“Può, quell’indagatore, rivelare la mia inadeguatezza, le mie bugie, i miei pensieri?
Può proiettarli al di fuori di me, in quel cielo terso così in contrasto con le nubi nere che offuscano il mio essere?”
Ogni incursione nel mondo esterno la spingeva, così, a un repentino ritorno al riparo, perché le pareti bianche non la studiavano, ma riflettevano con lei e la custodivano gelosamente, come un tesoro troppo fragile per poter essere intaccato dalla mente semplice di ciò che è Altro. Queste sensazioni la attanagliavano, che volesse o no, tutte le volte in cui il Mondo la poneva di fronte a una prova, a una nuova forma d’esistenza. Se gli altri, quelli che deludevano, avevano fallito in quella stessa sfida, lei sapeva di non poter fare lo stesso. Ogni sua azione era controllata, ma non capiva mai se da lei stessa.
La morsa d’acciaio che serrava i denti sulla sua serenità la portò al Limite, un luogo in cui la disperazione e la paura ti fanno precipitare fino al punto più basso di te stesso. Una prigione dalle catene di ghiaccio, in cui si è giudici, imputati e carcerieri. Perché dal baratro del Limite si può uscire solo quando si capisce che al Limite ci arriviamo noi tramite noi stessi ed esso va oltrepassato non per arrivare in una nuova dimensione, ma soltanto per tornare alla propria con un vigore nuovo, diverso. Dopo aver superato il Limite ci si sente più intatti, più puri, più pronti. L’Altro, il Mondo, la realtà al di fuori del nostro angolo non fanno più paura e si può allora essere davvero forti. Abbastanza da sapere che chi è forte non lo fa per non essere come i deboli, ma per guardare se stesso e riconoscere di non essere debole nella propria insita debolezza.