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Autore: Rainbows_Butterflies    09/07/2014    7 recensioni
[Storia ad OC]
Dieci coraggiosi semidei, un antico potere fino ad allora ignorato, decine di ragazzi sfuggiti al controllo dei due Campi ed una profezia che promette sangue.
Quando William Harper viene convocato dal centauro Chirone, stenta quasi a crederci: Caos, il vuoto primordiale, ha deciso che, anche per lui, è giunto il momento di uscire dall'ombra ed agire.
Ma destarsi dalla sua eterna inerzia richiede il dispendio di parecchie energie, che solo una cosa può dargli.
Dal testo:
«Ares ha fatto il tuo nome. Ti vuole schierato in prima linea, per questa battaglia».
[...]«È per questo che sono qui, dunque? Perché mio padre vuole mandarmi a combattere una divinità contro cui non sarei mai in grado di vincere, neanche con settant'anni di addestramento?» chiese allora, con quanta più calma riuscì a mantenere, incrociando le braccia al petto «assurdo. Gli altri penseranno che sono un raccomandato».
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
 

Una minaccia mai prima affrontata
dissolve la pace da tempo incontrastata
rapisce dell'Olimpo la prole,
e ai divini nel cuore dole.
Gli eroi si organizzano al meglio,
ma fiumi di sangue sono il costo del mancato risveglio”

[Dalle profezie dell'Oracolo Rachel Elizabeth Dare, anno 2017]


Da quando Chirone aveva dato l'annuncio ufficiale dell'impresa, il Campo Mezzosangue si era tramutato in campo di battaglia. Più del normale, s'intende.
Semidei e semidee, bardati in pesanti armature greche, combattevano con più forza e determinazione che mai, persino fuori dall'Arena, affondando e parando con le loro lunghe spade di bronzo celeste, e mozzando i capi dei manichini animati dai figli di Ecate.
I figli di Apollo scoccavano una freccia dopo l'altra, senza tregua. I più abili di loro riuscivano a lanciarne persino otto contemporaneamente, e tutte otto andavano a conficcarsi con assoluta precisione all'interno dell'anello rosso che indicava il cuore del nemico.
Persino i figli di Afrodite, che avrebbero certamente preferito riordinare le loro stanze a tutto quel sudore, avevano abbandonato la loro Casa e si stavano allenando, ignorando la fatica e la stanchezza.
Arrampicato tra i rami di un vecchio castagno, William Harper osservava attentamente i movimenti dei suoi fratelli e dei suoi cugini, rimuginando tra sé e chiedendosi se Chirone non avesse commesso un errore colossale ad affidare a lui la guida dell'impresa.
Non sapeva neanche, esattamente, da dove cominciare e chi portare con sé. E poi, sarebbe stato in grado di ritrovare i ragazzi smarriti? E se li avesse ritrovati, cosa avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a convincerli a tornare al Campo, oppure quelli non avrebbero neanche voluto sentirne parlare?
«Ancora qua a crogiolarti nei tuoi problemi, Harper?».
La voce flemmatica di Susan Graymark annullò di colpo tutti i suoi pensieri, e William, sorpreso, sobbalzò, rischiando di cadere.
La semidea rise lievemente, scivolando a sedere sul ramo di fianco a lui.
William, come sempre, pensò che la sua fosse la risata più bella dell'intero Campo Mezzosangue.
«Mi hai fatto prendere un infarto», la sgridò, agitandole un pugnale sotto al naso «lo sai che apparire alle spalle di un semidio così silenziosamente non è mai una buona idea? Avrei potuto infilzarti e ferirti, o peggio».
Susan non si lasciò intimidire, e gli sorrise. Un sorriso disarmante, che fece tremare il cuore di William come una foglia scossa da un uragano. Forse arrossì persino un po', ma sperò che Susan non lo notasse. Se lo notò, lei non disse niente.
«Allora, è vero quello che dicono quei pettegoli dei figli di Afrodite?», riprese lei, dopo averlo scrutato in volto per alcuni istanti «hai paura per l'impresa?».
William sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
«Non ho paura» precisò, calcando sul “non” «però sono preoccupato. Chirone e tutti voi vi fidate di me, delle mie capacità, ma io...».
«Non ci sei solo tu dentro, Harper» gli fece notare lei, spostandosi una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio «ci siamo tutti. Tu, io, Chirone, gli altri ragazzi... persino gli dei stessi. Dobbiamo solo collaborare ed impegnarci parecchio, se vogliamo uscirne vincitori».
William dondolò le gambe nel vuoto, ed il vento fresco gli carezzò delicatamente i muscoli irrigiditi.
«Questo lo so, ma l'impresa è praticamente impossibile da portare a termine. I ragazzi potrebbero essere in qualunque parte del mondo, adesso» brontolò «trovarli sarà...».
«Non dirlo», lo interruppe inaspettatamente lei, alzando le mani con il palmo rivolto verso il viso del ragazzo «non dire la parola “impossibile” davanti a me, Harper, o giuro che ti spiaccicherò come una pulce. Niente è impossibile per il figlio di un dio».
William sorrise e rilassò le spalle.
«È bello sapere che c'è chi la pensa come te, Graymark» disse «anche se fa strano, detto da una che è figlia del dio dei morti».
Susan fece spallucce e guardò verso il basso, dove due semidei si stavano dando battaglia con sin troppo fervore.
«C'è bisogno di ottimismo, in questo Campo», disse poi, tornando a guardare William negli occhi, ma con più serietà «è per questo che devi riportare qua i ragazzi. Harry, Isabelle, Lewis e tutti gli altri che se ne sono andati. Quando l'esercito di mostri ingaggiato da Caos arriverà, avremo bisogno di tutto l'aiuto possibile per combattere e se loro saranno qui... forse anche gli altri saranno più motivati e ci salveremo».
«Credi anche tu che attaccheranno il Campo Mezzosangue?», chiese William, perplesso.
Susan prese una profonda boccata d'aria, ed i suoi occhi del colore del cielo parvero fiammeggiare.
William inarcò un sopracciglio. Quando si comportava in quella maniera, lo spaventava davvero un po'; come lo spaventava suo padre. Era pazzo, quello là.
«Avanti, tutti i cattivi vogliono distruggere il nostro Campo», sbuffò lei «Crono e Gea, per esempio. Il Campo Mezzosangue è stata la prima cosa che hanno tentato di debellare, ancor prima di ricordarsi come si chiamavano».
«Già, ma allora qua vi erano eroi del calibro di Percy Jackson e di Annabeth Chase» commentò William «non c'è più nessuno come loro. Nessuno che possa rappresentare una minaccia».
«Ogni generazione ha i propri eroi, Harper», rispose lei, abbassando poi il tono della voce «noi abbiamo te».
«E te», rispose lui, senza darsi il tempo di riflettere su come sarebbero suonate le sue parole alle orecchie della ragazza.
Susan gli sorrise di nuovo, e William poté quasi giurare di averla vista arrossire. Non che fosse qualcosa di molto difficile da notare, con la pelle pallida che si ritrovava.
Allora, con un balzo felino, William saltò giù dal ramo ed allargò le braccia nella direzione della ragazza.
«Vieni anche tu!», le propose, a voce sin troppo alta.
Susan si guardò intorno furtivamente, come se il fatto che qualcuno avesse potuto sentirlo la preoccupasse.
«Io?» domandò poi, incerta «io... io non ho mai partecipato a nessuna impresa, non penso che...».
Questa volta, fu William a ridere.
«Avanti, ci sono io, no?», la pregò «e poi, non sembra qualcosa di troppo pericoloso, no, trovare dei ragazzi scomparsi? Non ci sono neanche mostri, in giro».
Susan alzò gli occhi al cielo, soffocando una risatina.
«Questo ti farà smettere di dire sciocchezze?», domandò, ed il sorriso di William si allargò.


Jonathan stava diventando un vero e proprio nerd.
Se ne rese conto improvvisamente, mentre il suo personaggio di Aion saliva di livello per l'ennesima volta.
«Oh no, ragazzi, sta arrivando pure un terribile troll lavavetri!», gemette il ragazzo seduto vicino a lui, Marlon Hughes, indicando qualcosa sullo schermo.
«Killalo! Killalo!», replicò un altro, Helias McCollought, saltando quasi in piedi.
Jonathan lanciò un'occhiata obliqua al pc, poi ai suoi compagni ed inarcò le sopracciglia.
Come era finito, esattamente, tra un branco di tizi che indossavano magliette con la scritta “WHO NEED A GIRLFIEND? I HAVE A GAME CONSOLE!”?
«Non puoi aggrare se prima il tank non pulla il mob!», fece notare Helias, arricciando il naso «pensavo tu lo sapessi».
Jonathan si aggiustò gli occhiali sul naso, preoccupato da fatto di aver davvero capito, senza la minima difficoltà, cosa l'amico avesse appena detto. La cosa si stava facendo grave, soprattutto considerando che lui preferiva nerdeggiare in solitudine che in gruppo.
Fu tentato di alzarsi e tornarsene nella sua Casa, quando la porta si spalancò, rivelando la sagoma allampanata di William Harper, palesemente di ottimo umore.
Jonathan di nuovo, si sistemò meglio gli occhiali e cercò di non agitarsi troppo. Era sempre pericoloso, quando il figlio di Ares si avvicinava spontaneamente a qualcuno.
«Hey, ragazzi!», salutò William, rivolgendo a tutti un sorriso complice «come ve la passate?».
«Conosciamo tutti quella tua espressione, Will», dichiarò Helias che, fino a quel momento, aveva giocato ad Aion senza interruzioni «se hai bisogno di qualcosa, dillo e basta, okay?».
William allargò il suo sorrisetto, e Jonathan ebbe l'impressione che si rivolgesse proprio a lui. Assottigliò lo sguardo, sospettoso.
«Nella mia impresa, voglio Jonathan Leyachet», rispose il ragazzo, puntando l'indice contro il semidio in questione.
Jonathan sbatté velocemente le palpebre un paio di volte, confuso. Aveva sentito bene, o stava davvero cominciando ad impazzire?
«Che cosa...?» domandò debolmente «che cosa? Che cosa?!».
William rise appena, allegro, e Jonathan si domandò che cosa diamine gli stesse passando per la testa. Aveva assunto qualche strana droga, si faceva di dosi esagerate di caffè zuccherati, oppure la sua follia aveva semplicemente preso il sopravvento?
«Vuoi venire o no?», chiese «se non vuoi venire, non c'è problema. Mi troverò qualcun altro, ma mi avrebbe fatto piacere averti nella squadra».
Jonathan inarcò un sopracciglio, perplesso. William era risaputamente pazzo, ma Jonathan non si sarebbe mai aspettato che lo fosse fino a quel punto. Cosa poteva spingere il figlio di Ares a domandare a lui, proprio a lui, di accompagnarlo in un'impresa? Non erano neanche amici, o almeno non esattamente: avevano scambiato, sì e no, quattro parole in croce.
L'aveva davvero colto di sorpresa, una simile richiesta.
«No, certo che no!», si affrettò a rispondere Jonathan «cioè, no, aspetta! Voglio dire sì, voglio venire».
William parve molto soddisfatto, tanto che, se non fosse stato un figlio di Ares, Jonathan avrebbe potuto tranquillamente pensare che avesse intenzione di abbracciarlo.
Non ebbe il tempo di domandarsi quale fosse il motivo dell'improvviso buon umore di quel lunatico di un semidio, che quello scattò verso la porta da cui era entrato con la mano alzata in un cenno di saluto.
«Bene, allora lo farò sapere a Chirone», disse, senza smettere di sorridere «ci vediamo questa sera al falò!». E scomparve.
Jonathan era abbastanza certo che quel ragazzo non fosse normale.
Si lasciò cadere sulla sua sedia, davanti al pc, dove il suo povero personaggio era stato lasciato da solo a vedersela contro un paio di bizzarri esseri.
«Wow, che fortuna hai, amico», commentò Marlon, chiudendo lo schermo del suo pc portatile.
«Mmh...?», fece Jonathan, per tutta risposta.
«Puoi partire per un'avventura vera, mentre noi dobbiamo restarcene qui a faticare con Chirone che brontola. Buon per te», disse l'altro.
A Jonathan non pareva affatto che Marlon si stesse affaticando troppo, in realtà, ma preferì non dire niente. Non fosse mai che quello tirasse fuori una spada laser di Strar Wars e tentasse di farlo a fette.
«Ma sì!», ribatté Helias, illuminandosi in volto come per un'improvvisa rivelazione «sarà come in Dungeons&Dragons, per te! Però vero!».


«Rose, avanti, ti prego», supplicò Ferdinand, lasciando cadere la sua lancia a terra e raggiungendo la ragazza «ti ho chiesto scusa un'infinità di volte...».
Rose si voltò verso il figlio di Ares con uno scatto tanto rapido da lasciarlo sorpreso e gli puntò l'indice contro il petto con fare d'accusa. Fu fortunato che non decise di utilizzare il pugnale.
«Tu», ringhiò, spingendo il dito contro il pettorale dell'armatura del ragazzo «ti avevo chiesto espressamente di sparire, se non sbaglio».
Ferdinand, dal canto suo, non si spostò di un millimetro, ma strinse le labbra in una linea sottile.
«Rose...», riprese poi, in tono conciliante «sono passati mesi...».
Rose ritirò l'indice e s'infilò le mani in tasca, in un gesto di stizza. Conosceva Ferdinand Bristil sin da quando era giunta al Campo Mezzosangue e, un tempo, erano stati molto amici. Rose era arrivata persino ad amare quel figlio di Ares dai capelli ramati e gli occhi scuri, anche se non era mai riuscita a rivelarglielo. Ma questo, ovviamente, era accaduto molto prima che Ferdinand tentasse di farla a fettine, durante uno sciocco litigio.
Rose aveva giurato a se stessa che non lo avrebbe mai perdonato, neanche se lui l'avesse supplicata in ginocchio, e così era stato. Almeno fino a quel momento.
«Non sono il tipo di persona che perdona e dimentica, Ferdinand» intimò lei, voltandogli le spalle ed allontanandosi a passo di carica «non sono Gesù e non ho l'Alzheimer!».
Ferdinand le corse dietro e la raggiunse con poche ampie falcate.
«Questo lo so, ma...», cominciò.
«Non c'è nessun “ma”», dichiarò Rose, interrompendolo «voi figli di Ares siete tutti uguali. Non fate altro che pensare alla guerra e al combattere, e quando non pensate a questo, pensate a come far imbestialire i vostri compagni. Siete pessimi».
«Credevo che fosse un problema tra noi», ribatté Ferdinand, spalancando le braccia «in nome di Zeus, lascia fuori i miei fratelli da questa faccenda!».
Un tuono rombò nel cielo, ed il ragazzo scoccò un'occhiataccia in direzione del cielo foderato di cupe nubi grige.
«E tu che vuoi?!», chiese «quaggiù c'è qualcuno che sta tentando di farsi perdonare, eh!».
«Visto? Sei borioso», ribatté allora Rose, sforzandosi di camminare più in fretta di Ferdinand. Peccato che il ragazzo fosse molto più rapido di lei.
«È assurdo pensare che, una volta, avevo davvero creduto che tu fossi differente» continuò lei, lasciando perdere il suo vano tentativo di seminarlo.
«Senti, Rose», sospirò Ferdinand «puoi prendertela con me per tutto il tempo che vuoi, ma troverò un modo per farmi perdonare da te, dovessi impiegarci tutta la vita. E sappi anche che ci sono figli di Ares che fanno del male e altri a cui viene fatto del male, esattamente come tra voi figli di Ermes c'è chi ruberebbe persino ad una vecchietta sordomuta e chi invece, al massimo, ha rubato una caramella al supermercato».
Rose incrociò il suo sguardo per un istante, quel tanto che bastò perché lei potesse leggere negli occhi scuri di lui tutta la sua determinazione. E allora, le parole le uscirono tutte d'un fiato, senza che lei potesse fermarle in alcun modo.
«Voglio chiedere a Harper il permesso di entrare a far parte del suo gruppo di eroi» disse, e Ferdinand sgranò gli occhi.
«Che cosa?», domandò, incredulo «dopo tutto quello che hai detto sui figli di Ares, tu... tu vuoi partire proprio con uno di loro? Con Will? Sei impazzita, per caso?».
Rose incrociò le braccia.
«L'hai detto tu, no, che non siete tutti uguali?» rispose, testarda ed irritata «si dice in giro che Harper sacrificherebbe la sua stessa vita purché non venga torto neanche un solo capello ai suoi compagni. Se questo è vero, e ne dubito, non dovrei correre alcun pericolo».
«Già» rispose Ferdinand, incrociando le braccia con amarezza «e tu glielo lasceresti fare? Sacrificare la sua vita per te, intendo».
“No, certo che no!”, pensò Rose, ma non lo disse ad alta voce. Anche se era certa che lui lo sapesse bene, non avrebbe dato a Ferdinand la soddisfazione di sentirglielo dire.
«Forse», rispose fermamente.
«Bugiarda», ribatté Ferdinand, aggrottando le sopracciglia «puoi dire quello che vuoi e fare l'antipatica quanto ti pare, ma non puoi ingannare me. Tu non sei così, Rose, tu sei buona, dolce, gentile e... se vuoi partire per l'impresa, io verrò con te».
Rose per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
«Non pensarci neanche!», quasi gridò «non ti voglio intorno durante un'impresa di quel calibro, mi deconcentreresti e chissà cosa potrebbe accadere!».
«Allora ti aspetterò qui» sbottò Ferdinand, più testardo di lei «e quando tornerai, dovrai dirmi che avevo ragione».
«E va bene, Mr Sono-figlio-di-Ares-e-ne-vado-fiero», brontolò Rose, al limite della pazienza «se Harper accetterà di portarmi con sé e dimostrerà di valere almeno un po' più di te, quando tornerò, potrei anche farlo. A patto che anche tu t'impegni ad aiutare Chirone e gli altri ragazzi con il massimo delle tue capacità».
«D'accordo», rispose Ferdinand, serio, porgendole la mano «è una promessa?».
«È una promessa» confermò Rose, afferrando la mano del ragazzo con la sua.
«Giuralo sullo Stige».
«Lo giuro sullo Stige».


Quando Altair Ibdan-La giunse al Campo Mezzosangue, era ancora troppo irritato per poter prestare attenzione alla totale confusione che vi trovò.
Era stato parecchie volte al Campo dei Greci, ma mai per motivi tanto assurdi. Quasi non ci credeva neanche lui.
Per l'ennesima volta quel giorno, fulminò con lo sguardo la busta di carta bianca che teneva tra le mani ed arricciò il naso, perplesso. Quella lettera gliel'aveva consegnata Ottaviano in fretta e furia, infilandogliela tra le dita ed intimandogli di recapitarla al più presto al centauro Chirone del Campo Mezzosangue, neanche fosse stato il suo messaggero privato.
Non era il fatto di dover incontrare i Greci a dargli fastidio, figuriamoci. Erano tipi strani, certo, ma dopo un po' che te li ritrovavi intorno ci facevi l'abitudine. Ormai, addirittura, quasi gli piacevano.
Il punto era che non riusciva a capire per quale motivo avessero dovuto mandare proprio lui a consegnare quella benedetta lettera, quando, qualunque cosa Ottaviano avesse avuto da dire a Chirone, avrebbe benissimo potuto farlo con un messaggio-Iride o tramite una delle loro aquile, o con un piccione viaggiatore o, insomma, qualunque altra cosa.
Perché spedire un Centurione della Terza Coorte dall'altra parte dell'America?
Si augurò che fosse un messaggio davvero molto importante, altrimenti avrebbe strozzato Ottaviano con le sue stesse mani. Poco gli importava che l'augure avesse più di novant'anni.
Forse, se adesso si trovava lì, era proprio perché Ottaviano si stava rimbambendo, con l'età.
In ogni caso, rischiò la vita almeno tre volte, prima di raggiungere le porte della Casa Grande.
La prima, quando la freccia scoccata da un figlio di Apollo gli sfiorò il cranio, scompigliandogli i capelli scuri come una folata di vento. Si voltò di scatto, tentando di individuare chi avesse lanciato il dardo, ma si ritrovò a fissare solo un gruppo di figlie di Afrodite che borbottavano in gruppo riguardo una chissà quale imminente impresa a cui non avevano intenzione di partecipare “neanche se il mondo fosse caduto”.
Scosse il capo e si voltò, e fu allora che la biga rischiò di investirlo.
«Togliti di mezzo!», gridò il ragazzo alle redini.
A giudicare dalla stazza, doveva trattarsi di un figlio di Ares.
Per un istante, Altair pensò di invocare il potere del fulmine ereditato da Giove e folgorarlo sul posto, ma poi ci ripensò.
Andrew e Maya, i Pretori del Campo Giove, si erano raccomandati spesso di non far arrabbiare, ferire o uccidere i Greci, poiché “la pace con loro era stata conquistata con fatica e con dolore, e per niente al mondo si doveva tornare a darsi battaglia”.
Chiamò a raccolta tutta la sua pazienza e la sua lungimiranza e continuò ad avanzare. Stava per bussare contro la porta, quando qualcuno gridò: «ATTENTO!».
Rapido come un lampo, si piegò sulle ginocchia ed uno strano disco di metallo volò sopra la sua testa emettendo un bizzarro ronzio.
Cos'era? Stavano tentando di ucciderlo?
La ragazza che aveva gridato lanciò un sospiro di sollievo, poi si riscosse ed indicò un gruppo di ragazzi.
«Prendetelo!», esclamò «questa volta non dobbiamo lasciarcelo sfuggire!».
Per un attimo, Altair pensò che la ragazza si riferisse a lui e corrucciò la fronte, perplesso. Prima che potesse chiederle di ripetere, però, quella era già schizzata via insieme al suo gruppo di amici.
Solo a quel punto, finalmente, Altair riuscì a bussare e ad incontrare Chirone.
«Oh, Altair», esordì il centauro, appena lo riconobbe «che sorpresa! Come mai qui?».
Altair accennò un sorrisetto e gli porse la busta.
«Per lei», disse «da parte di Ottaviano».
Il centauro aggrottò la fronte, afferrando la lettera con entrambe le mani, quasi si trattasse di un tesoro prezioso e non di un pezzo di carta.
«Immagino che sia qualcosa di molto... oh», Chirone, appena scorse le prime righe, si interruppe con un'espressione indecifrabile dipinta sul viso «oh!».
Altair, incuriosito, inarcò un sopracciglio.
Non poteva trattarsi di un'altra brutta notizia. No. Negli ultimi tempi erano state talmente tante, le brutte notizie, che quando qualcuno diceva “hey, ho qualcosa da dirvi!”, Altair poteva tranquillamente cominciare a deprimersi prima ancora di aver sentito la novità.
«Qualcosa non va?», domandò allora, e il centauro rialzò lo sguardo su di lui.
«Vorrei che qualcosa non andasse per il verso sbagliato, mio caro Altair», disse, accompagnando quelle parole con un sorriso mesto ed un sospiro.
“Ovviamente”, si disse sarcasticamente Altair “doveva essere stata un'ottima notizia, certo”.
«Altair, vuoi fermarti per la notte, prima di tornare al Campo Giove?», gli domandò gentilmente Chirone.
Altair annuì lentamente. Non se era reso conto prima di quel momento, ma aveva impiegato parecchie energie durante il viaggio, e adesso si sentiva spossato ed i muscoli gli dolevano terribilmente.
Chirone, di nuovo, gli sorrise con calore.
«Cerca William Harper, lui ti farà preparare un letto e ti dirà tutto ciò che hai bisogno di sapere» disse «lo riconoscerai di certo. È un ragazzo biondo e abbronzato, molto alto. Penso si trovi nelle zone dell'Anfiteatro».
Altair ringraziò il centauro e, con il nome non del tutto nuovo del ragazzo che gli rimbalzava nella mente, si avviò verso la famigerata costruzione.

Cling. Clang. Stock.
Il suono delle lame delle spade che cozzavano l'una contro l'altra era musica per le orecchie di Nathan Ayala. Il ragazzo dai capelli scuri disarmò il suo ennesimo avversario e ripose la sua spada nel fodero con un solo gesto fluido.
Qualcuno tra coloro che si erano soffermati ad osservare lo scontro si lanciò persino in un timido applauso, a cui Nathan rispose con un fiero inchino. Se c'era qualcosa che gli piaceva davvero molto, quello era l'essere al centro dell'attenzione. Ed in quel momento lo era. Eccome.
«Per oggi, sono a posto», dichiarò Nathan, soddisfatto.
«Come sarebbe a dire “sono a posto”?», sbuffò Thomas, il ragazzino che Nathan aveva appena disarmato «ma se hai appena cominciato!».
Nathan fece spallucce. In pochi minuti, aveva comunque mandato al tappeto più avversari di quanti avrebbe mai fatto Thomas in tutta la giornata e non si risparmiò dal dirlo.
«Sei solo uno sbruffone, Nathan!», rispose Thomas, recuperando la sua spada e fuggendosene via in fretta e furia.
Con noncuranza, Nathan si avviò per la via che conduceva alla Casa 11, dove alloggiava in compagnia dei figli di Ermes, gli altri ragazzi i cui genitori non avevano una propria Cabina e ai non riconosciuti. Essere figlio della dea delle feste, dopotutto, aveva quel piccolo svantaggio di dover condividere la camera con una moltitudine di persone che, il più delle volte, non lo trovavano affatto simpatico. Ma questo non gli importava poi molto.
«Hey, Nate», lo chiamò qualcuno dei suoi coinquilini, appena il ragazzo mise il naso dentro la Cabina «che ci fai già qui?».
«Ho finito» sorrise lui, tutto ingalluzzito dalla palese sorpresa dipinta sulla faccia dell'amico.
«Ma come? Di già?» replicò quello, mettendo su un'espressione tanto perplessa che Nathan cominciò davvero a pensare di aver dimenticato di fare qualcosa d'importante «quindi non t'interessa l'impresa? Proprio per niente?».
Un grosso punto interrogativo si disegnò sul bel volto di Nathan Ayala, evidentemente incuriosito.
«Quale impresa?», chiese.
Il suo compagno scoppiò a ridere.
«L'ha detto Chirone ieri sera, non te lo ricordi?», disse «ah, giusto. Forse eri troppo... va be', comunque, Ares vuole che Will trovi i ragazzi scomparsi o qualcosa del genere, e lui adesso sta cercando qualcuno da portarsi dietro».
«Un'impresa con William?», rispose Nathan, perplesso «non mi ricordo. Forse avevo davvero esagerato con la Diet Coke corretta».
«Se t'interessa, faglielo sapere prima del falò di stasera» fece l'altro, in un sorrisetto «almeno, se riesci a trovarlo. Credo che si sia nascosto da qualche parte per non essere sommerso dalle richieste, perché io non l'ho più visto da nessuna parte».
Nathan abbozzò un sorrisetto. L'idea di compiere un'impresa insieme a William Harper, doveva ammetterlo, lo allettava parecchio. Al Campo, consideravano William come un leader, ma Nathan sapeva che non ne aveva davvero la stoffa. Lui, a parer suo, sarebbe stato molto meglio come “capo”.
«Forse, dovrebbe essere lui a venire a cercare me» osservò, pensieroso «se vuole dei bravi combattenti, dovrebbe proprio...».
«Ma piantala», lo interruppe l'altro, agitando una mano in aria «e sbrigati».
Nathan lo liquidò con una piccola smorfia. Si passò una mano tra i capelli per pettinarli meglio ed uscì con nonchalance dalla Casa 11.
Non sapeva esattamente dove cercare William: il figlio di Ares aveva abitudini decisamente differenti dalle sue. Così, si limitò a guardarsi intorno e a domandare di tanto in tanto qualche indicazione a qualche semidio, ma nessuno sembrava sapere dove si fosse cacciato quel dannato semidio. Nathan stava quasi cominciando a pensare che, forse, avrebbe persino potuto rinunciare alla sua ricerca, quando la vide.
La figlia di Ade dai capelli color cioccolato camminava con la sua tipica andatura leggera lungo la strada principale. Sembrava quasi che i suoi piedi non toccassero terra, tanto era aggraziata.
Gli angoli delle labbra di Nathan si piegarono in un sorriso compiaciuto, quasi fosse stato lui a far apparire magicamente la ragazza.
«Hey, figlia di Ade!», la chiamò.
La ragazza si voltò alla ricerca di chi l'aveva chiamata, le eleganti sopracciglia corrucciate in un'espressione vagamente sorpresa e si fermò.
“Naturale”, pensò Nathan, provando quasi un po' di compassione “il fatto che un tipo come me le rivolga la parola, deve essere davvero molto difficile da credere, per lei”.
Gli occhi incredibilmente azzurri della ragazza parvero lampeggiare come due fari nella notte.
«Potresti evitare di chiamarmi in quel modo?» disse lei, con una sottile venatura di fastidio nella voce. Se lo notò, Nathan non lo diede a vedere.
«Non mi ricordo il tuo nome, in realtà», rispose candidamente. Non si trattava affatto di una scusa, ma di una pura e semplice verità. La ragazza, dal canto suo, non si scompose e non parve affatto stupita.
«Sarebbe “Susan”», rispose, regolando la voce su un tono più gentile «hai bisogno di qualcosa?».
«Solo di sapere dov'è William. Devo parlargli urgentemente», fece Nathan, accennando un sorriso smagliante «so che voi due siete molto amici, pensavo che sapessi dove trovarlo».
Susan reclinò il capo da un lato, come tentando di decidere se fosse degno di risposta o meno.
«Non lo so, mi spiace», disse poi.
«Non sai mentire», commentò Nathan, agitando una mano in aria «non farti pregare, Susan».
«Oh, d'accordo, ma io non ti ho detto niente, intesi? Sta parlando con Altair Ibdan-La, all'Anfiteatro», rispose lei, puntellandosi le braccia ai fianchi «ma è un po' nervoso, credo che non sia il caso di andare a disturb...».
«Grazie dell'informazione, dolcezza!» la interruppe lui, schizzando via.


Sem si rigirò tra le mani Tsunami, la sua nuova spada, osservando i giochi di riflessi che la luce creava sulla lama dritta ed affilata.
Gliel'aveva regalata il suo migliore amico, quella spada, un attimo prima di essere trafitto dalle corna dell'orrenda creatura che li aveva attaccati.
Sem, al ricordo, represse un singhiozzo e si affrettò a far sparire la piccola lacrima che minacciava di scivolargli via dagli occhi. Non fosse mai che qualcuna di quelle pettegole delle figlie di Afrodite lo scorgesse piangere, o l'avrebbero sbeffeggiato per il resto della vita. E lui, di questo tipo di cose, cominciava seriamente ad averne abbastanza.
Ma doveva ammetterlo: anche se si trovava al Campo solamente da poche settimane, la sua vecchia vita gli mancava parecchio.
Sem si stupì quasi, a quel pensiero.
Non avrebbe mai creduto di poter anche solo immaginare una cosa del genere, fino a poco tempo prima. La sua vita era stata piuttosto nauseante, a New York, tra le prese in giro dei compagni di classe e le altre difficoltà della scuola. Eppure, allora, la testa di Sem era molto più leggera ed il mondo in cui viveva, almeno, era solamente uno.
Adesso, invece, era stato sbalzato all'interno di due mondi, due realtà strettamente connesse ma meticolosamente separate, una delle quali popolata da mostri pericolosi che avrebbero tentato di farlo fuori appena avesse messo piede fuori del Campo Mezzosangue.
E lui, iperattivo com'era, cominciava a non poterne più di starsene lì con le mani in mano mentre il resto del mondo andava allo sfascio.
Gli piaceva, il Campo, certo. Là aveva incontrato altre persone come lui ed altre che erano il suo totale opposto, ma quasi tutte erano state buone con lui e lo avevano accolto senza fare una piega, neanche quando erano venute a sapere che suo padre era Poseidone.
Aveva conosciuto William, il figlio di Ares meno figlio di Ares dell'intero Campo. Un abilissimo guerriero che gli aveva insegnato a combattere, con una pazienza tale che gli dei avrebbero dovuto renderlo uno di loro. Aveva incontrato Skylar, figlia di Atena, una ragazza molto posata ed acuta, che lo aveva aiutato con il greco ed il latino. La bellissima quanto terrorizzante Elle, degna figlia di Afrodite, e quell'arrogante di Nathan, che, in un modo tutto suo, sapeva persino essere simpatico. E poi Susan, figlia di Ade, talmente empatica che Sem stava cominciando a pensare che fosse in grado di leggere nei pensieri. Oppure Rose, la figlia di Ermes che gli aveva rubato l'I-Pod il secondo giorno. O ancora James Blake, figlio di Nyx, che preferiva restarsene nell'ombra, piuttosto che incrociare qualcuno che avrebbe potuto infastidirlo. E poi, ovviamente, Chirone, il centauro che si era preso cura di lui sin da quando era arrivato. Era a lui che doveva tutte le cose buone che gli erano accadute e che aveva imparato al Campo.
Sem aveva scoperto di avere dei fratelli di cui fino ad allora aveva ignorato l'esistenza, e che uno dei più grandi eroi del posto era proprio un figlio di Poseidone, come lui. Percy Jackson, si chiamava, ed aveva salvato il mondo più di una volta, insieme ai suoi amici.
Lì, c'era chi pensava che Percy fosse addirittura solo una leggenda, che non fosse realmente esistito, ma Chirone aveva giurato che non fosse così, e Sem gli credeva. Insomma, se esistevano il Minotauro, Eracle e Dioniso, perché non poteva esserci stato un eroe come Percy Jackson?
In poche settimane, Sem aveva, inoltre, capito che la sua non era esattamente “dislessia”, ma che la sua difficoltà a leggere l'inglese dipendeva dal fatto che il suo cervello fosse “settato” sul greco antico. E poi, adesso era in grado, addirittura, di maneggiare una spada senza rischiare di infilzarsi un piede da solo.
Ma aveva dovuto lasciare sua madre, e quella era la cosa che più rimpiangeva. Senza di lui, lei era completamente sola.
Sem immerse i piedi nell'acqua fresca del lago, in un vano tentativo di soffocare tali pensieri che non gli si addicevano affatto. Si diede persino uno schiaffetto, ma la sua mente ostinata tornò all'argomento precedente.
Era inutile ignorare la cosa: voleva andarsene dal Campo, almeno per un po'. Uscire e rivedere sua madre, le stagioni e tutto ciò che al Campo Mezzosangue non poteva avere. Nemmeno la pioggia gli era concessa, poiché le barriere magiche non permettevano neanche ad sola una goccia di penetrare attraverso di loro e bagnare il suolo.
Stare lì, era come essere rinchiusi nella cella di lusso di una prigione. Sem non riusciva proprio ad abituarsi, per quanto ci provasse.
E poi c'era quell'impresa.
Quella ormai famosa e dall'apparenza neanche troppo pericolosa, ma forse impossibile da portare a termine. Sem era attratto da essa come una falena dalla luce di una lampadina.
Si sentiva estremamente inutile, all'interno del Campo, ed era una sensazione che detestava con tutto se stesso.
Se solo avesse potuto entrare a farne parte...
Sem scattò in piedi, ed una luce di assoluta determinazione brillò nei suoi occhi del colore del mare.
Sarebbe andato da Will e gli avrebbe chiesto di portarlo con sé, e lo avrebbe obbligato ad acconsentire. Certamente, gli avrebbe detto che era troppo piccolo per fare una cosa del genere, ma Sem non era disposto ad accettare un “no” come risposta.


Spazzolare i Pegasi stava diventando una delle attività preferite da Skylar, da quando al Campo Mezzosangue si era creata tutta quella confusione. Rinchiusa nel silenzio della stalla, con la sola compagnia di Stardust, il giovane ed iperattivo cavallo alato che aveva il compito di addestrare, Skylar riusciva quasi a respirare lo stesso clima di pace e tranquillità di cui poteva godere fino alla sera precedente.
«Hey, Stardust, tu che ne pensi?», chiese al pegaso, carezzandogli il muso con gentilezza «ne usciremo, da questo disastro?».
Per tutta risposta, quello sbuffò con le narici e scosse la criniera.
Skylar sorrise. Prendersi cura di un pegaso non era poi così difficile, finché non dovevi pulire loro le piume delle ali. Skylar aveva scoperto che detestavano essere toccati in quelle zone, soprattutto da mani non troppo delicate. Eppure, erano creature davvero splendide, eccezionali. A volte, le sarebbe piaciuto avere lo stesso potere del piccolo Sem, figlio di Poseidone, per poter scambiare quattro chiacchiere con loro.
«Ma certo che ne usciremo, sciocchina», rispose Rosaline, la sua migliore amica, comparendo sulla porta della stalla «piuttosto, ricordi quando ti dicevo che dovevi farti vedere più spesso? Intendevo anche da uno psicologo. Uno bravo, dico. Da quando parli con i cavalli?».
Skylar smise di strigliare Stardust e poggiò la spazzola sulla sua mensola, in perfetto ordine, poi scoccò un'occhiata a metà tra il divertito e l'incredulo all'amica.
«Non dovevi tenere d'occhio i tuoi fratelli, tu?», domandò, sviando il discorso.
«Oh, sì» rispose Rosaline, in una breve smorfia «ma è così noioso, quando si allenano tutti. E poi c'è Elle in giro. Sembra davvero decisa a farsi scegliere da Will come sua compagna per l'impresa. Ho il sospetto che tenterà di manipolarlo perché lui accetti di portarsela dietro».
Skylar represse un brivido di orrore.
«Ma dai, smettila, stai spettegolando» disse, regalando un'altra carezza a Stardust.
«Non sto spettegolando», ribatté Rosaline, incrociando le braccia al petto e mettendo su un grazioso broncio «sto solo riportando un dato di fatto».
«Un fatto che non ti riguarda», precisò Skylar «cioè, stai spettegolando».
«Come vuoi tu», replicò Rosaline, tutt'altro che turbata «comunque, invece che parlare con i cavalli, dovresti provare a parlare con un ragazzo differente da Max, non credi?».
Skylar alzò gli occhi al soffitto. Doveva essere almeno la miliardesima volta, da quando era giunta al Campo, che Rosaline le diceva una cosa del genere. Forse dipendeva dal fatto che fosse figlia di Afrodite, ma la semidea insisteva che Skylar dovesse assolutamente trovarsi un fidanzato. In genere, a quel punto, Skylar ribatteva di non essere affatto interessata ad avere alcun tipo di rapporto amoroso con nessuno degli immaturi ragazzi del Campo. Allora, l'altra cominciava a meditare e le stilava una lista dei ragazzi da lei reputati “i più maturi del posto”, la quale comprendeva, generalmente, persone che Skylar non aveva neanche mai sentito nominare in giro, o, più probabilmente, inventate di sana pianta dalla mente contorta della ragazza.
«Credo che faresti meglio a tornare all'Arena, Rose, prima che Elle cominci a minacciare qualcuno», rispose, in tono pacifico.
Rosaline sbuffò sonoramente.
«Ma figurati. Tanto chi la ferma, quella?», ribatté, come se Elle fosse una belva selvatica e non una delle sue sorelle «...ah! Ho appena avuto un'idea grandiosa!».
Skylar ebbe paura di domandarle quale mai fosse, ma lo fece comunque. In ogni caso, Rosaline glielo avrebbe detto lo stesso.
«Tu, Skylar Hastings, figlia di Atena, partirai per un'impresa!», dichiarò la ragazza.
Skylar rischiò seriamente di inciampare nei suoi stessi piedi, all'udire quella frase.
«Che cosa?», chiese, palesemente sorpresa «no, per l'amor degli dei, proprio no».
«Ma sì, invece» ribadì Rosaline, con fare saccente «ed io che credevo che tu fossi intelligente. Cosa c'è di meglio di un'impresa, per fare conoscenza con un ragazzo?».
Skylar, di nuovo, alzò gli occhi al cielo.
«Non ci sono imprese a cui partecipare, lo sai», rispose, senza scomporsi.
«Come no? C'è quella di Will», replicò Rosaline, testarda «lui è un bel tipo, penso. E, comunque, sono certa che ci saranno un sacco di altri ragazzi carini, se lui non ti piace».
«William non vorrà una come me, nel suo gruppo», osservò Skylar, inarcando un sopracciglio «non gli sarei di grande aiuto».
«Beh, potremmo sempre chiederglielo, no?» fece Rosaline, mentre uno dei suoi rinomati sorrisi pericolosi le si allargava sulle labbra «non potrà dire di no».
Al solo pensiero, a Skylar vennero i brividi. Conosceva il figlio di Ares solo per sentito dire. D'altronde aveva le mani in pasta un po' ovunque, lì al Campo, ma non aveva mai scambiato neanche mezza parola con lui. Sapeva però che Rosaline aveva ragione: se glielo avesse chiesto, William non avrebbe detto di no. Non diceva mai “no” a nessuno, o così si diceva, a meno che non si trattasse di qualcosa che andava contro ai suoi princìpi.
«Lascialo in pace, dai» pregò Skylar «deve essere già tremendamente sotto pressione per conto suo, s'innervosirà... e poi posso essere molto più utile qui, che in giro per il mondo».
Rosaline non parve affatto sentirla, o forse la ignorò semplicemente, perché corse via, rapida come se il fuoco la stesse inseguendo.
«Fermami, allora, Lady Sky!».


Elle stava cominciando a perdere davvero la pazienza.
Non solo era circondata da un branco di incapaci, ma quel codardo di William Harper si stava anche palesemente nascondendo da lei. Era un vero peccato, perché se Elle fosse mai riuscita a mettere le mani su di lui, forse nessuno l'avrebbe mai più rivisto tutto intero.
Per quanto potesse essere carino, non poteva di certo perdonargli di averle fatto fare il giro del Campo per almeno una decina di volte.
L'aveva cercato dappertutto, e ancora non era riuscita a trovarlo. Eppure era certa che fosse figlio del dio della guerra e non di quello della mimetizzazione, qualunque esso fosse.
Assurdo. Era come cercare un ago in un pagliaio, ed Elle detestava non riuscire in qualcosa, soprattutto se, in quel qualcosa, c'entrava un ragazzo.
Avrebbe dovuto saperli comandare a bacchetta, ma se non erano lì intorno, lei non aveva il benché minimo potere su di loro. E questo le scocciava parecchio, soprattutto quando avrebbe avuto davvero bisogno di averli a sua disposizione, come in quel momento.
Che cosa doveva fare, una povera figlia di Afrodite, per riuscire ad entrare a far parte di una stupidissima impresa?
Non che le importasse davvero del successo di essa, figuriamoci, era solo stufa della perfetta tranquillità del Campo Mezzosangue, dove il massimo del divertimento l'avevi quando il figlio di Ebe si ubriacava e cominciava a farfugliare sciocchezze, o quando si giocava la Caccia alla Bandiera.
Un'impresa come quella poteva essere particolarmente interessante e, soprattutto, poteva essere il suo biglietto di uscita da quella totale noia. Senza contare che, se fosse riuscita, al suo ritorno, sarebbe stata elogiata come un'eroina di prima qualità, e non solo come un bel visino.
E poi, di certo avrebbero avuto bisogno di lei. Tutti avevano bisogno di un bella ragazza, nella loro squadra. Era certa che William avrebbe chiesto di partecipare all'impresa ad almeno una persona, e quella sarebbe stata, senza ombra di dubbio, Susan Graymark, che, a parer suo, non era neanche lontanamente bella quanto lei, ma per la quale Harper aveva un'insensata cotta colossale sin da quando l'aveva conosciuta.
Elle superò, di nuovo, le postazioni del tiro con l'arco, rigida e superba come al solito, fulminando questo e quell'altro semidio che la fissava con una ridicola faccia da ebete.
«E tu che vuoi?», abbaiò, in direzione di un ragazzetto piccolo e smilzo, che la osservava di soppiatto da dietro una balla di fieno.
Il ragazzino, intimidito, parve trovare improvvisamente molto interessanti le punte delle sue scarpe, perché abbassò gli occhi su di esse e non li rialzò più.
«Io...» balbettò, talmente piano che Elle dovette chiedergli di ripetere «io volevo dirti che so dove puoi trovare Will, se... se t'interessa ancora, ovviamente».
Il bel volto di Elle parve illuminarsi dalla sorpresa e dall'esaltazione. La ragazza si avvicinò leggiadramente al ragazzino e si abbassò su di lui, fino a quando i loro nasi non si sfiorarono.
Il ragazzino parve pietrificarsi, ed Elle sorrise lievemente.
Sapeva di essere un po' crudele con lui, ma non le importava affatto. Anzi, la cosa la divertiva persino un po'.
«M'interessa», sussurrò, con voce suadente e confidenziale «dov'è?».
«Sta... sta discutendo con dei ragazzi vicino all'Anfiteatro», rispose lui, facendosi ancor più piccolo di quanto non fosse ed arrossendo visibilmente «credo che riguardi l'impresa, quindi...».
Elle assunse una posizione eretta talmente in fretta che il ragazzino si zittì, e gli angoli delle labbra della ragazza, dipinte di un seducente color prugna, si piegarono verso l'alto in un sorriso.
«Grazie», disse Elle, piano, senza risparmiarsi di scompigliargli i capelli con una mano «credo proprio di doverti un favore».
Il ragazzino, sconvolto, non ribatté. Assunse però uno spaventoso colorito verdastro, ed Elle suppose che stesse per vomitare. Temendo che le sporcasse le scarpe, fece rapidamente retro-front e si diresse verso le porte dell'Anfiteatro.
In realtà, era passata da quelle parti almeno una decina di volte nell'ultima mezzora, e non aveva scorto la folta chioma bionda ed arricciata di Harper da nessuna parte. Però, se il ragazzino le aveva detto che l'avrebbe trovato lì, significava che doveva per forza essere vero.
Nessuno, per quanto ne sapesse lei, voleva rischiare di farla arrabbiare a causa di un'informazione errata. A meno che non volesse morire, ovvio.
Veloce e decisa, quasi a passo di carica, Elle scivolò fino all'Anfiteatro, dove, questa volta, si accorse immediatamente della presenza di William, proprio davanti all'entrata. Era circondato da un branco di ragazzi che parlavano sovrapponendo le parole di uno con quelle dell'altro, creando una confusione in cui Elle non riuscì a cogliere neanche mezza sillaba.
“Tutti qui per l'impresa?”, si domandò Elle, inarcando con sorpresa un elegante sopracciglio scuro “quanta folla”.
Stava per avvicinarsi ed unirsi al gruppo, quando notò l'espressione dipinta sul volto di William ed esitò per un istante.
Era raro, forse più unico che raro, che Elle avesse timore di qualcosa o di qualcuno, ma doveva ammettere che, in quel momento, William Harper somigliava in tutto e per tutto ad una bomba a orologeria già innescata. Ed avvicinarsi ad una bomba non era mai la scelta migliore.


James Blake non ricordava esattamente quando si fosse addormentato, ma era abbastanza certo che quello fosse un sogno.
Insomma, l'ultima volta che aveva controllato, lui si trovava a Long Island, all'interno del Campo Mezzosangue, decisamente non in alta montagna. E poi, nella realtà, di certo non avrebbe potuto vedere se stesso da quell'angolazione.
Il James del sogno era nascosto dietro ad una grossa roccia del colore dei mattoni, staccatasi evidentemente da una delle pareti rocciose che lo circondavano, come se si trovasse in una conca.
James se ne rese davvero conto solo allora, lanciando un'occhiata intorno a sé, ma tutto era coperto da uno spesso strato di neve e ghiaccio.
Faceva freddo, parecchio.
James aveva la pelle raggrinzita in tanti piccoli brividi, anche a causa dell'abbigliamento poco consono ad una scalata che si ritrovava: jeans a metà gamba e la t-shirt arancione del Campo? Decisamente poco adeguati.
Eppure, anche se avesse indossato una tuta da sciatore, James aveva l'impressione che avrebbe avuto freddo esattamente allo stesso modo.
Ma la cosa strana, su quel monte, non era affatto la temperatura.
James sbirciò al di là della roccia dietro la quale era nascosto e corrucciò le sopracciglia, perplesso.
C'erano un sacco di ragazzi e di ragazze, da quelle parti, tutti affaccendati intorno alle rocce, intenti a spostarle una ad una, con la massima attenzione. E, nel fare questo, erano aiutati da altrettanti mostri.
James barcollò all'indietro, sorpreso, ma poi tornò a guardare la scena, troppo incuriosito per restarsene da parte. Non riusciva a crederci.
Gli parve persino di riconoscere qualcuno che aveva già visto, prima di allora. Il ragazzo dai capelli rossi ed il cappellino con la visiera, per esempio, somigliava parecchio a Lewis Cornell, uno dei figli di Efesto che era scomparso dal Campo parecchi giorni prima.
Non sembrava propriamente felice di trovarsi in quel posto, ma non pareva neanche particolarmente dispiaciuto. Gridava ordini di qui e di là, serio e gelido come il capo di un'armata militare, e tutti i presenti sembravano ubbidirgli ciecamente.
Oppure quella ragazza dai lunghi capelli color ebano e gli occhi di ghiaccio che aiutava Lewis nella direzione dei lavori, non era forse Isabelle Anderson, figlia di Afrodite? Anche lei non era più al Campo da diverso tempo.
James scosse il capo, senza capire. Che cosa stava succedendo, esattamente?
Poi, il sogno mutò ed il giovane semidio si ritrovò a brancolare nel buio più totale.
James non aveva paura del buio. Lui stesso, ormai, si considerava “il buio”, e sapeva benissimo cosa significava quell'improvvisa oscurità.
«Mostrati, forza», cominciò a sussurrare, chiudendo le palpebre per allertare meglio tutti i suoi sensi «mostrati, mostrati, mostrati».
La risata ispida della dea gli giunse all'orecchio, e James puntò gli occhi su di lei, Nyx.
Sua madre era esattamente come l'ultima volta che l'aveva vista, notò lui, altera ed inquietante, con quella sua pelle del colore della notte e foderata di stelle luminose. Lo innervosiva un po'.
«Ciao, Jem», lo salutò, agitando una mano nella sua direzione «è bello vederti di nuovo. Sei cresciuto, sai?».
«Ciao, mamma», rispose lui, stringendo i pugni ed i denti «da quanto t'intrufoli anche nei miei sogni?».
Nyx sorrise a suo figlio con tenerezza, ignorando la domanda impertinente.
«Ho una proposta per te, bambino mio», disse la dea, alla fine «come ben sai, io sono figlia di Caos, e come tale ho scelto di partecipare a questa guerra dalla sua parte. Immagino che sarà la parte vincente, quindi, pensavo che magari anche tu vorresti unirti a noi, come hanno fatto gli altri».
James non dovette neanche pensarci.
«No», rispose «grazie dell'offerta».
Nyx parve infastidita.
«No? Oh, Jem. Pensaci bene» disse «in fondo, cosa ti ha dato il tuo caro Campo Mezzosangue, a parte tanto dolore ed amici che non si fidano di te?».
«Questo... se mi odiano...», cominciò James, ma le parole non sembravano voler uscire spontaneamente dalle sue labbra «se mi odiano, il merito è tutto tuo».
«Mio?» ripeté Nyx, in tono di sfida «e perché mai, ragazzo? Sei tu che governi la tua vita».
«Già, sarebbe carino se anche loro la pensassero così», sbuffò James «ma tu sei mia madre, e tutti hanno sempre saputo che ti saresti alleata con Caos. Sei una traditrice. Ma io non sono come te. Piuttosto, preferisco la morte».
«E allora morirai» dichiarò la dea, alzando il mento con fare sprezzante «come tutti quelli come te».
James stava per ribattere che no, non sarebbe affatto morto, ma il sogno si dipinse di nebbia ed il ragazzo si ritrovò a sbattere le palpebre, di nuovo sveglio, nel bel mezzo di uno dei campi di fragole del Signor D.
La realtà di quanto aveva appena sognato gli si riversò addosso improvvisamente, come una gelida doccia inaspettata che, per alcuni istanti, lo lasciò senza fiato.
Si tirò a sedere talmente in fretta che ebbe un capogiro.
«Devo dirlo a Chirone!», esclamò, balzando in piedi e scuotendosi i jeans dall'erba «e dei, devo dirlo anche a Will!».


Quando James scorse William, la prima cosa che pensò fu che non sarebbe stato affatto prudente avvicinarsi ancora a lui.
Susan Graymark pareva pensarla esattamente come lui, perché si stava tenendo ben a distanza, fingendosi alquanto impegnata a raccogliere cartacce gettate a terra da qualche semidio negligente. Ma, di tanto in tanto, lanciava occhiatine sfuggenti a metà tra il divertito e il preoccupato in direzione del figlio di Ares.
Il ragazzo era letteralmente circondato da un ben forbito gruppetto di semidei. C'era la bellissima ed affascinante Elle Willow, il piccolo Sem Phoenix e persino il vanitosissimo Nathan, che avrebbe potuto battere in una competizione persino Narciso stesso. Vi era Rosaline, una delle figlie di Afrodite, e Rose Stevens, che si agitavano alle spalle di William in un complicato tentativo di farsi notare. Un po' in disparte, vi era persino il romano Altair Ibdan-La, che osserva la scena con un vago sconcerto dipinto sul viso.
“La vedo male”, pensò James, perplesso, ma non si attentò a parlare ad alta voce.
«Oh dei, li ucciderà tutti», commentò tra sé, invece, Skylar Hastings, «l'avevo detto, a Rosaline, che sarebbe successo».
James non l'aveva neanche notata, fino a quel momento.
«Sta per esplodere, non è vero?», chiese, un po' timoroso.
Skylar annuì piano, allarmata.
«Non sarà un bello spettacolo».
William se ne stava lì, in silenzio, nel bel mezzo di una chiassosa banda di ragazzi, le palpebre socchiuse e le labbra strette in una linea dura. Le braccia conserte ed una vena che pulsava nervosamente all'altezza della tempia destra.
Jonathan ebbe il tempo di uscire dalla Casa di Ecate e notare l'insolita confusione, prima che William folgorasse tutti quanti con una delle sue occhiatacce perfettamente degne di suo padre.
Il buon umore, si disse Jonathan, a quanto pareva, era andato a farsi benedire.
«ADESSO BASTA!», tuonò il figlio di Ares, a voce talmente alta e ferma che le pareti stesse dell'Anfiteatro parvero tremare.
Il manipolo di semidei si zittì improvvisamente, ed il ragazzo sospirò, esasperato.
«Beh, allora?», insistette Elle, piegando le labbra color prugna in un sorriso seducente. William abbassò lo sguardo su di lei per istante e corrucciò le sopracciglia, come se si fosse accorto della sua presenza solo in quel momento. Elle sbatté le palpebre, e Susan si lasciò sfuggire un versetto di scherno, che si affrettò però a soffocare immediatamente.
Jonathan le lanciò un'occhiata incuriosita, ma lei non gli badò affatto.
“Ragazze”, pensò Jonathan, ma suppose che fosse il caso di non esprimersi. Le ragazze erano sempre piuttosto irritabili.
«Sì, allora, William?», rincarò Nathan «cioè, io verrò comunque. Ma ho il tuo permesso o devo fare tutto di nascosto?».
«E io?», chiese Sem, alzandosi sulle punte delle scarpe per raggiungere almeno il livello delle spalle del ragazzo «per favore, Will».
William s'irrigidì, e Rose si trattenne saggiamente dall'esporre le sue considerazioni. Si fece un po' da parte, lasciandosi scivolare via di dosso la maggior parte della rabbia accumulata e si mise in ascolto.
«Tu sei troppo piccolo e non sei abbastanza addestrato, Sem» asserì William, rivolto al ragazzino «non puoi venire».
«Ma ci sarai tu!», si lamentò il figlio di Poseidone «e poi, avevi detto che ero in gamba».
«E lo sei», assicurò lui, portandosi una mano alla fronte con una certa disperazione «ma questo non vuol dire che sei a posto per un'impresa. Non so se sono pronto a...».
«Sono pronto io», assicurò Sem, e William sospirò di nuovo.
«Ricordati di portarti dietro un po' di ambrosia, piccoletto», sbuffò alla fine, sconfitto.
«E noi?», riprese a dire Nathan, spazientito «possiamo o non possiamo, quindi?».
William parve sul punto di afferrare per il collo tutti quanti e sbatacchiarli contro la porta della Casa di Era. Bofonchiò persino qualcosa che suonò vagamente come un “che Zeus vi fulmini”, ma poi tornò ad assumere la sua tipica aria imparziale.
«Non mi prenderò alcuna responsabilità per voi», disse, maledicendosi mentalmente per ciò che aveva appena fatto. Possibile che fosse talmente facile, convincerlo?
«Oh, grande, fratello! Sarà una festa!», esclamò Nathan, alzando il palmo di una mano per battere il cinque con lui. William lo ignorò, e Nathan riabbassò la mano, interdetto.
Dal canto suo, Elle si limitò a gettarsi i capelli all'indietro, soddisfatta della riuscita dei suoi piani.
«Oh, ma io non sono qui per me!», esclamò Rosaline, alzando una mano come avrebbe fatto a scuola per poter parlare «sono qui per Skylar!».
Skylar assunse lo stesso colorito rosso acceso delle fragole mature del Signor D.
William fece vagare il proprio sguardo nella direzione della semidea, e quando i loro occhi si incrociarono fu uno scontro tra due diverse tonalità di grigio: quello timido, color tempesta, delle grandi iridi di Skylar e quello più pigro ed indagatore, sfuggente come fumo, appartenente a William.
«Sei tu?», domandò William «vuoi venire davvero?».
Skylar aveva avuto un sacco di tempo per pensarci e sì, per quanto la cosa avesse sorpreso lei stessa per prima, voleva davvero partecipare all'impresa.
«Se possibile...», disse, e Rosaline le rivolse un gran sorriso.
«Bene, allora sei a bordo», commentò William «ci vediamo questa sera, al falò. Io me ne torno al mio...».
«Ehm, hey, senti!», lo interruppe Altair, facendosi avanti «stavate parlando di un'impresa, giusto? Un'impresa niente male, mh? Riguarda Caos».
«Esatto!», rispose Rose, incapace di starsene ancora in silenzio «sarà fighissimo».
«Lo immagino», annuì Altair, le iridi verdi che brillavano «vi scoccia se vengo pure io? Il Campo Giove è così noioso».
«Non posso dire cosa fare a te», rispose William, infilandosi le mani nelle tasche della tuta militare «il Campo Giove non rientra nelle mie competenze. Solo, avvisa i tuoi pretori. Non vorrei che Andrew mi tagliasse le dita per non aver chiesto il suo permesso».







*Piccole Note: “Aion” è davvero un gioco di ruolo, ci gioca il mio ragazzo (oh, sì. È tremendamente nerd, esattamente come sembra). Però, immagino che non vi siano troll lavavetri (?), là dentro.
Ah, non preoccupatevi se non capite un accidente di quello che ho scritto, in quella parte. Non lo capisco neanche io. Spero che sia di qualcosa di sensato*


Angolo di Butterflies:

Oh, miei dei.
Questa è stata, lo giuro, l'impresa più ardua da portare a termine di tutti i secoli.
Cioè, è una cosa lunghissima, per me D: quattordici pagine tonde tonde di OpenOffice (già. Word mi ha abbandonata secoli addietro, ormai. Finirà nei più profondi abissi del Tartaro).
No, ma io... adesso vedo virgole ovunque (?), persino sulle pareti. Forse mi devo prendere qualche ora di pausa, lol. Spero solo che ne sia valsa la pena, fatemi sapere ._.
Ah, un'ultima cosa: qualcuno avrà forse notato che Susan Graymark è apparsa un po' più spesso degli altri. Questo perché non ha un suo punto di vista, e per questo volevo farmi perdonare dalla sua creatrice, che poi sarebbe mia sorella. Già, perché questa deve essere la prima interattiva in cui c'è carenza di ragazze e l'autrice deve supplicare sua sorella di crearne una, lol.


P.S: se volete mandarmi una foto di un presta volto per il vostro personaggio, sapete dove trovarmi! Pensavo, dietro consiglio, che sarebbe carino creare un banner - se qualcuno si offre volontario come tributo (?) per farlo, gli faccio un regalo (?) - con le immagini degli OC da mettere all'inizio della storia.
Voi che ne pensate?
E, oh, se potete anche dirmi qualcosa tipo: il mio personaggio potrebbe andare d'accordo con Tizio, Caio e Sempronio, mentre penso che Mevio e Filano gli starebbero altamente sulle scatole e che Calpurnio gli farebbe un po' paura, mi aiutereste parecchio nello sviluppo della storia :3


*Grazie a tutti quelli che partecipano*

 
 
  
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