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Autore: _Leviathan    10/07/2014    4 recensioni
Frank Iero e Daisy Snowdon sono migliori amici. Frequentano il liceo a Westwood, nel Minnesota, e hanno un compito da portare a termine: Scattare delle fotografie che facciano vincere loro il concorso di fotografia della scuola.
Daisy è sicura di aver trovato la location perfetta: L'ex Ospedale Psichiatrico di Westwood.
Solo nel momento in cui Daisy e Frank si recheranno lì, si renderanno conto che quel luogo nasconde un terribile segreto.
Genere: Horror, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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***Un grazie di cuore alle persone che hanno recensito il primo capitolo, mi avete aiutata molto e vi siete meritate tanti biscottini al cioccolato *-*
Okay no, seriamente, grazie mille.
 
Eccoci qua con il secondo capitolo, yay! Spero vi piaccia e... niente, non mi va di aggiungere altro.
Enjoy, leggete, e recensiteeee <3 ***




 
Capitolo due.



 
Mossi i primi passi esitanti all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico. Non volava una mosca, era come se il tempo lì dentro si fosse fermato per sempre.
Frank non si era ancora mosso. Sbuffai e tornai indietro, lo trascinai all’interno per un braccio.
Il luogo in cui ci trovavamo in quel momento era, all’apparenza, ciò che un tempo doveva essere stato il salone d’ingresso. Non c’era molto all’interno, solo muri bianchi tutti scrostati e ammuffiti e qualche vecchio mobile mangiato dai tarli.
La luce fioca che penetrava dai finestroni stava svanendo quasi del tutto, ma per gli scatti che avevo ideato avrei avuto bisogno del buio assoluto e della luce di una torcia, che Frank aveva appositamente portato da casa.
I nostri passi rimbombavano all’interno dell’edificio, rendendo il tutto ancora più inquietante e… in qualche modo solenne.
Forse Frank aveva ragione ieri. Forse non era stata un’idea brillante.
Immediatamente una vocina nella mia testa, quella che io chiamavo la-Daisy-ragionevole-con-i-controcoglioni, mi ordinò di zittire certi pensieri e di concentrarmi sul mio lavoro.
Frank si diresse verso uno dei finestroni e spostò qualche mobiletto per creare la prima scenografia. Posizionò diversamente le tende consumate della finestra, poi tornò verso di me. Mani sui fianchi, fronte corrugata, sguardo concentrato.
- Che ne pensi? –
Esaminai la composizione per qualche secondo. Decisi che mancava qualcosa.
Feci una veloce ispezione dell’atrio e trovai, su un bancone marcito, un piattino di ceramica sul quale giaceva una rosa appassita e rinsecchita.
Presi piattino e rosa e li posizionai sopra uno dei mobiletti che facevano parte della composizione. Tirai fuori dallo zaino una bottiglietta d’acqua diluita con del colorante rosso, e la versai all’interno del piattino.
Sangue. Sembrava sangue, esattamente come avevo sperato. E quel tocco donava alla scena una macabra perfezione, come se quel luogo fosse stato sede di un rito sacrificale.
Mi affiancai a Frank. – Penso che sia perfetto. –  
Miss modestia.
Ammirai per qualche istante l’opera. Le tende ingrigite cadevano come mani cadaveriche sui mobili, lambendone appena la superficie, e la luce fioca che penetrava dalla finestra conferiva alla scena un’aria spettrale.
Il tutto aveva un’aura di… morte.
- Per questo scatto non ci serve la torcia, no? – Fece Frank.
- No, infatti. –
Tirai fuori dallo zaino la macchina fotografica e il piccolo cavalletto. Trovai dopo qualche minuto un’inquadratura interessante, che feci controllare anche a Frank e che lui approvò.
Scattai le prime fotografie.
Quando finii richiusi il cavalletto e presi in mano la macchina fotografica.
- Bene. Io direi di fare un giro ai bagni e alle stanze dei pazienti. Che ne pensi? –
Frank annuì. – Certo. Scattiamo qualche foto lì e poi andiamo. –
Sollevai il lato destro della bocca e lo guardai di sbieco. – Te la stai facendo sotto, Frankie? –
Scosse la testa e sorrise, colpendomi il braccio con un pugno leggero.
 
Trovammo le stanze al piano superiore. Per quanto io avessi insistito per fermarci ed immortalare anche le scale, Frank non aveva voluto sentire ragioni.
“Non rientra nel nostro progetto, D. Non complicare le cose.”
E così ci eravamo diretti alle stanze.
Le porte erano quasi tutte aperte. Vecchie, scrostate e arrugginite. Molte non erano neanche più sui loro cardini.
Trovai la stanza 66, mi fermai sotto lo stipite.
- Frank? –
- Mh? –
- Non è che hai un pennarello? O qualcosa con cui scrivere? –
Frank seguì il mio sguardo, e dall’espressione che fece quando vide il numero 66 capii che aveva compreso le mie intenzioni.
Si mise a rovistare nello zaino. Dopo qualche minuto mi si avvicinò con un pennarello nero in mano. – Oggi sei fortunata, D. –
Si mise in punta di piedi e cominciò a disegnare un altro sei accanto al numero della stanza. Dovetti soffocare una risata. Vedere Frank Iero, non certo conosciuto per essere Sua Altezza in persona, cercare di allungarsi il più possibile per scrivere sullo stipite di una porta, era uno spettacolo abbastanza comico.
Purtroppo io non ero più alta di lui. Misuravo la bellezza di un metro e sessant’uno d’altezza, quindi non avrei potuto fare nulla per aiutarlo. E poi, era decisamente più allettante l’idea di restare lì e prenderlo in giro silenziosamente.
Dopo un paio di minuti Frank terminò la sua opera di riadattamento dello stipite della porta, e io scattai le foto. Non c’era bisogno di aggiungere o cambiare altro, era già tutto perfetto. La targhetta arrugginita e sporca, il muro bianco.
Ne scattai qualcuna anche da un’angolazione dalla quale si intravedeva anche l’interno della stanza, poi qualche altra nel corridoio.
Quando entrammo nella stanza per gli ultimi scatti della sezione, un senso di claustrofobia mi prese immediatamente la gola.
La stanza era… beh non si poteva dire “il minimo indispensabile”, perché era assolutamente meno del minimo.
Piccola, minuscola. Le pareti erano talmente spesse che una volta chiusa la porta tutti i suoni provenienti dall’esterno non sarebbero mai riusciti a penetrarvi. L’unica finestra, in alto – irraggiungibile per due persone della statura di me e Frank – doveva essere al massimo di dieci centimetri per quindici.
I resti arrugginiti di un letto in ferro battuto erano ammucchiati sulla sinistra. Per il resto – a parte qualche matassa di polvere e mucchi di non-so-cosa-ma-credo-sia-terra sul pavimento – non c’era altro.
Non riuscivo a capacitarmi di come certe persone avessero potuto vivere lì.
Vivere… non era l’espressione più adatta.
Mi abbracciai lo stomaco per scacciare i brividi e guardai Frank. L’espressione stampata sul suo volto era la stessa che si rifletteva sul mio.
Il pensiero ricorrente nella mente di entrambi? Muoviamoci e torniamo a casa.
Come prima, non ci fu bisogno di cambiare nulla per conferire un’aria spettrale a quella stanza. L’unica cosa da sistemare era la luce, che grazie al magico intervento della torcia di Frank rese il tutto ancora più perfetto. Le ombre aggravate dalla luce accecante della torcia creavano dei chiaroscuri mozzafiato.
Presi la macchina fotografica, la sistemai sul cavalletto. Tolsi il copri obiettivo e misi a fuoco. – La vittoria è nostra. –
Scattai.
Fu in quel momento che le cose cambiarono.
Un vetro che si infrangeva al suolo. Il rumore di qualcuno che correva.
Tirai un urlo e lasciai cadere la macchina fotografica, maldicendomi mentalmente subito dopo per averlo fatto. La raccolsi e mi voltai verso Frank.
- Anche tu hai…? – Non c’era bisogno di finire la frase, il suo volto cinereo confermava che si, quei rumori non erano stati frutto della mia immaginazione.
Merda. Chi cazzo c’era lì dentro?
- Da dove provenivano? – Chiesi in un soffio.
Frank scosse la testa. – Non ne sono sicuro, probabilmente dall’atrio. –
Uscì dalla stanza e si affacciò sul corridoio.
- E ora dove cazzo vai?! – Lo raggiunsi e gli strinsi il braccio.
Si, me la stavo facendo sotto.
- Dobbiamo andare a vedere. –
- NO! – Strillai. Il tono della voce era salito di un paio d’ottave. – Lo sai meglio di me che nei film dell’orrore il coglione che va a vedere chi è che fa rumore è il primo a lasciarci la pelle. –
Mi guardò come se fossi pazza. Mi posò entrambe le mani sulle spalle.  – Daisy Snowdon. Questo non è un film dell’orrore. – Pronunciò la frase con una lentezza esasperante, come se fossi stata una rincretinita con qualche problema mentale.
Mi scrollai di dosso le sue mani e lo guardai storto. – Frank Iero. – Era arrivato il mio turno di parlargli in quel modo. – Siamo in un fottuto ex Ospedale Psichiatrico. Magari non ci girano mostri ma la gente che frequenta questi posti di notte solitamente non è più amichevole di Freddy Krueger. –
Dove diamine era finito il ragazzino cacasotto di dieci minuti prima?
Frank roteò gli occhi. – E va bene. Ma dovremo comunque uscire di qui prima o poi… – Gli premetti una mano sulla bocca per farlo stare zitto.
- Prima o poi?! Noi ce ne andiamo da qui subito. –
Continuò come se non mi avesse sentito (e come se non avesse una mano spiaccicata sulla bocca): – … e quindi è probabile che incapperemo comunque in quella cosa.-
Sollevai un sopracciglio. – Chiamarlo quella cosa ha avuto l’effetto di terrorizzarmi ancora di più, sappilo. –
Come odiare Frank Iero, parte due. Un giorno ci avrei fatto un tutorial.
Cominciò ad avanzare per il corridoio deserto con me alle calcagna. Non avevo alcuna intenzione di stargli più lontana di dieci centimetri.
Il fascio della torcia puntata davanti a noi era ormai l’unica fonte di luce. Non sapevo che ore fossero, ma doveva essersi fatto tardi.
Arrivammo alla fine del corridoio e scendemmo le scale.
Avevamo raggiunto l’atrio facilmente, ora non ci restava che attraversarlo e imboccare la porta. Non mi importava una beneamata minchia del fatto che alle latrine non ci avevamo neanche messo piede.
- Aspetta D. E i bagni? –
Ecco.
- Chissenefrega dei bagni Frank, voglio andarmene da qui. –
- E dai, quanto ci metteremo? Dieci minuti? –
- Dimentichi che dovremmo anche trovarli, i bagni. –
- Va bene, proviamo di qua. – Fece dietrofront e mosse il primo passo nell’optata direzione dei bagni. Lo fermai immediatamente parandomi davanti a lui.
- Non mi hai sentito? Voglio andarmene. –
Aprì la bocca per ribattere, ma l’urlo che sentimmo subito dopo gliela fece richiudere immediatamente.
L’urlo continuava, sempre più stridulo e soffocato. Terrificante, agghiacciante.
Era una voce femminile.
Spalancai la bocca. Volevo urlare anch’io, ma la voce mi rimase imprigionata in gola.
- AIUTO! QUALCUNO MI AIUTI! –
Frank imprecò, cominciò a correre nella direzione della voce. Lo seguii tra stanze e corridoi bui, inciampai più volte in assi di legno e ferraglia che a causa del buio pesto non riuscii a vedere. Si fermò di botto e gli andai a sbattere contro. Le urla erano terminate, regnava il silenzio più totale.
Mi venne voglia di coprirmi le orecchie tanto era fastidioso ed insopportabile.
Avevamo entrambi il fiatone. I nostri occhi erano colmi di domande, ma nessuno dei due osava aprir bocca e dar voce a quei pensieri.
Poi le urla ricominciarono.
- Di qua! – Disse Frank, e ricominciammo a correre.
Per ironia della sorte, sbucammo alle latrine.
Il mio primo pensiero fu: Cazzo, avevo ragione. Non dovevamo venirci.
Persi l’equilibrio, se Frank non mi avesse sostenuta sarei stramazzata al suolo.
Era uno spettacolo orribile, mi sembrava di essere stata catapultata in uno di quei film dell’orrore che tanto amavo. La parete di fronte a noi era quasi completamente vermiglia a causa di tutto il sangue che l’aveva imbrattata.
Ed eccola lì, la ragione per cui eravamo finiti in quel posto. Era una ragazza – o meglio, lo era stata – ma da ciò che restava di lei non avrei saputo dire quanti anni aveva. Pezzi del suo corpo erano sparsi per tutta la stanza, l’odore metallico e penetrante del sangue mi fece venire un altro capogiro.
Ma non erano i resti di quella ragazza la cosa più terrificante. Era il suo aguzzino.
Potevo decretare solo una cosa a riguardo: Qualsiasi cosa fosse, non era umano.
Le sembianze erano quelle di un umano, ma c’era qualcosa che non andava. Gli arti erano troppo lunghi, il corpo troppo magro, sembrava che la pelle fosse stata stesa direttamente sulle ossa. E i rumori che faceva con la bocca… somigliavano più a dei  grugniti.
Ah, dimenticavo. Stava mangiando la ragazza.
E grazie a Dio non si era accorto di noi. Non ancora, perlomeno.
Ero pietrificata, non riuscivo a muovere un muscolo. Non so come, ma in qualche modo trovai la forza di stringere debolmente la mano congelata di Frank.
Indietreggiammo insieme cercando di non fare il minimo rumore. Probabilmente quella fu l’unica volta che pregai Dio in tutta la mia vita, e a quanto pare le mie preghiere furono ascoltate, visto che dopo qualche minuto interminabile ci ritrovammo fuori dalle latrine.
Mano nella mano ci mettemmo a correre, percorremmo a ritroso tutti i corridoi e sbucammo nell’atrio. Non ero mai stata tanto felice di rivedere un luogo in vita mia.
Imboccammo la porta e fummo fuori.
Mi appoggiai al muro e vomitai.
 
 


 
   
 
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