L’Angelo
Questa è bella. Seriamente, mi sto trattenendo dal ridere. Marbas mi ha mentito. Marbas mi ha ingannato. E’ stata tutta una bugia, una messinscena. Non sono maledetto. Non lo sono più. Non lo sono mai stato. Mi ha fatto uno scherzetto. Che ridere. E’ come se avessi vissuto per anni con del piombo nel petto, ad appesantirmi sempre più fino ad esserne quasi schiacciato e poi mi fossi reso conto che quello non è piombo, che si tratta solo di ossa. E che quello è il normale peso del corpo, e che è troppo per me. Io non ho mai avuto nulla che non andasse. L’amore di Ella per me non è stata la causa della sua morte. Io non ho mai avuto bisogno di farmi odiare. Non ho mai avuto bisogno di andare nelle taverne, o meglio, di andare in giro senza meta di notte, da solo, per ritornare all’Istituto la mattina con mille e uno storie sulle mie scorribande. Magnus dice che ho ancora tanto tempo davanti e che cinque anni non sono niente però … ho perso tutto, in questi cinque anni. In realtà, non ho mai avuto nulla. Ora, è venuto il momento di conquistare ciò che mi è stato sempre precluso. Tessa.
Potrò parlarle, baciarla. Tutto senza quel terrore che mi assilla da così tanto. Mi sento strano. Mi sento bene. Non mi sentivo così da anni. Nonostante percepisca il tempo perduto come irrecuperabile, sono pieno di possibilità. Voglio dire tutta la verità a Tessa. E anche a Jem. Con lui sarà difficile, perché dovrò ammettere il mio peggiore peccato, però non ho intenzione di essere un codardo. Lui non merita un codardo come parabatai.
E’ buio, ma sono solo le sei. Un’idea mi balena in mente e non ho intenzione di starci a pensare troppo. Basta pensare. Non voglio più calcolare nulla; non voglio più dirigere uno spettacolo di burattini in cui io sono anche spettatore e strumento.
Corro verso Piccadilly Circus. La libreria è aperta. Con la sicurezza dettata da anni di incursioni in questo luogo meraviglioso mi avvicino allo scaffale dei romanzi degli autori più in voga. Le copie di Dickens, ovviamente, svettano dove qualsiasi occhio può cadere. Trovo una bella edizione di “Racconto di due città”, nuova con un’elegante rilegatura. Sfoglio qualche pagina per assicurarmi che sia in buone condizioni e vado a pagare. Ringraziando l’Angelo, ho sempre dei soldi in tasca.
Nonostante l’oscurità della sera, rischiarata da qualche lampione, la strada verso l’Istituto non mi è mai parsa tanto luminosa.
Le massicce porte si aprono sotto il mio tocco e corro in camera mia. Come uno scrittore totalmente dominato dalla sua arte, afferro la stilografica e inizio a tracciare parole che, senza attraversare la mente, dal cuore si riversano sulla pagina, riempiendola di ghirigori neri. Tutto ciò che ho provato fin da quando l’ho conosciuta, si riversa nel nostro linguaggio comune: pura e semplice parola scritta. E’ la seconda dedica che le scrivo. Se in quella su Vathek ero in cerca di perdono e tentavo di strapparle un sorriso che mi avrebbe scaldato il cuore per i giorni successivi, in questa ho riversato sentimenti che ho dovuto chiudere in gabbia per troppo tempo. Anche se, pensandoci bene, su quel balcone il sentimento c’era e come, con o senza bibite fatate. Sorrido e arrossisco a quel ricordo. La schiena contro la sedia, lo sguardo posato sul soffitto, un sorriso da idiota stampato sul volto. Potrebbero anche passare i demoni a distruggere ogni cosa. Sorriderò per sempre.