva aperto gli occhi si
era trovata stessa sulla terra arida, Stretta tra alte pareti pallide di marmo
crepato, con edera rampicata. Si ritrasse come un riccio, estraendo dalla gamba
il pugnale che le aveva donato Lele, quello con l’effige di cui non conosceva
la provenienza. “Filippa vieni” la voce di suo padre la chiamava, s’era sollevata dalla posizione cucciata e
s’era alzata, cercando di capire dove fosse, da dove provenisse. Era in greco
che la chiamava. “Padre” bisbigliò in quella lingua che le apparteneva, “Dove sei?” chiese, proseguendo lungo il
corridoio, da dove la voce sembrava farsi più forte. Non le interessava sapere
dove fosse lei, ma ritrovarlo. Corse a perdifiato, con il coltello tra le mani
sottili.
Incontrò un bivio e le sue
orecchie furono sorde alla voce. Un mosaico s’apriva davanti ai suoi occhi, un
toro ucciso da un uomo, “Teseo” bisbigliò, ricordando la leggenda Ateniese del
labirinto, “No” si corresse, Teseo aveva affrontato il minotauro, non il toro. Chi aveva ucciso il toro? Pensò, le
venne in mente suo fratello maggiore, il secondo, che era rimasto in Grecia e
s’era convertito ad Allah ed era diventato Mullah, quando erano bambini parlava
sempre dei miti, Teseo uccise il
minotauro, aveva detto, con una voce di cristallo, che nei suoi ricordi si
spezzava. Il Toro! Urlò Filippa nella
sua mente, a suo fratello, Chi ha ucciso
il Toro? Sua madre era un’ombra sul
muro, aveva riccioli neri e la sua pelle abbronzata, “Chi ha ucciso il toro?”
domandò a sua madre, senza neanche curarsi fosse lei lì, sua madre sorrise, in
maniera sporca, un ghigno, che mostro i denti piccoli e giallognoli, “Mitra”
rispose. Mitra aveva ucciso il toro,
l’uomo sorto adulto dalle pietre. Ricordava la leggenda e le dita callose di
sua madre sui capelli. Si voltò per tornare indietro, perché non v’era bivio
guidato da Mitra che valesse … E l’aveva
trovata: su un altare di pietra levigata d’onice nero nebuloso, su cui una
donna era sistemata, come un sacrificio.
Non aveva catene ed era stesa
come se dormisse, le mani dipinte
strette al petto, indossava un abito a veli, dai colori più disparati, neri e
rossi, senza pizzi, un velo viola sulla testa a coprire i capelli scuri ed un
espressione serena. E Filippa la conosceva,
non sapeva il suo nome, ma conosceva il suono della sua voce, era invecchiata,
eppure era lei, ne era certa. Toccò la guancia con il palmo, fredda come la
neve d’inverno. Quando era bambina, suo padre prima di scomparire nel buio, la
teneva per mano, una mattina, delle più calde d’estate a Zanta s’era
presentata, vestita di veli leggeri e pallidi, i capelli castani lunghi fino
alle anche ed un sorriso candido. Dopo che lei era venuta, sua madre aveva
spaccato vasi di coccio per il pavimento e suo padre era andato via nel buio,
il più grande dei suoi fratelli poco dopo. Una mattina cercandolo, aveva
trovato il suo giaciglio freddo e nulla di lui. “Pensa siano morti” aveva detto
sua madre, chiudendo il fazzolò sul capo, come fosse stata la vergine Maria a
lutto, vestita di nero. Quando aveva quattordici anni, aveva chiesto alla madre
se per caso suo padre gli avesse traditi per quella donna, “No” aveva risposto,
“Lui ha tradito il buon Gesù, solamente” aveva detto con voce spezzata, Filippa
s’era fatta rigida, “Tuo padre era un peccatore, si” aveva spiegato sua madre,
passando le mani tra i nodi, “Ed ha pensato di espiarsi dal suo colpa con
un’altra” aveva aggiunto, distante. Quando aveva provato a chiedere altro, sua
madre le aveva schiaffeggiato la guancia, perché aveva risposto fosse meglio
non sapesse. Aprì gli occhi la donna, “Sei cresciuta” mormorò con voce bassa.
Filippa arretrò di qualche passo e cadde.
Quando si sollevò si rese conto
d’esser stesa lei sull’altare, solo che mentre la donna era libera, i suoi
polsi erano stretti in catene di ferro nero, provo a divincolarsi ma scoprì con
orrore che anche le caviglie lo erano. “Va tutto bene” sussurrò una voce, una
mano spazzolò tra i capelli scuri, un viso era comparso nel buio, era quello
d’un uomo, il suo viso sapeva di memoria, il viso bronzato, capelli ricci ed
occhi bruni, “Tu sei …” le parole le morirono sulla lingua, strozzandosi nella gola, “Tuo fratello” aveva mormorato
quello, accarezzandoli il viso, “Vivo”
soffiò Filippa. Sua madre aveva detto fossero morti, lui e suo padre, ma aveva
mentito. Suo fratello annui, “Che significa?” domandò, cercando di sollevarsi
sul busto, ma le catene e le mani di lui premute sulle spalle la bloccarono.
Neanche s’era accorta di star parlando in greco, “Noi siamo le corna
dell’increato” sussurrò nel suo orecchio. “Nemici dell’Uomo” strillò lei,
ricordando quella formula, era quella del Labirinto, una volta suo fratello, il
Mullah, l’aveva detto. L’uomo annui, “I Demopulos
lo sono da generazioni” aveva spiegato, “Ma siamo stati traditi, nostro
padre ci ha traditi” la voce suo fratello si fece eco e le sue manette fumo.
Filippa si scostò trovando la donna che aveva portato via suo padre sveglia
fissarlo, “Tuo padre voleva salvarvi” le disse, l’italiano risuono nelle sue
orecchie. Filippa ascolta la mia voce,
tuonò suo padre, nella sua testa, Ignorali
tutti, ruggì sua madre. La donna si perse nel buio. E tutto sprofondò
nell’oscurità.
Una flebile luce di candela
s’accese, prima fu solo la fiamma, poi venne il resto, la cera nera e suo
fratello la guardava sorridere mesto, “L’ordine deve essere mantenuto” aveva
detto, allungandole la mano, “Devi aiutarci” aveva aggiunto. Era suo fratello,
Filippa prese la mano, ma nella sua mente entrambi i suoi genitori urlarono, lì
parve di vederli nel fuoco della candela nulla più che due ombre storpiate. “Il
nostro nemico è troppo per te” aveva bisbigliato, guidandola in un giardino che
aveva preso forma lentamente intorno a loro, d’una natura ingloriosa,
abbandonata ed incolta, “Ma non chi lo succederà” aveva mormorato, “Uccidi colui che avrà la forza di domare il
toro” aveva detto, “Ora che è ancora inerme” aveva aggiunto, prima di
continuare lungo il giardino. Filippa percepiva la sensazione di paura
rampicarle lungo la schiena che qualcosa non andasse per il verso giusto, che
ciò che l’era chiesto era immondo, perché le parole di sua madre vibravano
nella sua memoria, non fidarti mai,
aveva detto. “Devi abbandonare la tua
signora” aveva ripreso il fratello, “Noi siamo i Nemici dell’uomo” aveva ruggito, e loro erano nemici dei figli di Mitra e la
sua signora aveva la moneta del toro, quella che lei aveva fatto recapitare a
Da Vinci ed era stato il turco ad avvicinarla, sulla via del ritorno per Roma,
prima che trascinasse Filippa e Lele fino a Firenze. “Lei è una figlia di
Mitra” non era stata una domanda, ma una glaciale affermazione, “No” aveva
risposto suo fratello, “Non lei” la fiamma della candela era traballata, quando
s’erano arrestati davanti ad una cripta.
La sua signora l’aveva mandato dall’artista proprio per la ricerca d’un
ossario.
La porta era socchiusa, ma suo
fratello la spinse dentro lo stesso. Anziché trovare una bara o quel che c’era
in una cripta, s’era trovato in una tenda da battaglia. Un uomo semistempiato
vestito di scuro, era seduto attorno ad un tavolo che rappresentava lo stivale
dell’Italia, aveva un sorriso sornione, mentre toglieva un drago serpente dal
tavolo, era una piccola statuina che mischiava l’azzurro ed il giallo. “Quella puttana d’una Sforza è caduta” aveva
detto un’altra voce, sogghignante, Filippa s’era voltata incrociando occhi
scuri, incastonati in un viso cereo, appuntito con i zigomi alti, i capelli
lunghi e scuri, sul blasone v’era cucito un toro cocinigna, “Caterina sempre
così testarda” mormorò l’uomo, guardando il drago, sul viso serpeggiava un
sorriso caustico, d’una soddisfazione che andava ben oltre la misera vittoria
d’uno scontro. Un uomo era entrato nella tenda da battaglia, vestito di ferro
lucido e nero, “Mio signore, Madonna Sforza la prega di riceverla” aveva con
tono basso. “Che si fotta” rispose il ragazzo con il toro, versandosi del vino,
un sorriso superbo solcava il viso. L’altro uomo, aveva inclinato il capo di
lato, guardando ancora il drago serpente, “Mio buon principe” aveva detto
adulatorio, “Giulio Cesare aveva sempre rispetto per i nemici sconfitti” aveva
aggiunto, l’altro aveva roteato gli occhi, “Consideratelo il desiderio d’un
condannato” aveva aggiunto mellifluo, prima di ricordare che tale signora sarebbe
presto stata sottochiave. “D’accordo” disse lamentevole, bevendo del vino, che
Filippa intuì sembrargli amaro, “Scopriamo cosa vuole questa puttana” disse
inferocito.
Nella tenda erano stati presto in
quattro, Caterina era al fianco di Filippa, ma non la vedeva, indossava abiti
pregiati, rovinati dal sangue e dal fango, i polsi erano stretti, da corte, che
quasi tagliavano la pelle, una cascata di capelli ruggine, macchiati d’un
grigio senile, il viso era austero ma gli occhi ruggivano come quelli d’una belva.
Caterina non guardò il giovane, guardò l’uomo che teneva la statua tra le dita,
lo guardò come se avesse avuto il potere di incendiarlo, “Macchiavelli” la voce
uscì sibilante, come d’un mostro. L’uomo sorrise, come se fosse stato elargito
il compliemento più grande di sempre, “Mia signora” disse, squisito
sollevandosi. Il ragazzo del toro, che s’era stato in disparte a bere vino,
s’era alzato imponendo la sua presenza, era ben più alto sia di Caterina sia di
Macchiavelli, ed era lì imperioso su di loro. “Qual è l’ultimo desiderio,
madonna?” disse saccente il giovane, Caterina lo guardò appena, come se non
fosse stato nulla più che un insetto, “Lascia parlare gli adulti, Borgia” s’era
lagnata, concentrandosi di nuovo su Machiavelli. Lo schiaffo del ragazzo con il
toro, l’aveva colpita a pieno sulla guancia, fino a farla cadere sulle
ginocchia e farle sanguinare un labro. Caterina non si toccò il viso, ne provò
a fermare il sangue, colante rosso sulle labbra, s’era sistemata di nuovo in
piedi, fiera ed eretta. E Filippa s’era accorta di averla già conosciuta
madonna Sforza, nei vari pomeriggi tra le madonne Romane che si organizzavano
nelle ville, lei l’aveva veduta, più infantile di lei, ma con quegli stessi
occhi carichi. “Rodrigo avrebbe dovuto riempirti di botte da bambino” aveva
ringhiato, “O quando te ne stavi appollaiato sulle mie ginocchia avrei dovuto
strangolarti”, quello provò a colpirla di nuovo, ma Machiavelli lo placò per
tempo. “Lascia che una tigre morente, arruffi il pelo per l’ultima volta”
bisbigliò enigmatico, i suoi occhi erano colmi d’un amore martoriato. Caterina
continuò a fissarli con mero disgusto, “Ti nutri d’un illusione, Cesare” aveva
mormorato, sollevando entrambe le mani, legate tra loro, per pulirsi le labbra
dal rosso, era al più giovane che si rivolgeva “Uomini più capaci di te, hanno
fallito” aveva aggiunto, il suo tono era spento, così come i suoi occhi, lì
chinò al rosso impresso sulle sue dita, poi spostò gli occhi su Machiavelli,
“Direi Caterina” cominciò, “Di lasciare la politica ai politici” aveva
terminato derisorio, prima di allungare una coppa di vino alla donna, che
l’aveva presa malamente, specchiando gli occhi ormai stanchi nel bianco spumato
del bicchiere, “Alla buon anima di Girolamo” aveva detto, alzando un calice
appena riempito, anche lei l’alzò meccanicamente, prima di lanciare uno sguardo
venefico a Cesare Borgia, “A Leonardo” mormorò lei in risposta, bevendo il
vino.
Cesare aveva guardato quel
brindisi come mogio disinteresse, “Bene” aveva ringhiato, posando il bicchiere
sul tavolo, “Ho vinto io” aveva mormorato con un sorriso raggiante, posando le
mani sui fianchi, Caterina aveva roteato gli occhi, “Tu marcirai a Roma, io
avrò l’Italia intera” aggiunse, squisitamente esaltato. La signora Sforza aveva
vuotato il bicchiere e le sue labbra s’erano curvate in un sorriso narcisista e
divertito da quella stessa frase, “La politica ai politici, i misteri ai
misterici” disse compiaciuta. In un modo contorto, Filippa intuì, Caterina si
considerava vincitrice, guardò ancora Machiavelli, nei loro occhi c’era scritta
una conversazione, cui ne lei ne Cesare poterono avvicinarsi, “Date i miei
omaggi a quel folle d’un artista” bisbigliò, quando Borgia ordinò alle guardie
di mandarla con una scorta a Roma. “La sua sola presenza mi disgusta” confidò
il ragazzo del toro guardando Machiavelli, che rise, “Cesare” disse, quando il
riso aveva abbandonato il suo viso, “Vorrei dare un’occhiata ai manoscritti
della villa” aveva chiesto cortese, l’altro l’aveva accordato, guardando bramoso
la tavola su cui erano sistemati le statue di quel gioco politico, più
interessato ad avere il dominio che una sorta di cultura, “Ed anche una delle
cameriere” aveva aggiunto Machiavelli, Cesare l’aveva guardando, crucciando le
sopraciglia, “Violante Ricci”, l’altro aveva sollevato le spalle con
disinteresse, “Prenditela” aveva sminuito la faccenda.
Prima che Filippa potesse dire
qualcosa, una crepa sotto i suoi piedi l’aveva inghiottita e poi era caduta.
S’era arrestata, rotolando sulla terra, quando aveva aperto gli occhi era in un
corridoio di pietra levigata, cui entrambi i lati v’erano gabbie per animali.
“Filippa” non era nella sua testa, suo padre la stava chiamando davvero, da
dietro le sbarre, cercò di ritrovare la voce, da quale loculo venisse. Dietro
spesse sbarre, una sagome si nascondeva nell’oscurità, troppo curva per poter
stare in piedi, “Tellina mia” aveva mormorato, con una voce tremolante,
avvicinandosi, quel tanto che i dettagli di quel viso divenissero appena
visibile, ma non era che una voce nella più profonda oscurità. “Che bella che
sei” aveva mormorato, dita fredde le avevano accarezzato il viso, “Papà, che
sta succedendo?” aveva chiesto confusa, l’uomo s’era ritratto, sprofondando
nell’oscurità, “Ero un nemico dell’uomo” aveva cominciato. Tuo padre era un peccatore, si, aveva detto sua madre, “Ma ho
tradito la mia causa per i figli di Mitra” aveva confessato, Ed ha
pensato di espiarsi dal suo colpa con un’altra, la voce della sua genitrice
era tonate nelle sue orecchie. “No” disse Filippa, ritraendosi un poco, “Mio
padre era un uomo di fede, non un misterico” strillò, rigida. L’uomo mormorò
qualcosa, “So di averti deluso, tellina mia, i tuoi fratelli, tua madre” , la
sua voce era d’un uomo pieno di rimpianti, “Non so ancora dirti, se le mie
azioni sono state corrette o meno” aveva mormorato, così che Filippa
s’avvicinasse ancora, “Ogni mia azione è stata per voi” aveva confessato,
“Giusta o sbagliata che sia stata” aveva aggiunto. Filippa aveva annuito, quando aveva quindici anni, non ricordava chi
era stato, tra i suoi fratelli a dirgli che non esistevano uomini senza
peccati, ricordi la parabola
dell’adultera? Le venne in mente quella domanda, nessuno dei presenti era innocente. Quello era l’insegnamento
affinchè fosse noto che davanti a Dio si era uguali, ma a Filippa, suo
fratello, aveva insegnato che nessun’anima era pia, sbagliare era concesso a
chiunque.
“Mi stai chiedendo di non
assecondare i Nemici dell’Uomo?” chiese, cercando gli occhi di suo padre, nel
buio, “Mai” aveva rispsoto quello, “Tellina mia, ti chiederei qualsiasi cosa”
aveva bisbigliato, “Io ho fatto le mie scelte, tuo fratello le sue ed anche tua
madre” aveva aggiunto. A Filippa era venuto in mente il viso di sua madre,
coperto di lacrime e dolore, quando l’aveva mandata via. “E tu farai le tue”
aveva detto, “Per i figli di Mitra il tempo è un fiume circolare” aveva
spiegato, “Per i nemici dell’uomo, un reticolato” aveva aggiunto, “Ciò che
conta è che possibile attraversarlo più e più volte e nulla è mai definitivo”
al voce era gentile ed oltre le sbarre nel buio, Filippa vedeva la sua mano
porgersi verso di lei, l’afferrò con delicatezza inusuale, “Per chi ha
lungimiranza, almeno” aveva detto gentile, “Leonardo Da Vinci potrebbe aiutarti
a capire la tua strada” aveva sghignazzato, “Non potevamo essere una nromale
famiglia, greca?” s’era lamentata Filippa, prima di sentire la sua stessa pelle
liquefarsi.
Spalancò gli occhi, trovandosi
davanti due vistosi lenzuoli di tela, tenuti insieme con dei bastoni, che ricordavano le ali d’un pipistrello. “Ben sveglia,
fanciulla” disse una voce greve, nessuno che conoscesse, si alzò
immediatamente, registrando fosse in quello che parea un caotico studio, “Sto
ancora sognando?” gracchiò, poco prima di cadere giù da un amaca che era
sospesa dal soffitto, “No” disse una persona entrando nel suo campo visivo,
aveva capelli corti, sconvolti ed un accenno di barba sulle guance, occhi
castani ma belli, era vestito in maniera bizzaro e sovversivo, come ogni
fiorentino che lo fosse di nome e di fatto. “Sandro?” domandò, rendendosi conto
che prima della sua avvenuta onirica era con Botticelli nei palazzi Medicei, “E
che ore sono?” aggiunse, ricordando che era uscita sul presto quella mattina,
“È stato lui a portarti qui” aveva risposto con mero disinteresse l’uomo, “Mi
detesta, ma riconosce sia molto più abile di lui nelle scienze umane” aveva
detto orgoglioso. “Sei svenuta per un bel po’ di ore” aveva spiegato,
“Botticelli aveva pensato fossi caduta in una morte vivente” aveva detto, prima di allungarle quella che era una tazza
d’un liquido fumante, “Ma ho capito subito che non eri veramente qui” aveva
spiegato, invitandola a bere, Filippa s’era sollevata dalla posizione
accucciata, fino ad essere sorretta di nuovo dalle sue gambe, sentendole molle
come l’argilla, “Chi sei?” domandò, quasi temendo la risposta, “Leonardo di Ser
Piero da Vinci” rispose, mostrando una fila di denti bianchi lucidi.
Lorenzo si imbrattò anche le dita
per rifinire i capelli della sua madonna, cercando di dare volume ai ricci.
Aveva troppe idea per la mente, fino alla notte prima, aveva passato i due
giorni precedenti a sforzarsi per vincere la competizione contro Sandro ed ora
tutto quello che riusciva a pensare e quando Leonardo sarebbe irrotto nella sua
stanza per chiederli di accompagnarlo da Filippa Demopulo ed Aclima Lysimacus.
Neanche, si curava più della madonna dai capelli ferrugine e pensare che quando
l’aveva veduta la prima volta aveva immediatamente immaginato come sarebbe
stato imprigionare quello sguardo fiero in una tela destinata a perdurare. La
vita degli uomini era breve, l’arte eterna (*), ma cosa importava
dell’eternità, se nell’immediato aveva Da Vinci e quel sorriso in grado di
scogliere qualsiasi cuore.
Aveva lanciato uno sguardo al quadro
che Sandro aveva lasciato incompleto sul cavalletto, Benedetto aveva detto
fosse fuggito di fretta e furia per cercare un colore e questo aveva fatto
ridacchiare Lorenzo, perché era una cosa che riusciva davvero ad associare a
quel compagno. Nel bel mezzo d’un dipinto, animato dall’estro creativo,
Botticelli poteva divenire estenuante ed
intollerabile se non trovava quella precisa tonalità cromatica che la sua mente
creava. Ma non doveva temporeggiare, anche senza quella precisa combinazione,
Sandro avrebbe potuto fare un dipinto migliore del suo, senza neanche
impegnarsi, quasi.
“Cerco il Maestro Verrocchio”
aveva sentito alle sue spalle, Lorenzo s’era voltato, illuminata dalla luce del
sole, che filtrava dai lenzuoli che Andrea aveva fatto stendere per coprire la
luce intensa del lucernario e parare dal freddo di dicembre, c’era una donna
delicata, dalla gonna ambia ed un corpetto stretto che con tutti i lacci le
schiacciava anche il seno, aveva capelli ceneri ed occhi azzurri e luminosi.
“Nel suo studio” aveva risposto Lorenzo con mero disinteresse, mentre indicava
il corridoio per entrare all’interno della bottega, una Yana appena giunta,
studiava al ragazza con discreto interesse, “Buon lavoro artista e grazie”
rispose, chinando il capo gentile, prima di incamminarsi nella direzione; Yana
aveva seguito la straniera preoccupata, non che Lorenzo c’avesse badato poi
molto.
Leonardo era tornato da una sua
passeggiata solo poco prima dell’ora di pranzo, Lorenzo aveva fatto una pausa e
mangiava una mela, l’unico frutto reperibile in quella stagione, assieme a
Benedetto che preoccupato riferiva della fanciulletta che s’era presentata alla
porta del maestro. “Quando Verrocchio l’ha vista” aveva borbottato piccato, “Figliola mia ogni giorno diventi più bella”
aveva ringhiato il conciatore, citando le parole che l’uomo probabilmente aveva
usato. Sandro Botticelli era invece
ancora nella città, forse la sua ricerca del colore aveva superato di gran
lunga la meticolosità abituale. Allora era tornato Leonardo, ancora
infastidito, seguito a ruota dai suoi ormai celebri compagni, Zoroastro e Nico.
Il secondo quando l’aveva visto aveva sorriso, venendo immediatamente verso di
lui, mentre il primo braccava l’artista per parlare di qualcosa di venefico,
“Lorenzo!” esclamò, con un sorriso solare, il ragazzo lo guardò, “Come va, la
competizione?” chiese interessato, nel riflesso dei suoi occhi castani c’era
altro, “Bene” disse imbarazzato Lorenzo.
Leonardo aveva ignorato Zoroastro
ed era venuto verso di loro, “Pronto?” aveva domandato, guardandolo con un
sorriso amichevole, Lorenzo aveva annuito, lievemente arrossato in viso, ben
disposto ad accompagnare quell’uomo anche nelle terre del Catai. “Io lo so,
sarà una pessima idea” aveva stabilito il tartaro, chiudendosi una mano sul
viso, “Dove è la novità?” aveva detto
divertito Nico, con una vena di malizia. Anche Leonardo aveva un sorriso
estremamente divertito, che aveva il potere di sciogliere il cuore di Lorenzo.
“Almeno mangiamo prima” aveva sussurrato Zoroastro, esprimendo che se fosse
dovuto morire, sperava di farlo a pancia piena.
Avevano mangiato intorno ad un
tavolo nella stanza di Leonardo. “Quindi voi due passate molto tempo insieme?”
aveva mormorato Nico, Lorenzo era
arrossito vistosamente, mentre deglutiva, Zoroastro aveva un espressione
infastidita sul viso, ma non era per lui, era al suo amico che regalava
occhiate gelate, “Si, Nico” aveva risposto il maestro con un bel sorriso, “Io e
Lorenzo siamo molto in affinità” aveva spiegato, mangiucchiando qualcosa dal suo
piatto, con un tono di totale malizia sul viso. “Molta” aveva detto ridondante,
pensando alle notti che erano passate. O
si, avevano decisamente molte affinità, poi Lorenzo non aveva difficoltà ad
ammettere che sembrava trovare strepitosa ogni cosa di quell’uomo, per prima
cosa il suo modo di guardare il mondo, Da Vinci lo guardava con molta più luce
e chiarezza di chiunque altro, nessuno avrebbe mai convinto di qualcosa di
diverso. “Quindi oggi, andremo a trovare questa Aclima Lysimacus?” aveva detto Zoroastro
lamentoso, scoccando uno sguardo di fuoco a Leonardo, “Poi probabilmente
Girolamo Riario deciderà davvero di ucciderci” aveva borbottato, infilzando un
po’ di carne nella sua forchetta, “Il Conte non ci farà nulla” aveva detto
convinto Nico, “Ma è di sicuro coinvolto” aveva ribattuto Zoroastro, “O questa
sarà una qualsiasi altra ebrea di nome Lysimacus che cerca Leonardo” aveva
mormorato a mezza bocca, ma non aveva destato in alcun modo l’amico, Lorenzo aveva capito che qualsiasi cosa
Aclima Lysimacus avesse da offrire, doveva essere d’una gola indescrivibile per
Da Vinci, “L’ha mandata il Turco e può condurmi alla cripta” aveva stabilito
Leonardo, quel tanto bastava perché s’avvicinasse alla signora.
S’erano incamminati dopo pranzo
verso il Cane Abbaiante, Leonardo con un sorriso estremamente malizioso,
Lorenzo al suo fianco convinto e alle loro spalle i due compari di Da Vinci con
espressione granitica. “La madonna del Drago Serpente” aveva esclamato Nico,
sorpassandoli e superandoli, ammiccando ad una figura davanti loro, aveva una
gonna a piega cerulea, con una cinta legata sotto il seno, un ben evidente
ventre gonfio, i ruggenti capelli di rame, erano sciolti e non coperti dalla
solita mantella, la signora di cui doveva fare il ritratto. Al suo fianco c’era
un uomo alto, vestito di scuro, con i capelli d’un pallido biondo, “Insieme al
signor Adelchi” borbottò Zoroastro, guardando insistentemente la spada che
questi portava al suo fianco. Leonardo
s’era fatto d’un momento ombroso sul viso, “Oggi posso viver senza di lei”
aveva stabilito, proseguendo per la sua strada; “Vorrei sapere il suo nome”
mormorò invece Nico, con un sorriso smaliziato sul viso. La madonna con il
drago serpente, s’era voltato un attimo verso di loro, occhi verdi screziati di
giallo, come quelli d’una belva, ma sembrò non guardare minimamente lui, fissò
Leonardo, lo sguardo che ebbe in cambio non fu che poco più d’un minimo
interesse. Da Vinci proseguì la sua strada, “Devi essere più attento Nico” aveva detto Da Vinci, con un sorriso
imperlato sul viso, il biondo l’aveva guardato serio, poi s’era voltato
indietro, ma i capelli ruggine della madonna con il drago serpente era
scivolata tra la folla fiorentina. “Milanese” aveva stabilito Nico, richiamando
l’accento del nord, che di fatti aveva avuto, “Incinta e pericolo” aveva invece
richiamato Zoroastro, facendo riferimento a quando aveva fatto intuire che
aveva un concetto della vita molto estremo, da legge del taglione.
Il Cane Abbaiante era poco più di
una bettola, ma Lorenzo la trovava unica, ricordava la prima volta che era
ceduto all’ebbrezza del buon vino. Sorrise, ma questo si congelò sulle sue
labbra, quando osservò il viso contrito di Leonardo, i suoi occhi scuri erano
altrove, già dentro la locanda, focalizzato su qualcosa a cui gli uomini non
erano pronti, Da Vinci guardava avanti, più di tutti gli altri, e a fissare
quegli occhi, Lorenzo temeva poter rimanere troppo indietro. Leonardo lo
superò, scomparendo dietro la porta di legno marcito, i tre s’apprestarono a seguirlo,
con il lamento di Zoroastro convinti che questa volta sarebbero davvero molti.
Di Credi sentiva i brividi arpionati alle sue spalle, timoroso di Aclima
Lysimacus ed i suoi segreti, che
Leonardo, l’uomo più incredibile del mondo, ne era bramoso. Nella
locanda, nonostante l’aria invernale, si respirava un clima caotico ed un
vociare diffuso. La prima persona che Lorenzo notò era Jacopo Saltarelli
attorno un tavolo che civettuolo provava ad avvicinarsi ad un uomo dai capelli
scompigliati e scuri, che nonostante una cicatrice sul viso aveva lo stesso
un’aria affascinante. “Vedi Filippa Demopulo?” domandò Leonardo nel suo
orecchio, così in tutta confusione cercò
di trovare i ricci scuri e polsi sottili, ma non vide il viso della greca
svettare da alcuna parte. Non che questo contasse qualcosa, Leonardo aveva già
mosso i primi passi in un direzione, verso una donna sistemata su un tavolo che
teneva i palmi intrecciati sotto un mento appuntito ed i gomiti puntati sul
legno; poteva avere intorno ai quaranta, la sua età non era nascosta da una
falsa giovinezza o dalle polveri del trucco, aveva rughe leggere che ne
segnavano i caratteri, un viso che non era bello, ma intrigante, una carnagione
pallida come ad una nobil donna s’addiceva, capelli scuri e lisci, come seta
nera, scivolosi, su un farsetto da uomo in lana bianca, ed occhi spaventosi,
come pozze di inchiostro. Le labbra sottili si arcuarono in un sorriso di chi
la sapeva lunga, “Tanti anni fa, ti ho sognato” disse con voce musicale.
Nei suoi sogni una ragazzina
troppo giovane per essere donna, aggrappata ad un albero, scarmiglia e coperta
di sangue e fango, implorava a qualcosa – qualcuno – di smetterla. Di quella
pallida ragazza, non era rimasta che una tetra donna, che Leonardo aveva
davanti. “Anche io, mia signora” rispose con un sorriso irrisorio, sentendosi
rigido davanti il sorriso perverso di Aclima Lysimacus, che il Conte rientrasse
in quella storia sembrava quanto mai palese in quel momento, la stessa
maniacale perfidia ed incuranza luccicava negli occhi. Il cognome non poteva
essere una casualità. “Siete uguale ai miei ricordi” bisbigliò sottile, la sua
voce era come quella d’una lama, emanava la stessa preoccupazione d’un pugnale
nascosto in una veste, come se all’improvviso avesse potuto uccidere. Aclima s’era sollevata dalla posizione
seduta, fino a raggiungerlo in poche falcate, era piccola di statura, aveva
seni sodi che non potevano essere nascosti e curve giunoniche, in un modo
perverso e sbagliato, rianimarono nella sua memoria qualcuno.
Le dita affusolate erano fredde,
quando Leonardo le sentì sulle guance, “Il vostro viso m’è rimasto dipinto”
aveva mormorato. Il Da Vinci di ora, aveva incontrato nei sogni l’Aclima
d’allora. Pareva follia, il solo pensarlo, ma era vero; cercò di ricordare se
nelle sue suppliche in alcun modo, la donna avesse dato segno di aver visto il
suo spettro nei sogni. Leonardò s’allontanò d’una passo, per sottrarsi alla
mano, che rimasta a mezz’aria, si ritrovò presto stretta in quella
dell’artista, che fintamente educato si presentò, lasciando la moneta con il
toro sul palmo. “Aclima Lysimacus” rispose mogi lei, osservando la moneta che
aveva tra le dita, “Voglio sapere della cripta” aveva detto secco. Perché il
ragazzino dai capelli scuri, aveva fiori di gelsomino dipinti sulle mani, che
mutavano, perché lui era un’altra abbeverata alla fontana della conoscenza,
perché Leonardo era divorato dal desiderio di sapere.
Aclima lasciò il sorriso appassì
sulle sue labbra ed in un attimo sembrò più vecchia di vent’anni, “Ed io voglio
delle risposte” aveva detto con voce sterile la donna, prima di voltarsi verso un uomo dal viso
sfregiato, che abbandonato le chiacchiere di Jacopo Salterlli, s’era sistemato
al loro fianco, un armatura lucente ed una grossa spada appesa al fianco. “La
tua prodezza con il sangue è nota in tutta l’Italia” sussurrò Aclima, con tono
basso, “La vita del Magnifico” precisò. Leonardo ebbe quasi la sensazione di
sapere quali precisamente fossero nel suo corpo le gocce di sangue appartenenti
a Lorenzo. Estranee e fastidiose in quel momento. Aclima mise delle distanze, i capelli scuri
ondularono sulla schiena si voltò verso l’uomo dal viso sfregiato e sorrise
accomodante, “Lele, di all’oste di mettermi in conto tutto ciò che questi buoni
uomini consumeranno” aveva detto, adocchiando i tre compagni di Leonardo, prima
di invitarlo a ritirarsi nella sue stanze.
Aclima Lysmicus dormiva in una
stanza con due letti duri, separati da un giaciglio sistemato per terra, su un
talamo c’era sistemata una bisaccia. Lele, l’energumeno rimasto al piano di
sotto, doveva dormir per terra, in un letto doveva esserci la misteriosa
Filippa Demopulo, l’altro della signora. Aclima si sistemò su un letto, quello
senza la bisaccia, incrociando le gambe in una posizione fiera. Non sembrava la
ragazzina coperta di sangue in quel momento,
“È romana vero?” aveva domandato superfluamente Da Vinci, l’accento la
tradiva. Aclima sorrise amaramente, “Sono più di vent’anni che vivo a Roma”
confessò con voce bassa, chinando gli occhi, “Ma il mio cuore è legato alla mia
casa natale” aggiunse con un imperlato sorriso di malinconia. Leonardo si sedè
sul letto con la bisaccia, inchiodando i gomiti alle ginocchia ed osservandolo
profondamente intrigata. Aclma respirò, come se cercasse d’organizzare un
discorso, che le parole che s’era preparata si fossero sciolte sulla lingua?
“La vostra mente è la più brillante che il mondo abbia mai visto, da Ipazia di Alessandria” aveva sputato poi
fuori, con un tremore di incertezza. “Vorrei tu studiassi un cadavere” aveva
detto perentoria, Leonardo aveva annuito serioso, “Vorrei tu stabilissi se sia
stata una morte naturale o …” non servì finire la frase, Aclima lo fissò un
attimo, poi continuo, “Cerchi la cripta, il Turco me l’ha detto. Io posso
essere la tua chiave” aggiunse, “Ma tu devi risolvere questo incomodo” aveva detto schietta. “Si” aveva acconsentito
l’uomo.
Il sorriso di Aclima s’era fatto
per un attimo vero, “Chi era?” aveva domandato Leonardo incrociando le braccia
al petto, il sorriso della finta ebrea s’era appassito, “Il morto della cripta”
rispose schietta lei, “Chi era per te?” domandò Leonardo, non voleva
immischiarsi in una storia senza conoscere il tutto, quasi per un desiderio
personale che per informazione, “Il suo amato? Il suo amante?”, “Qualcosa di
più” seccò il discorso la donna, sollevandosi dalla posizione seduta, da sotto
la felpa aveva estratto una lama corta ed aveva mostrato la lama lucente, “Ciò
che c’è nella cripta, può portarti più vicino a qualsiasi cosa tu voglia” aveva
confessato, chinandosi in ginocchio davanti a lui. Aclima era una nobil donna,
tutto lo diceva, il suo portamento, il suo aspetto, la sua voce, ed in quel
momento era genuflessa a Leonardo, svestendolo del ruolo di bastardo e
vestendolo di quello di salvatore, “Cosa troverai in quel cadavere, darà a me
ciò che voglio” confidò, chiuse il palmo sulla lama e la percorse nella
lunghezza fino ad insozzarla di sangue, “Giurami che sarai mio alleato,
Leonardo” aveva detto, allungando la lama verso di lui, Da Vinci la fissò, strinse il ferro, macchiandolo di lui e pattuì
con Aclima. L’impressione d’aver venduto a Mefistofele la sua conoscenza.
Adesso il sangue di Lorenzo De Medici, non era mischiato solo a quello di
Leonardo Da Vinci.
“Io partirò per Roma domani”
aveva confessato la donna, avvolgendo in un lenzuolo la promessa di sua e di
Leonardo, “Sempre se Filippa decida di tornare” disse infiammata da
quell’impudenza, “Ci incontreremo tra una settimana alla Locanda di Vannozza
Cattanei” aveva detto arrestando la sua camminata, osservandolo attentamente,
“Il luogo più famoso di Roma?” aveva domandato retorico Leonardo, sollevando un
sopraciglio, Aclima rise, “Non c’è posto più sicuro di nascondere le cose, che
metterle davanti gli occhi di tutti” aveva spiegato, Leonardo aveva annuito,
era una follia forse? Ma questo non faceva che riempirlo d’orgoglio, non vedeva
l’ora di farlo, della dissennatezza uno come lui se ne nutriva. “Una domanda,
da quanto tempo è morto?” domandò, riferendosi al cadavere di cui Aclima
bramava i segreti; lei lo guardò un attimo, “Cinque anni” aveva detto, “Ma confido
delle tue capacità” aveva sussurrato, avvicinandosi lasciva. Sarebbe stato
davvero problematico trovare le cause di morte d’un corpo di così tanti anni,
ma se voleva entrare nella cripta, doveva assolutamente trovare quella strada
ed ormai aveva giurato.
Si sollevò, avrebbe voluto
chiedere ad Aclima, cosa in quella storia riguardasse Girolamo Riario, perché
il cognome Lysimacus non mentiva, ma aveva la screanzata impressione l’avrebbe
presto saputo. “Il vostro vero nome?” aveva domandato poi, rendendosi conto di
non averlo chiesto, era certo quello con cui si fosse presentata fosse una
menzogna, era si giudea nei dettagli reconditi del viso, d’un eredità che le
andava stretta, ma nei modi, nella postura, nella croce che spiccava da sotto i
vestiti, tradiva la sua verità, “Per ora è meglio, Leonardo di Ser Piero Da
Vinci che il mio nome resti in un dubbio” aveva risposto secca, legando una
mantella alle spalle, il cui orlo arrivava alle caviglie. Aprì la porta ed
uscì, invitandolo a seguirla, con un passo signorile, ma duro, come d’un
vecchio soldato addestrato alle armi, che d’una madonna della classe nobiliare.
Il resto del tragitto fino alla mensa della locanda, dove i suoi compagni e la
sua guardia l’attendevano, Aclima era stata in un silenzio pesante. Quando
erano stati avvolti dal chiassoso vociare della locanda, Leonardo aveva
ritrovato i suoi amici, Zoroastro aveva ormai abbandonato il suo nervosismo,
con le gote arrossate ed una risata frizzantina, l’uomo dal viso sfregiato,
Lele, pareva aver rilassato vagamente gli istinti, ben consapevole di dover
proteggere una madonna che probabilmente era più letale di lui, Nico cercava di
trascinare in un qualsivoglia discorso Lorenzo. Il giovane artista d’altro
canto guardava esattamente dove era lui, come se avesse aspettato fino a quel
momento di vederlo arrivare, una cosa che lo fece sorridere.
Leonardo non aveva voluto parlare
per quella giornata, della promessa con Aclima, aveva solo detto a Zoroastro
che aveva intenzione di chiedergli ancora una volta un famoso. Ancora avvolto
dall’ebbrezza dell’alcool, quello si era appeso alla sua spalla ed aveva
acconsentito. Sobrio probabilmente avrebbe negato inizialmente ancora l’aiuto a
Leonardo e poi sarebbero partiti assieme. Perché Zoroastro era sempre stata la
persona su cui lui aveva potuto contare, per qualsiasi cosa. E forse senza di
lui sarebbe stato perso. “Non vuoi raccontarmi?” aveva detto Lorenzo, poi
sedendosi sul letto del maggiore, Da Vinci gli aveva dato le spalle, mettendosi
a ricostruire il vaso, che la signora pregna aveva mandato in frantumi il
giorno prima, “No” aveva risposto con voce sterile. Di Credi era l’innocenza,
la sua mente era ignorante di quelle sette e quelle cospirazioni e Leonardo non
aveva voglia d’esser per l’ennesima volta causa d’una dannazione. Lorenzo s’era alzato, l’aveva sentito dal
rumore, aveva avvolto le sue braccia attorno alle sue spalle e baciato i suoi
capelli, in un morbido gesto d’affetto. Da Vinci non aveva mai amato nessuno,
mai, forse Lucrezia, una volta; ma sapeva di non voler cominciare, non in quel momento.
Neanche se la bocca di Lorenzo s’era sposata dai capelli all’orecchio. S’era
voltato per accogliere quelle labbra così acerbe, quando … “Messer Da Vinci”
dalla porta era entrato trafelato un ragazzino, più giovane ed allampanato di
Lorenzo, con capelli castani e riccoluti, intrecciati come un nido di rondini,
aveva il fiatone, come d’una corsa, le mani premute sulle ginocchia, ed il
fisico snello, ma leggermente emaciato, era stretto in un vestito azzurro dai
gigli dorati, con una cintura rosso infiammato, “Si signor …?” aveva accennato
Leonardo, ma subbito dietro di lui, era venuta una signora, di corsa che
l’aveva spostato senza troppo riguardo.
Madonna Vanessa Moschella era
entrata nei suoi alloggi, con i capelli in disordini, con un resto d’una non
molto arzigogolata pettinatura crollata nel mentre d’una corsa, con indosso uno
scialle di lana ed un vestito di rovinato sul fondo, d’ocra con istoriato di
porpora. “Oh Leonardo” esclamò quasi rallegrata, accennando un sorriso
vedendolo e tranquillizzando il suo affanno. L’inventore scattò via dalla
sedia, divincolandosi senza cattiveria dalle braccia di Lorenzo, “Vanessa
dimmi” esordì ponendo le mani sulle spalle dell’amica, “Non sarà successo
qualcosa a Giulio?” domandò, sentendo il cuore scalciargli nel petto. Per ogni
bastardo Da Vinci sentiva empatia, ma per quel piccolino percepiva un
sentimento simile all’amore paterno, così almeno gli era stato detto,
Verrocchio gli aveva insegnato che si poteva amare come un padre, anche senza
avere un figlio, loro ne erano la prova, Giulio anche. “No! No!” lo
tranquillizzò Vanessa, comunque con voce squillante, “Artista, non le è
concesso tale confidenza con Madonna
Moschella” strillò il ragazzino, prima di ricomporsi, con quel cenno di
superiorità che brillava negli occhi di tutti i ricchi “O santiddio Giovanni!
La mia integrità se le presa lui” aveva risposto esasperata la donna, “Direi
che può avere tutte le confidenze che vuole” aggiunse piccata, prima di
voltarsi verso Leonardo. Lorenzo s’era avvicinato, titubante.
“Vanessa vuoi dirmi che succede?”
chiese allora l’artista, guardandola negli occhi, “Una fanciulla è svenuta, non
si sveglia. Il cerusico non ha soluzioni” aveva detto tutta trafelata. Prima di
spiegargli che una compagna di Sandro Botticelli, che l’aveva accompagnato da
Filippino Lippi, s’era sentita male al castello. All’inizio s’era pensato ad
uno svenimento, sostenuto anche dalla fatica dei primi giorni del fiore rosso,
ma poi per l’intera giornata non s’era ripresa. Vanessa in mancanza di Lorenzo
aveva il compito d’amministrare il castello e toccata l’aveva fatta visitare
dal medico personale della famiglia medicea, ma quello aveva detto che la donna
era caduta nel sonno dei cadaveri, senza alcun ragionevole motivo. “Ma mi avete
preso tutti per medico?” aveva esclamato Leonardo, incrociando le braccia al
petto, quando Vanessa aveva confidato avevano portato la donna lì; prima Aclima
voleva che lui studiasse un cadavere per capire non si sa cosa, ora Vanessa
voleva desse la coscienza ad una ragazzina addormentata, non era un cerusico
lui! Era uno scienziato, un inventore, non un medico. “Lo so!” strillò Vanessa,
con le guance rosse, afferrandolo per le gote, che strinse nelle sue piccole
mani, “Nonostante l’incoscienza lei ha bisbigliato qualcosa” aveva precisato la
donna, “Deliri secondo il medico” aveva spiegato distrattamente Vanessa, “E non
ho idea di cosa abbia detto” aveva precisato, “Ma …” – il suo tono s’era fatto
basso – “Ti ho visto tante volte” aveva detto, da capire quando qualcuno stava
attraversando quei sogni, comprese Leonardo. “La vedrò” stabilì.
Sandro Botticelli non l’aveva mai
amato, così come lui d’altronde, ma in quel momento lo stava guardando dritto
negli occhi, le labbra serrate, ma tremolanti, era sporco di vernice, ma tra le
braccia sosteneva una fanciulla dormiente, con una cascata di capelli neri come
la coltre notturna e dalla carnagione olivastra. Il suo viso non pareva beato,
quanto tormentato qualcosa, qualsiasi immagine si stesse animando nella sua
mente, doveva tormentarla e torturarla come poche. “Filippa Demopulo” la voce
di Lorenzo venne distante e storpiata.
Leonardo la guardò, questo spiegava perché era assente. La prese dalle
braccia di Sandro, che non si risparmiò uno sguardo turpe, che poi soffocò,
“Svegliala” non era una supplica, un imperioso comando, che lo stoico
Botticelli si fosse infatuato?
Il suo signore era rimasto nella
città nobile a torturare l’uomo che l’ebreo aveva indicato. Aveva impedito a
Zita di vedere per non turbarla. Qualcuno li stava osservando da giorni, questo
era tutto quello che Girolamo aveva ottenuto, prima di mandarla via dai palazzi
vaticani per un’altra commissione. Era stata anche l’unica cosa che avessero
scoperto effettivamente, l’uomo aveva resistito alle torture per lungo tempo e
quando s’era finalmente detto disposto a collaborare, con la punta della piuma,
con cui voleva scrivere un testamento, si era aperto uno squarcio nella
giugulare. Un uomo notevole aveva constatato Riario con un tono sarcastico,
bevendo del vino, come se fosse stato aceto, disgustato da tale mansione.
Zita, d’altronde quella mattina,
era stata mandata di nuovo presso il ghetto ebraico, ma dal conciatore di pelle
dove aveva incontrato Artemisio tempo prima e dove lavorava d’altronde l’amante
del cardinal De La Rovere. Entrò nella bottega del macellaio, cercando di
reprimere l’odore di morte e sale che l’aveva impresso le narice. L’uomo dietro
il bancone l’aveva guardata appena, con i suoi occhi porcini. Zita non ne era
stupita affatto, gli uomini non avevano alcun rispetto per le donne,
particolarmente quelle come lei, per questo una delle guardie giurate di
Girolamo l’avevano accompagnata, Zita non s’era ancora abituata a lui, aveva
impiegato anni a convivere con il capitano Grunwald e trovarsi a che fare con
un nuovo la metteva a disaggio. Si chiedeva spesso, che fine avesse fatto
quell’uomo?
“Il conte Girolamo Riario
desidera parlare con il suo apprendista” aveva detto Zita con estrema cortesia,
fissando negli occhi porcini l’uomo, che d’altro canto aveva voltato lo sguardo
verso l’uomo, “Non sono abituato a parlare con le bestie” aveva detto l’uomo,
l’attimo dopo il comandante l’aveva colpito così forte d’aver spaccato il labro
del macellaio che era finito in ginocchio, “Non hai sentito la signora?” domandò
ruggente. Dal retro erano spuntati due ragazzi, un allampanato quindicenne
dalla carnagione nivea ed i capelli castani, assieme ad un taurino giovane
uomo, dai riccioli neri e l’incarnato olivastro. “Siamo qui” strillò il più
piccolo, afferrando una mannaia, ma l’altro l’aveva bloccato con un polso,
“Prima anche solo di avvicinarti abbastanza, ti ritroveresti aperto da parte a
parte” aveva detto con voce ferma.
Zita aveva visto il maggiore
chinare il minore, “Cerchiamo l’apprendista” aveva detto tranquilla,
guardandoli entrambi, “Lo siamo entrambi” aveva stabilito il più grande,
“Dracone Demopulos e Silvano Vertisanti” aveva aggiunto con voce grezza,
indicando prima se stesso, poi l’altro; “Quale volete?” aveva domandato
tagliente. Zita rimase muta, il conte l’aveva mandata a prendere un apprendista,
nessuno aveva parlato di due apprendisti; Girolavo aveva indovinato che
l’amante del cardinale De La Rovere, doveva essere lo stesso uomo da cui Eliseo l’aveva spedito,
ma quale dei due era? Il più piccolo, Silvano, era certamente più carino ed
efebico e forse più confacente ai gusti del cardinale Giuliano, ma con quale
certezza? Poi non era neanche sicuro se effettivamente la medesima persona
corrispondesse. Uno poteva essere l’amante del cardinale e l’altro poteva
essere l’uomo che cercavano. “Entrambi” stabilì alla fine con voce sicura.
Silvano guardò ancora la mannaia che aveva tra le mani, ma Dracone posò una
mano sulla spalla per tranquillizzarlo, “Andrà tutto bene” lo tranquillizzò,
prima di sorridere, il riso si perse quando guardò ancora Zita negli occhi,
“Una volta un ebreo mi disse che la morte sarebbe venuta in inverno ed avrebbe
avuto la pelle negra” rispose con voce sottile, “Sei tu la morte, dunque?”
aveva chiesto, abbozzando un sorriso.
(*)La vita degli uomini era breve, l’arte eterna: Citazione(all’incirca) di Seneca.
Le solite Note:
Tempo: Filippa continua esattamente da dove si era fermata il giorno precedente e si estende per tutta la giornata, coprendo tutte le altre vicende e chiudendo di fatti il giorno; Lorenzo prende un po’ della mattina ed il pomeriggio, Leonardo è ovviamente dopo Lorenzo (ed il pomeriggio dopo rispetto il capitolo precedente, che era invece di mattina), Zita svolge nel medesimo pomeriggio.
Abbiamo finalmente conosciuto meglio la famiglia Demopulos (nota in particolare, i cognomi greci femminili sono senza S, per questo Filippa è Demopulo, però se fosse nata in Italia, anche se Greca avrebbe dovuto avere la S). Detto questo abbiamo capito che i Demopulos hanno molteplici segreti. E non ho intenzione di dire altro effettivamente su di loro, lasciandoli alla storia. Ultima cosa, all’inizio Filippa parla di un ragazzo di Corcira, nonostante lei sia originaria di Zacinto, perché come ci ha ampiamente detto, dopo aver lasciato la sua casa e prima di essere venuta in Italia, ha vissuto altrove. Sui due suoi fratelli comparsi non esprimo nulla. Riguardo i nomi, nonostante tutto i nomi dei Demopulos sono ancora tutti misteriosi, tranne Filippa e Dracone, che vi comunico sono ispirati a Filippo il Macedone e Dracone L’Ateniese.
La prolessi, Filippa vede una prolessi subito dopo la caduta di Forlì, dove si incontrano Caterina Sforza, Niccolò Machiavelli e Cesare Borgia (perdonatemi per il modo in cui ho dipinto quest’ultimo), oltre ad avere vari indizi su come proseguirà la storia, l’interpretazione che in futuro Filippa potrebbe dare a questa visione potrebbe essere ovvia, ma le cose ovvie non piacciono a nessuno, no?
Aclima, da badass per eccellenza si è chinata davanti a Da Vinci, per quanto OOC questa scena possa essere, ci sono dietro più ragioni di quante non siano state dette. Aclima aspettava da sei anni di avere delle risposte, il Turco le ha assicurato Leonardo può dargliele; lei non è una persona che scende a compromessi, ma era disposta a farlo per il Morto.
Riguardo Caterina che parla di Cesare tenuto sulle sue gambe e riferimento che Rodrigo Borgia (tutt’altro che sciocco) era molto amico della famiglia Riario-Sforza, a tal punto che era padrino di Ottaviano, il primo figlio di Girolamo, così con una certa licenza poetica mi sono immaginata, magari Caterina tenere Cesare in braccio.
Nico avrà a che fare con Caterina, come d’altronde si è intuito.
Riguardo alla sconosciuta che ha parlato con Verrocchio, vedremmo bene chi è, sebbene non sia così importante ai fini della trama.
Ultima nota: Il padre di Filippa è l’uomo con cui Da Vinci ha parlato.
La Donna Adultera a cui nessuno poté scagliare la pietra, rappresenta per la cristianità che si è tutti uguali, ma Filippa e suo padre la intendono come Nessuno è innocente. Insomma per Filippa questo manda a malora, tutto quello che lei aveva pregato e saputo.
Filippino Lippi era un apprendista di Sandro Botticelli, che nella storia era molto più vecchio rispetto com’è nel telefilm. Ormai si sa che glia autori del telefilm si sono drogati pesantemente per età e timeline, che non commentiamo neanche. Mi sono adeguata: sono amici.
Ultima nota: La storia si sta svolgendo in un imprecisato giorno di Gennaio del 1479.