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Autore: Astrid Romanova    09/07/2014    1 recensioni
«Il segreto per non subire la mancanza di controllo è desiderare di non averlo. Se non hai aspettative non hai delusioni, se scegli di non scegliere non puoi mai sbagliarti» [...]
«Lancia una moneta» [...] «Aspetta che ti dica cosa il caso ha scelto per te» [...] «non tirarti indietro».
Io mi tiravo sempre indietro. [...] Mi sembrava tutto vano. E anche se avevo sempre saputo che ogni cosa non viene creata per esistere per sempre, che prima o poi, in un modo o nell'altro, tutto finisce in niente, non mi ero mai resa conto di quanto la parola “effimero” potesse fare paura. Non era solo qualcosa che spariva. Era qualcosa che spariva e ti lasciava con un pugno di mosche. Ma persino le mosche volavano via quando aprivi la mano. [...]
«Credo che dovresti provarci» disse lui all'improvviso, ridestandomi dai miei pensieri.
[...] In fondo aveva ragione. Alla peggio avrei scoperto di non essere pronta, di non essere in grado di vivere in quel modo. Il termine provarci era già di per sé sintomatico di qualcosa da cui non ti aspetti necessariamente una vittoria. Provare non è obiettivo.
«Se non hai obiettivi, qualsiasi meta è un traguardo»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 8
Distraction

E d'un tratto capii che pensare è per gli stupidi, i cervelluti si affidano all'ispirazione.
-A. De Large, Arancia Meccanica

   Forse avevo bisogno di fare sesso.
   Non avevo contato i minuti, né le ore (nemmeno i mesi, se era per quello) ma era da un tempo spropositatamente lungo che non lo facevo.
   In parte era perché non ero il tipo da rapporti occasionali e, dopo l'incidente, la mia priorità non era stata quella di trovarmi un partner. In parte perché, a dirla tutta, non c'era nemmeno stato qualcuno che mi avesse cercata.
  Avevo perso i contatti con l'universo maschile, almeno in quel senso, e non avevo mai creduto alla leggenda per il quale l'astinenza rendesse le persone irritabili. Poteva essere vera per i maschi, che avevano un comprovato bisogno fisiologico di sfogarsi ed erano anche notevolmente più arrapati delle donne. Ma per la maggior parte delle femmine non era così: secondo una ricerca di non ricordavo quale ente l'ottanta percento delle donne aveva affermato di preferire il sonno al sesso.
   Ma, guarda caso, l'ottanta percentro delle donne erano suscettibili come i gatti durante il pasto: al minimo disturbo estraevano gli artigli e ti soffiavano contro.
   Non ero ancora certa che il sesso calmasse effettivamente i sensi e riappacificasse l'animo, ma farlo o non farlo non era poi così indifferente come credevo. Se una donna dice il contrario – che sta benissimo nonostante siano tre anni che non ha un rapporto sessuale – meglio starle alla larga. Specialmente mentre mangia.
   Con questo non volevo dire che il sesso avrebbe risolto i miei problemi, solo che forse avrebbe allentato un po' la tensione che sentivo e che mi avrebbe dato una spinta – in senso figurato, per l'amor del cielo – a recuperare la fiducia in mé stessa nelle relazioni con l'altro sesso. Non ero mai stata particolarmente audace, ma prima non desideravo scappare di fronte al primo uomo che avesse dimostrato di essere minimamente attratto da me.
   Perché era quello il problema, iniziavo a capirlo. Dopo l'incidente avevo dovuto affrontare decine e decine di problemi per ristabilire la mia capacità a relazionarmi, ma non avevo ancora mai affrontato il problema “attrazione”. Non mi sentivo pronta ad essere di nuovo desiderata come donna, né a desiderare qualcuno a mia volta. Sarei stata più pronta a buttarmi ad occhi chiusi in qualcosa che a vivere giorno per giorno un corteggiamento, sapendo che prima o poi avrei dovuto compiere una scelta, quel genere di scelta che non puoi assolutamente attribuire al caso come in qualsiasi altra occasione.
   Mi serviva una spinta, una spinta che mi facesse riavere quel lato dell'essere donna per cui ci sente lusingate dall'essere oggetto di attenzioni da parte di qualcuno, invece che terrorizzate. Non che il sesso fosse una risuluzione al problema, e comunque non c'era un solo rappresentante del genere maschile che mi causasse anche un minimo formicolio nella pancia, tanto meno lì sotto. Nella mia stanza, sola e pacificamente seduta sul letto, era più facile credere di avere abbastanza fegato da rilanciarmi nella mischia, ma ero sicura che non appena avessi messo piedi fuori – nel dannato, incasinatissimo mondo – mi sarei sentita molto meno eroica.
   Avevo una gran confusione in testa. Non capivo perché dovessi sentirmi così... bho. Ero a mio agio nel mio corpo e avevo familiarità con le situazioni di intimità. Non ero vergine, ecco.
   Ma mi sentivo come se lo fossi. Mentalmente vergine. Così tanto che persino un'innocente dichiarazione d'interesse mi mandava in panico.
   Altro che vergine, ero praticamente frigida. Non mi piaceva. Le cose dovevano cambiare.
  Al diavolo, avevo bisogno di fare sesso. Certo, questo significava prima trovare qualcuno con cui volessi farlo e di cui potevo fidarmi. Ma, che io fossi dannata, non riuscivo proprio ad andare d'accordo con l'idea di essere desiderata, figurarsi trovare le palle per dare una svolta alla mia apatia sessuale.
   Quasi come se volessi controllare di avere ancora l'organo che tanto a lungo avevo ignorato, mi fissai la stoffa dei pantaloni della tuta all'incrocio delle gambe. Con un gesto lento, che percepivo come immensamente stupido, portai una mano a sfiorare il punto visualizzato, guardando diffidente la meta con un solo occhio aperto. Che idiozia. Se proprio volevo la certezza che funzionasse ancora avrei dovuto fare molto di più, ma non mi sembrava il momento adatto. In realtà poteva anche esserlo, a ben vedere, ma io avevo deciso che non lo era. A prescindere.
   Premetti giusto un po' di più finché il tessuto poliestere non entrò incontatto col cotone degli slip. Qualcosa, lì dietro, c'era, e reagì quasi impercettibilmente, come una persona addormentata a cui venisse sfiorato un dito con una piuma. Un rapido e insignificante spasmo, ma se non altro significava che, con ogni probabilità, era ancora collegata alle terminazioni nervose.
   A reagire con un salto di venti centrimetri fu invece tutto il resto del mio corpo, quando papà busso alla porta e poi entrò senza aspettare il permesso. Ritrassi di scatto la mano, fortunatamente in tempo, e fulminai mio padre con lo sguardo.
   «All'ingresso c'è un certo Doug che chiede di te. C'è qualcosa che ti sei dimenticata di dirmi?».
   Doug? Che diavolo ci faceva lì? L'avevo trattato malissimo l'ultima volta che ci eravamo visti. Io non sarei mai andata a casa di una persona che mi aveva trattato come io avevo trattato lui. È da idioti.
   Ma lui era un'idiota, effettivamente.
  Ignorai il tono sarcastico di papà e mi alzai dal letto, superandolo per scendere al piano di sotto e andare a vedere che cacchio voleva Doug per essersi fatto così tanta strada per arrivare lì. Non che abitasse dall'altro lato del pianeta, ma dall'altro lato della città sì.
   «Doug?» lo chiamai quando, arrivata al piano di sotto, lo trovai a guardarsi intorno posizionato come un attaccapanni vicino al divano.
   «Oh, ciao» esordì col tono di chi ha appena incontrato un conoscente per strada.
   Niente. Non proseguì. Inarcai un sopracciglio, in attesa, ma visto che non accennava a parlare lo incoraggiai con un gesto della mano.
   «Scusa se sono piombato qui così all'improvviso».
   Sì, andava bene. E?
   «Volevo solo avvisarti di una cosa, e dirtelo al telefono non mi sembrava adatto».
   Quelle parole avevano sempre avuto il potere di farmi preoccupare. Le cose inadatte ad essere dette al telefono erano cose brutte, in genere. Molto brutte. Istantaneamente mi immaginai che fosse capitato qualcosa a qualche nostro amico in comune, o magari a lui stesso. Era morto qualcuno? Era all'ospedale per qualcosa di grave? Qualuno aveva una malattia incurabile e gli restavano pochi mesi di vita? Qualcuno...
   «Sto per sposarmi».
   Ah.
  Non glielo avrei detto – ero già stata abbastanza insensibile con lui – ma la notizia del suo imminente matrimonio non era neanche lontanamente qualcosa che non potesse essere riferita in una semplice chiamata. Anche perché non era qualcosa che mi interessasse particolarmente.
   «Oh, congratulazioni» dissi invece, sforzandomi di sembrare davvero felice per la notizia.
  In fondo un po' mi faceva piacere per lui. Era una brava persona, se lo meritava, anche se non osavo immaginare che tipo di soggetto fosse la sua futura sposa. O era idiota quanto o peggio di lui, o si stava cacciando in un bel guaio.
   Ora che ci pensavo, mi aveva accennato di avere una fidanzata, o roba simile, ma Doug non era mai stato il tipo a cui piacesse parlare delle sue storie amorose. Non che ne avesse mai avute molte. Due, contando quella attuale. Ma non aveva mai fatto riferimento ad un matrimonio: dovevano averlo deciso molto di recente.
   «Sì, grazie» balbettò, un po' imbarazzato. «Volevo chiederti se ti andasse di venire. Anita ha invitato tantissimi suoi amici del liceo».
   Supposi che Anita fosse la fidanzata in questione. E, se all'inizio non capivo perché mi stesse invitando al suo matrimonio visto che non eravamo poi in rapporti così stretti, quando la nominò mi venne l'illuminazione. Era ovvio. Lei avrebbe portato i suoi amici del liceo, mentre lui... lui non ne aveva. O, per meglio dire, ne aveva pochissimi, e sospettavo che con la maggior parte di essi non fosse più in contatto da anni. Aveva cercato me perché dovevo essere l'ultima sua ex compagna di scuola di cui aveva avuto notizie. Improvvisamente sentii un fiotto di compassione verso di lui.
   Ci sarei andata. Glielo dovevo, dopo il mio comportamento di qualche settimana prima. Si trattava solo di un giorno, dopotutto. Avrei sparato un paio di cazzate su come Doug a scuola fosse sempre stato molto ammirato e circondati di amici, magari. O magari niente, sarei solo stata presente per dimostrare che ne aveva avuto almeno uno.
   «Ne sarei davvero felice».
   Il suo viso si illuminò e dalle sue labbra spuntò un sorriso.
   «Davvero? Grandioso, grazie».
   La sua euforia durò pochi istanti. Iniziò a mordicchiarsi le labbra, pensieroso. C'era qualcos'altro che doveva dirmi, o chiedermi, e credevo di sapere cosa.
   «Senti, mi chiedevo... non è che potresti...».
   Lo interruppi, sia per risparmiare tempo che per risparmiargli l'imbarazzo.
   «Chiedere anche ad altri nostri ex compagni? Certo» lo rassicurai, sorridendo a mia volta.
   Sarebbe stato meglio anche per me. E poi, visto che a quanto pareva Anita si sarebbe portata dietro metà del suo vecchio liceo, più eravamo più bella figura ci avrebbe fatto anche lui.
   Fare a gara a chi ha più vecchie conoscenze non era una buona premessa per un matrimonio, ma era meglio tenerlo per me.
   «Ti ringrazio davvero, Cam».
  Finalmente il suo sorriso divenne permanente e sorrisi anche io di riflesso, felice di averlo reso felice. A volte era bello fare qualcosa per gli altri. A volte era un gran rottura, ma in certi casi rendersi disponibili faceva stare meglio te che la persona a cui offrivi aiuto. E io avevo bisogno di sentirmi utile almeno ad una persona al mondo, perché per tutta la domenica ero rimasta chiusa in casa a domandarmi se madre natura, dopotutto, non avesse starnutito polvere di imbecillità mentre mi progettava. Stronza.
   «Allora io vado» riprese Doug, alzando una mano in segno di saluto. «Oh, sì, ti farò recapitare l'invito ufficiale, con data, ora e luogo» mi informò.
   Troppo difficile dirmelo subito?
   «Va bene, Doug. Ci vediamo il gran giorno, allora» lo salutai a mia volta.
   Lui sorrise di nuovo e di avviò alla porta, richiudendosela alle spalle.
   Avrei dovuto offrirgli da bere, probabilmente. Invitarlo a rimanere cinque minuti per raccontarmi qualcosa della sua bella, magari. Avrei dovuto. Ma sarebbe stato un suicidio, per cui andava benissimo così.
   A non andare bene era l'indolenza che avevo tenuto per tutta la domenica, e che anche quel lunedì minacciava di assorbire l'intera giornata. Dovevo uscire. Dopo una doccia e un cambio d'abiti, ma dovevo uscire. E dove va un'ex studentessa di letteratura quando deve dimenticarsi di sé stessa?

 
•●•

   Dovevo ammettere che il bar poteva essere una buona alternativa, ma non ero conciata così male da dovermi dare all'alcol a tutte le ore del giorno. Il solo fatto che l'avessi pensato mi dava un po' i brividi.
   Libreria. Quello era il posto perfetto. Con la scusa di cercare il libro giusto potevo leggermi qualche pagina di qualsiasi volume trovassi interessante, saltando dalla vita di un personaggio letterario ad un'altra. Perfetto.
  Stavo “consultando” il best seller mondiale “Cinquanta sfumature di Grigio” – avevo sentito che la protagonista era un'innocente e inviolata fanciulla rigida come una stecca di legno – cercando di capire in che modo una ventiduenne senza né arte né parte potesse tirarsi fuori dal guscio e diventare improvvisamente una ninfomane leggermente deviata. Dal momento che parte del processo di mutazione comprendeva un uomo irrealmente bello, del sadomaso spicciolo e una straordinaria produzione di feromoni, eravamo decisamente lontani da qualcosa che potesse anche solo vagamente interessarmi per comprendere un pochino meglio la logica femminile, visto che a quanto pareva io non ero ingrado di capirla da sola, pur facendo parte di quello stesso genere.
   Richiusi malamente il volume e lo rinfilai nel suo spazio, dove per quel che mi riguardava poteva rimanere fino alla prossima era glaciale e funzionare come combustibile per il falò che avrebbe tenuto in vita i sopravvissuti.
   Fantasy. Il fantasy era un toccasana quando dovevi evadere momentaneamente dai pensieri di una comune vita mortale. Era strano come ti portava in un universo completamente diverso, dove per farti strada dovevi ammazzare un numero non meglio precisato di persone, scappare da chissà quante altre e prendere parte ad un incredibile scontro finale per la salvezza del pianeta, dove sai che potresti benissimo rimanerci secco... e fartelo preferire alla tua vita. Perché chiunque avesse letto “Il Signore degli Anelli” avrebbe preferito attraversare l'intera Terra di Mezzo piuttosto che il tragitto in metropolitana per andare a lavorare.
   Non che il fantasy fosse tutto scazzottate e spade magiche, ma se ti impegnavi in una lettura di quel genere non cercavi “le banali giornate di un gruppo di fate pacifiche”, cercavi “le cazzutissime avventure di Mr.Vispaccoleginocchia”. Insomma, un po' di azione. Qualche intrigo. Diversi morti. Posti incredibili e pericolosi.
   Se no ti guardavi un film della Disney.
   Stavo giusto per prendere in mano “Under Heaven” di Guy Gavriel Kay quando scorsi un volto noto molto poco distante da me, che guardava lo scaffale concuriosità.
   Otto anni che non lo vedevo ed era già la seconda volta in due settimane.
   Aprii la bocca per richiamarlo.
   «Ahi! Cazzo...».
   Come richiamo non era il massimo, ma non mi venne altro da dire quando mi caddero addosso due libri, uno in testa e uno sulla spalla.
   «Mi scusi signorina, mi dispiace, sta bene?».
   Mi voltai per vedere chi fosse il genio che mi aveva appena fiondata con due tomi da ottocento pagine l'uno. Una donna di circa una quarantina d'anni mi guardava mortificata con in mano un terzo libro, quello che probabilmente aveva preso facendo cadere gli altri due.
  «Sì, sto bene, non si preoccupi» riuscii a dire, sebbene quello che stavo in realtà pensando assomigliasse più ad un insieme scomposto di insulti.
   Se stava facendo fatica a raggiungere il volume che voleva perché c'ero davanti io, tanto da non riuscire ad evitare il crollo di un quarto dello scaffale – c'erano altri libri per terra, chiusi o con le pagine schiacciate sul pavimento –, avrebbe anche potuto chiedere permesso.
   Sentii una risatina soffocata alle mie spalle, sapendo bene da chi provenisse. Oltre al danno la beffa. Girai la testa giusto quanto bastava per poter vedere il suo sorrisetto divertito.
   «Funziona ancora tutto là dentro?» domandò Ian ironico, facendo cenno alla mia testa.
   Pessima battuta. Inarcai un sopracciglio cercando di recuperare un po' di contegno e non la commentai in alcun modo. In realtà era perché non sapevo come rispondere, ma preferivo far passare la mia per un'aria di superiorità.
   Mi chinai per aiutare la signora a raccogliere i libri caduti e li rinserii nei loro spazi, facendo attenzione a non sbagliare.
   «Scusami ancora, davvero» ripetè questa quando finimmo di riordinare il disastro.
   «Non è niente» la rassicurai.
   Bastava che la finisse di scusarsi e se ne andasse prima di fare altri danni.
   «Allora sei tu che attiri disgrazie» considerò Ian mentre la donna si allontanava.
  Non aveva tutti i torti, ma per principio alzai gli occhi al cielo prima di voltarmi definitivamente verso di lui, lanciandogli un'occhiataccia.
   «Oppure sei tu che porti sfiga» gli feci notare.
  «Possibile» disse annuendo, senza perdere la sua espressione allegra, quella che aveva sempre, con cui sembrava prendersi costantemente beffe del mondo intorno a lui.
   Con qualcosa si diverso.
  Impiegai diversi istanti per capire cosa mancasse al quadro generale, istanti in cui la mia espressione, prima scocciata, divenne indagatrice. Lui mi guardò a sua volta con sconcerto, cercando forse di capire perché lo stessi fissando in quel modo. Poi arrivò la rivelazione.
   E dopo la rivelazione un pressante senso di colpa.
   «Sicura di non aver preso un colpo un po' troppo forte?» mi domandò.
   Questa volta il suo tono non era granché scherzoso.
   «Tu, piuttosto: chi ti ha tirato un pugno? Dimmi che non è stato Jordan».
   Ian chiuse gli occhi e capì il motivo del mio minuzioso interesse circa il suo viso, assumendo un'aria rassegnata.
   «Tu e il tuo dannato “spirito d'osservazione”...» mormorò seccato.
   Il suo pearcing al sopracciglio – quello che avevo notato di sfuggita la sera dell'appuntamento, troppo occupata in altri pensieri – era sparito, e al suo posto campeggiava un piccolo taglio. Doveva essersi in qualche modo strappato dalla pelle e, a meno che non avesse sbattuto la testa contro uno spigolo per pura distrazione, ciò significava che qualcuno lo aveva colpito proprio in quel punto. L'ipotesi del pugno era pura inventiva, ma mi sembrava plausibile visto la gente che frequentava.
   «Non è stato Jordan» confermò a voce più alta, ma non avevo modo di sapere se stesse dicendo o meno la verità.
  L'idea che Jordan potesse essersi arrabbiato con lui perché mi aveva lasciata andare mi faceva sentire terribilmente in colpa. Eppure, ora che ci pensavo bene, se la zuffa si fosse tenuta quella sera del taglio non sarebbe rimasta più che una cicatrice, perciò la ferita doveva essere più recente. Uno, due giorni al massimo.
   Non ero un medico, ma al corso di scrittura creativa del college ci avevano insegnato a documentarci sempre con attenzione per qualsiasi dettaglio che avessimo voluto inserire in un racconto. Quando, come compito, avevamo dovuto scrivere un racconto breve su un argomento a nostra discrezione e io avevo scelto le risse da strada, mi ero informata circa il tipo di ferite che si potevano riportare, sul come curarle e sui tempi di guarigione. Diverse cose le ricordavo ancora piuttosto bene.
   Comunque, questo non escludeva che Jordan, sebbene per qualcosa che non aveva a che fare con me, avesse potuto prenderlo a pugni.
   «Pensi di essere stata così importante per lui da picchiare il suo migliore amico?» mi chiese retorico.
   «Penso che il tuo migliore amico sia instabile, incontrollabile e molto, molto suscettibile» ribattei.
   «No, non lo è» mi contraddisse immediatamente, con fervore.
   Poteva aver ragione. Io non conoscevo Jordan. Ma conoscevo gli effetti della droga.
   «Sai cosa intendo».
  Per qualche altro secondo mi guardò contrariato, e avrei giurato di vedere una scintilla di rabbia nei suoi occhi. Ma alla fine fu costretto a darmi ragione con un sonoro sospiro.
   «Sì, lo so» ammise.
   I successivi secondi di silenzio avrebbero dovuto porre fine all'argomento, se solo non fossi stata troppo curiosa di scoprire come fosse andata a finire la serata dell'appuntamento. Volevo solo sapere come aveva reagito Jordan e come se l'era cavata Ian, se era successo un casino che si sarebbe potuto evitare o se era filato tutto liscio come mi ero augurata.
   Volevo essere certa di non aver creato problemi decidendo di non prendermi carico dei miei.
   «In ogni caso... cos'è successo dopo che me ne sono andata?» domandai cauta, cercando di non dare anche un tono invadente ad una domanda che lo era già di per sé.
   Lui valutò per qualche secondo se rispondermi o no, ma evidentemente non trovò una valida ragione per cui dover tacere.
   «Niente di che. Gli ho detto che avevi ricevuto una chiamata e te n'eri dovuta andare all'improvviso in gran fretta. Ma che gli porgevi i tuoi più cari saluti e le tue più sincere scuse».
   Si esibì in un mezzo sorriso nel dire l'ultima frase. Non era da tutti raccontare al proprio migliore amico tre cazzate in mezzo minuto di discorso.
   «Cosa ti aspettavi, esattamente?» aggiunse poco dopo.
   Già, cosa mi aspettavo?
   «Forse meno bugie, visto che è il tuo migliore amico».
   Anche se l'avevo detto di slancio mi accorsi che ci credevo davvero. Era sembrato personalmente offeso quando avevo parlato di Jordan in termini non proprio rispettosi, e non mi risultava difficile credere che si sentisse in dovere di difendere il suo – per l'appunto – migliore amico. Ma a quanto pareva era altrettanto pronto a mentirgli.
   «Cerco solo di proteggerlo da sé stesso» si giustificò in tono di sufficienza, stringendosi nelle spalle.
  Ma era la verità. Stava dicendo la pura verità, la stessa che avevo intuito quella sera al Barrel osservando come si stava comportando con Jordan, la stessa che si era in parte lasciato sfuggire durante la nostra precedente conversazione.
   «Sono felice di sapere che sia filato tutto liscio» asserii chiaramente, tanto per non lasciare spazio a fraintendimenti. «Resta da capire chi ti ha preso a pugni».
  «Filato tutto liscio? Ma chi diavolo usa ancora l'espressione: “filato tutto liscio”?» mi prese in giro, evitando senza troppa eleganza la mia domanda indiretta.
   Se c'era una cosa non facile da fare era distrarmi quando volevo sapere qualcosa. Hamilton ci era riuscito, una volta, ma quello era un altro conto e, col senno di poi, forse era meglio se contnuavo a rimanere all'oscuro di tutto. Molto meglio, mi sarei risparmiata parecchi grattacapi, sebbene ad essere onesti non era stata la sua confessione il problema, ma la mia reazione ad essa. Però se non l'avesse fatta io non... non era quello il punto; stavo pensando a quanto debole fosse stato il tentativo di Ian di depistarmi e a quanto fosse comunque arduo portarmi fuori strada, se avevo ben in mente la meta. Ironia della sorte, mi distraevo da sola.
   «Io e un altro buon paio di miliardi di persone, tra cui magari quella che ti ha preso a pugni».
   Ian dovette intuire che non avrei ceduto facilmente e forse pensò che non valeva la pena di sforzarsi tanto, perché mi chiese:
   «Vuoi davvero sapere chi mi ha colpito?».
   In realtà, no. Erano affari suoi, mi bastava sapere che non era stato Jordan e che non l'aveva fatto a causa mia. Ma a quel punto era diventata una questione di principio; non ero una persona insistente per natura, ma quando qualcuno cercava di deviare il discorso lo diventavo. Preferivo che mi venisse detto chiaramente “non voglio dirtelo”. La ricerca di scappatoie mi aveva sempre infastidita.
   «Se non vuoi dirmelo non farlo. Ma non tergiversare».
   «Mio Dio, quanto sei noiosa» si lamentò alzando gli occhi al cielo.
   Oh sì, lo ero. Terribilmente noiosa.
   «Mi piacerebbe raccontarti le gesta eroiche che mi hanno portato a guadagnarmi questa ferita, ma sono qui per prendere un libro e non voglio stare tutto il pomeriggio in una biblioteca a parlare con la mia ex fidanzata di otto anni fa».
   «Molto comodo ricordarti che eravamo fidanzati dopo avermi presa per il culo».
   Con questo si entrava in una fase di stallo. Lui aveva ragione, io avevo ragione. Per uscirne uno doveva cedere, o trovare una scappatoia diversa dal mettersi a litigare com'era successo al Barrel.
   Controllai l'orologio. La lezione di fotografia sarebbe iniziata da lì a mezz'ora, e più il termine si avvicinava più mi rendevo conto di non volerci andare. Era l'apoteosi dell'infantilità iniziare ad evitare Hamilton, ma era più semplice che fingere indifferenza. O affrontarlo, alternativa che era, per ora, alla posizione numero centodue della lista delle centro cose da fare prima di morire, tenendo conto che morire era la centunesima.
   Se fossi tornata a casa avrei dovuto dare spiegazioni. Se fossi andata da Darcey avrei dovuto dare spiegazioni.
   «Se ti offrissi una birra?» mi uscì.
   Se fossi andata a bere birra con un ex fidanzato all'oscuro di tutto ciò che mi riguardava e privo di qualsiasi contatto col resto della mia vita, non avrei dovuto rendere conto di niente a nessuno. Tranne al mio buon senso, ma quello potevo tenerlo a bada.
   «Mi stai chiedendo di uscire con te, Cameron?» scherzò lui, sebbene ci fosse un che di insinuatorio nella sua voce.
   «Non essere noioso» lo ammonii sarcastica.
   Lui ridacchiò e osservò per qualche istante la copertina del libro che teneva in mano, poi rialzò gli occhi su di me.
   «Una birra, eh?».
Scusate l'immenso ritardo >_< Vorrei darvi la mia parola che non accadrà di nuovo, ma preferisco non fare promesse che potrei non riuscire a mantenere. Il fatto è che sono bloccata da settimane su uno stesso capitolo, che solo ieri sono riuscita finalmente a mandare avanti; non volevo rischiare di pubblicare questo capitolo e poi farvi aspettare magari più di un mese per il successivo, così ho pensato di distribuire le pubblicazioni in modo da avere un ritardo minore. Se mi dite che preferite un aggiornamento regolare ed eventuali buchi di un mese e mezzo farò come volete, a me non fa differenza. 
Per chiudere ci tengo a ringraziare tutti i nuovi arrivati, che di recente hanno iniziato a leggere la mia storia, e le vecchie conoscenze che seguono TRS da quando è uscito il prologo. Se tra di voi c'è qualcuno intenzionato a lasciarmi un commento ne sarei molto felice ^_^ ma come al solito è una scelta vostra (se non recensite vengo in casa vostra e vi brucio tutta la collezione Harmony. So che ce li avete, non mentite).
Alla prossima!

Lunga vita e prosperità,
Astrid
   
 
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