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Autore: SoleSun    10/07/2014    0 recensioni
La prima cosa di cui fu consapevole era il buio.
Buio esterno: non un filo di luce arrivava alla sua mente; buio interno: non percepiva il suo corpo. Era, senza nome, senza spazio, senza ricordi. Galleggiava nell'oscurità, nel nulla.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando riaprì gli occhi, presumibilmente la mattina dopo dato che la luce era ancora molto tenue ma andava via via aumentando, si sentiva più lucido, più riposato.

Voleva uscire da lì.

Iniziò a gridare, per cercare di attirare l'attenzione di qualcuno. Ma chi?

I primi suoni che uscirono dalla sua gola furono flebili e rochi come quello del giorno prima. Ma poi man mano che scaldava e faceva vibrare le corde vocali bloccate dal disuso, il volume crebbe, e il suono si fece più limpido. Gridò e gridò nella maschera, ma forse per i troppi strati che impedivano alla sua voce di propagarsi nella stanza, forse perché non c'era nessuno di abbastanza vicino, tutto il suo urlare non ebbe alcun effetto se non quello di stancarlo. Alla fine si arrese e tacque.

Faticosamente mosse le mani intorno a sé per capire la distanza delle pareti di vetro anche nelle direzioni che non poteva vedere, poi le sollevò al petto per tastare l'imbracatura, alla gola per seguire i contorni del sostegno e ancora più su. Il liquido gli arrivava a metà del collo: era sceso rispetto al giorno prima. Probabilmente più sotto c'erano altre crepe. Il fluido che lo circondava sembrava opporre meno resistenza, oggi, come se fosse meno viscoso...o forse era semplicemente lui ad essere più in forze.

Queste considerazioni gli portarono alla mente un altro ricordo: il liquido conteneva in sospensione sostanze nutritive che lui assimilava attraverso la pelle, in quantità sufficiente per durare più di 80 anni. Ricordò di aver letto sul sito dell'esperimento che la quantità di nutritivi che filtrava attraverso la pelle era inversamente proporzionale alla temperatura: da congelato, e anche a 50°C sotto zero ne passava a sufficienza per non far deperire il corpo immobile e addormentato. Ora che si era sciolto, il corpo ne assorbiva di più. Per questo ora era meno debole e più riposato.

Era quindi necessario uscire prima che il liquido colasse fuori del tutto, o sarebbe morto davvero di fame. Si rese conto di non volerlo. Questa nuova, dolorosa rinascita gli aveva messo in corpo la smania di uscire, di vedere cos'era successo, di vivere.

Si concentrò, tornando con il pensiero ai minuti precedenti l'ibernazione.

Quando gli avevano imbracato il torso, aveva sentito un click. Si sforzò di pensare a quel rumore, e gli vennero in mente le parole del tecnico: “L'imbracatura ha una chiusura meccanica progettata sul modello di quelle antiche perché non siamo sicuri che dopo tutti quegli anni nel fluido congelato una consueta chiusura elettronica funzionerà ancora.”

Anche il sostegno del collo ne aveva una analoga.

Sollevò a fatica le mani, tastandosi il petto fino a trovare le cinghie dell'imbracatura e infine la fibbia. Lo studiò goffamente con la punta delle dita, trovando dopo diversi tentativi i punti in cui era cedevole: quelli da premere per aprirlo. Erano in una posizione difficile per lui, poiché la chiusura era fatta in modo che fosse comoda da aprire per qualcuno che stava davanti a chi la indossava, ma pensava di potercela fare. Poi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, riposandole, prima di sollevarle ulteriormente e indagare il sostegno del collo. Qui il fermaglio era di lato e avrebbe fatto più fatica. Nella sua mente iniziò a formarsi un piano: prima avrebbe slacciato il collo, di modo che il resto dell'imbraco lo sostenesse. Poi con una mano avrebbe slacciato il petto, sostenendosi alle corde con l'altra. Non pensava di riuscire a galleggiare a lungo, era troppo debole.

Ora doveva solo capire come aprire o rompere la teca una volta libero. Se avesse rotto la teca in basso, la sospensione nutritiva si sarebbe rovesciata fuori. Se invece fosse riuscito ad uscire dall'alto, il liquido si sarebbe conservato, dandogli la possibilità di rientrarci per sostentarsi ancora un poco se avesse scoperto che fuori c'era qualche problema. Tutto quel silenzio e quell'aria di abbandono non promettevano bene.

Decise di cambiare il piano d'azione: doveva slacciare il fermo del collo per poter muovere meglio la testa e guardare anche sopra e dietro di sé.

A fatica sollevò di nuovo le mani e armeggiò con la chiusura. Le dita impacciate e irrigidite dal mancato uso scivolavano sui minuscoli componenti, non riuscivano a fare forza per premere, complice anche la posizione scomoda e il fatto che il sostegno del collo stesso gli impediva di sollevare del tutto le braccia.

Tentò e ritentò, mentre un senso di impotenza e folle irritazione si impadroniva di lui, rendendo i suoi gesti stizzosi. Avvertiva un prurito in tutto il corpo, una voglia di lasciarsi andare ad urla isteriche. Stringendo i denti tentò un'ultima volta.

Click.

L'apertura scattò. Una pressione sul collo di cui non si era reso conto finora si allentò impercettibilmente. Abbassò le braccia doloranti e si concesse un po' di riposo.

Si svegliò molto più tardi, probabilmente intorno a mezzogiorno. Non sapeva se dello stesso giorno o di chissà quale giorno successivo. Ma ogni volta che si svegliava, si svegliava un po' di più. Si sentiva sempre più forte e lucido.

Il pensiero corse fuggevolmente al passato, ai suoi genitori, a Clara...ma riuscì a scacciare le immagini che gli si stavano formando nella mente. Non poteva permettersi di lasciarsi andare: doveva liberarsi da quella prigione di vetro, uscire, capire cos'era successo al laboratorio. Trovare qualcosa da mangiare e vedere com'era, ora, il mondo fuori.

Era stato un uomo forte e determinato, prima. Prima dell'incidente. Doveva tornare ad esserlo, o sarebbe morto. E dentro di sé ora qualcosa si ribellava al pensiero di morire.

Con mani più forti e dita più sicure aprì di più il collare, senza sfilarlo del tutto. Così poteva girare la testa. Si guardò intorno, ma a parte una visuale migliore sulle teche adiacenti non scoprì nulla di nuovo. Provò a sollevare la testa ma la maschera gli impediva il movimento. Imprecò, frustrato.

Si accorse però che il livello del liquido era sceso ulteriormente nel tempo in cui era stato addormentato, segno che da qualche parte c’era una fessura. Decise allora di togliere anche la maschera. Anche in questo caso dovette armeggiare un po’, riposando un paio di volte le braccia, ma alla fine ce la fece. Sfilando il tubo dalla bocca sentì le mascelle indolenzite che si rilassavano.

Inspirò una boccata di aria dal vago sentore di sale e polvere. Si leccò le labbra: anche esse erano salaticce. Residui della sospensione nutritiva, indubbiamente.

Finalmente riuscì a reclinare il capo all’indietro e a guardare sopra di sé, seppur con qualche difficoltà. I cavi che lo sostenevano e quello cui era appesa la maschera si infilavano in un “soffitto” molto più vicino di quel che pensasse, attraversato da un solco che dal punto in cui sparivano i cavi tagliava il coperchio verso destra. Se tirava su le braccia il più possibile consentito dal sostegno del collo, lo sfiorava.

Afferrò la maschera, per usarla come “prolunga” e provare a spingere i pannelli che chiudevano la teca. Sollevò di nuovo le braccia, che iniziavano ad essere indolenzite, e tentò di spingere. Sembrava che qualcosa si muovesse.

Decise di abbassarle nella sospensione nutritiva per riposarle un pochino prima di ritentare.

Nel farlo, lasciò vagare i pensieri e iniziò a prendere una coscienza molto più netta della parte inferiore del suo corpo. Iniziava ad avere freddo. Probabilmente l'intorpidimento del congelamento aveva abbandonato del tutto le sue estremità, e ora si rese conto del leggero tremito che lo pervadeva, di come teneva contratti i muscoli delle spalle e del torso per contrastare il freddo, della sensazione della pelle che si raggrinziva sempre di più al contatto con l'acqua. Non solo: percepiva il fastidio dello stare appeso tutto quel tempo, nonostante l'imbracatura studiata per essere il più confortevole possibile.

Concentrato sui pensieri dolorosi di prima, e sugli sforzi per uscire, nei momenti di veglia precedenti aveva dato poco ascolto al suo corpo, che ora iniziava a protestare per la situazione in cui era posto.

Doveva uscire di lì, e in fretta. O l'essere sopravvissuto alla morte di Clara, l'aver scelto di farsi congelare per tentare di rifarsi una vita, sarebbero stati inutili.

Era sempre più chiaro in lui che nonostante il dolore quasi insopportabile, voleva vivere. E che era stato quell'istinto di sopravvivenza a indurlo ad aderire all'esperimento sull'ibernamento.

Sapeva che avrebbe vissuto per sempre con un peso sul cuore, col ricordo del sorriso di Clara che gli trafiggeva il petto ad intervalli regolari, ma poteva accettarlo: finché lui era in vita, sarebbe vissuta anche lei attraverso i suoi ricordi.

Una nuova lacrima gli solcò una guancia, ma stavolta era un pianto di accettazione.

Quando il dolore fu tornato a livelli accettabili, provò di nuovo a sollevare le braccia, afferrare la maschera e spingere verso l'alto. Qualcosa cedette per un istante, poi il peso vinse perché lui non aveva dato una spinta sufficiente, e il soffitto ricadde.

Ma ora sapeva cosa fare.

Si aggrappò alle corde con una mano, mentre con l'altra puntava la maschera contro il soffitto. Scalciando con le gambe si diede lo slancio per sollevarsi e spinse con tutte le sue forze. Il coperchio si sollevò di qualche centimetro poi prese a scorrere di lato, verso sinistra. Mancando una spinta in quella direzione, esso si bloccò e cominciò a tornare indietro.

L'uomo allora raccolse di nuovo le forze e spinse verso sinistra. Il coperchio riprese a scorrere e, una volta apertosi del tutto, ricadde di lato andando a sbattere contro il fianco della teca, rimanendo lì appeso.

Il colpo fece riverberare tutto il contenitore,e nuove crepe si formarono sul vetro.

Doveva uscire prima che si rompesse del tutto: se si fossero staccati pezzi affilati in alto, si sarebbe tagliato e non avrebbe avuto modo di fermare un'eventuale emorragia.

Sollevando di nuovo lo sguardo vide che i cavi che lo sostenevano e il tubo della maschera erano appesi ad un soffitto molto lontano. Doveva cercare di risalirli per un po' per potersi aggrappare al bordo superiore della teca e uscire. E per poterlo fare si doveva togliere del tutto il sostegno del collo, che gli impediva di sollevare bene le braccia. Armeggiò un po' con le due parti, riuscendo infine ad aprirle.

Scalciò di nuovo con le gambe, per quanto permettevano gli stretti confini della teca, e spostò una mano più su lungo i cavi. Altro movimento delle gambe, altra mano più su.

Lentamente, faticosamente si sollevò, pochi centimetri alla volta. Alla fine si ritrovò col viso all'altezza del bordo superiore.

Stringendo convulsamente le corde con una mano, protese l'altro braccio verso destra. Sì! Riuscì ad afferrare il bordo. Senza mollare le corde, e cercando di sostenersi un po' con l'aiuto delle gambe che scalciavano in un liquido che ora gli arrivava poco più supra dell'ombelico, si protese sempre più verso la parete, fino a riuscire ad agganciarvisi con l'ascella.

Rimase lì parecchio tempo, ansimando per lo sforzo ma soddisfatto di avercela fatta. Ora doveva riuscire a sganciarsi – con una mano sola! - dall'imbracatura che lo tirava verso il centro della teca, e ad oltrepassare il bordo. Più semplice a dirsi che a farsi!

Le dita goffe e indolenzite dallo stringere i cavi faticarono a trovare il fermaglio dell'imbraco, per non parlare dell'aprirlo. Ci tentò per quelle che parvero ore, mentre un senso di irritazione e di angoscia prendeva sempre più piede in lui, rendendo i suoi movimenti stizzosi e meccanici.

Gridò di frustrazione, e forse lo sfogare la tensione in quel modo gli fu d'aiuto: al tentativo successivo, la chiusura cedette, la fibbia si slacciò e la costrizione al petto si fece meno forte.

Rabbiosamente l'uomo si contorse per liberarsi dal fastidioso impiccio, cambiando con non poco sforzo il braccio col quale era appeso al bordo.

Alla fine, stanchissimo, riuscì a togliersi di dosso tutte le cinghie.

Si riposò ancora, valutando come fare per oltrepassare la cima della parete. Decise di raggiungere il bordo opposto, dove il coperchio ribaltato e il meccanismo cui era attaccato rendevano la superficie di appoggio più ampia.

Faticosamente, poco alla volta, percorse tutto il bordo fino a raggiungere la meta. Dopo una nuova fase di riposo puntò i piedi sui lati della teca, scoprendo che se spingeva con sufficiente forza l'attrito era tale da non farli muovere troppo, offrendo un puntello che si rivelò sufficiente per sollevarlo con l'ombelico poco più in alto del bordo.

Si reclinò come un sacco di patate, poi con un ultimo sforzo si girò di sbieco sollevando una gamba, che riuscì a sollevare oltre il bordo. Si ritrovò semisdraiato a cavalcioni di vetro e coperchio, coi cardini che gli premevano fastidiosamente contro il torso e il pube.

Ansimando, si abbandonò in quella posizione, con tutti i muscoli che tremavano per gli sforzi e il freddo. La luce proveniente dal buco si stava facendo via via sempre più rossastra, segno che il tramonto dei soli gemelli era in arrivo. Non poteva restare lì sopra col buio, o sarebbe caduto.

Raccogliendo per l'ennesima volta le forze, afferrò il bordo con entrambe le mani, stringendolo convulsamente con le dita. Sperò ardentemente che i muscoli provati da tutti gli sforzi compiuti per arrivare fino a lì fossero in grado di reggere il suo peso per qualche istante.

Fece un respiro profondo, e lasciò scivolare giù le gambe, cercando di frenarsi contro il coperchio.

Prese una botta tremenda col fianco contro una sporgenza, poi proseguì la corsa facendo un pendolo che gli fece quasi perdere la presa, ma con la pura forza di volontà impose alle mani di restare dov'erano. Rimase appeso a penzoloni, con la sporgenza del coperchio che gli affondava nello stomaco, i piedi ad un metro da terra e gli arti superiori che urlavano per lo sforzo. Non aveva scelta, doveva lasciarsi cadere. Il rischio di slogarsi o rompersi una caviglia, di incrinarsi un tallone, di cadere all'indietro e sbattere contro la teca tutta crepata dietro di sé con conseguenze nefaste era altissimo, ma non poteva resistere a lungo in quella posizione.

Aprì le mani.

Cadde.

L'impatto col suolo fu tremendo per il suo corpo disabituato a reggere il peso sugli arti inferiori. Le ginocchia si piegarono per il contraccolpo e lui finì in avanti, picchiando la fronte e il naso contro il vetro, e poi ricadde all'indietro, sbattendo la schiena e la nuca sul pavimento.

Vide le stelle, tutta la stanza prese a girargli intorno. Rimase così, senza muoversi, sentendo le proteste di tutto il suo corpo che gli martellavano nella testa ammaccata.

Il respiro usciva rotto, e lui emise un gemito che era quasi un vagito.

Molto tempo dopo, con la stanza ormai quasi immersa nel buio, si rese conto di essere steso su qualcosa di simile a un tappeto. Senza pensare, agendo solo d'istinto, se ne arrotolò un lembo addosso, si raggomitolò e si lasciò andare ad un sonno esausto.

  
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