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Autore: Gan_HOPE326    30/08/2008    3 recensioni
Corri, piccola principessa. Corri fuori dalla tua stanza, corri nel giardino. Corri tra la nebbia e le siepi. Corri tra le statue e i fantasmi. Non temere, non pensare, non guardare indietro.
Tu corri, piccola principessa senz’anima.
Genere: Dark, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore Gan_HOPE326

Storia vincitrice del secondo girone dell’X-Contest sul forum. In questo caso, il “prompt” era costituito dai tre personaggi protagonisti (la Morte, l’Angelo e la Principessa), da un colore a scelta (nel mio caso il bronzo), da una citazione (ed è la “preghiera” Now I lay me down to sleep) e, se lo si voleva, da una canzone (io ho preso Labyrinth di Elisa). Nient’altro da dire… leggete e commentate!

 

Don’t you ever trust

di Gan_HOPE326

 

Con le sue mani rugose, dai gesti secchi, gesti affettuosi e severi allo stesso tempo, la vecchia adagiò la ragazzina sul soffice materasso; le rimboccò le coperte, rosa confetto, cariche di ricami e pizzi; accese la luce di un’esotica lanternina velata di carta di riso e spense quella del grande lampadario di cristallo; con un brusco scarto del braccio scacciò un’evanescente nuvoletta ridacchiante, uno sciocco spiritello che indugiava là intorno; raccolse dal tappeto due grossi pupazzi di peluche, un orsacchiotto azzurro e un coniglione bianco latte per posarli sul letto; infine, si sedette sul letto lei stessa.

La bambina la fissava immobile, taciturna, con due occhi dalle pupille strette e le iridi di un pallidissimo colore azzurro.

-         E’ ora di dormire, signorina.

La ragazzina non rispose ma capì. Si gettò sul cuscino di botto, chiudendo gli occhi.

-         No, signorina! Prima la preghiera della notte, non ricorda?

Quella si risollevò subito. La vecchia le prese le mani tra le proprie, superò un po’ la resistenza della piccola e alla fine gliele giunse, tenendole strette, in un gesto goffo che di pio aveva ben poco. Intonò le parole di una vecchia preghiera per bambini, quasi una filastrocca. La piccola la ascoltava e lasciava ondeggiare il capo, seguendo la musica delle parole, più che il loro significato.

-         Now I lay me down to sleep…

La mia anima, nel letto…

-         …pray the Lord my soul to keep.

o Signore, è al tuo cospetto.

-         If I die before I wake…

O Signor, l’anima mia

-         …pray the Lord my soul to take.

…se morissi porta via.

La vecchia lasciò le mani della ragazzina e si rialzò. Andò alla porta, dove si girò un’ultima volta verso il letto.

-         Buona notte, signorina Hime. – disse.

La risposta fu solo un sorriso. La vecchia allontanò ancora una volta l’insistente spiritello di prima, che non desse fastidio al sonno della signorina!, dopodichè uscì e richiuse la porta dietro di sé.

 

Ogni grande famiglia ha un piccolo segreto di cui vergognarsi, da tenere nascosto: e quello degli Harrod sei tu, Hime.

Sei una splendida bambina, certo, di cui ogni padre sarebbe orgoglioso. Hai quei lunghi capelli neri e lisci, una pelle chiarissima e perfetta, e soprattutto quei magnifici occhi, color del cielo d’inverno, color del ghiaccio. Ma tu non parli. Non parli mai, non l’hai mai fatto, non comunichi nemmeno coi gesti, magari sorridi, ogni tanto, ma appena appena: chissà se sei davvero allegra, quando lo fai, o se è solo quello che sembra, uno sciocco, vano movimento delle labbra, senza significato. Tu non parli. Tuo padre voleva davvero bene alla mamma, aveva fatto di tutto per farla accettare ai propri pari, ma poi lei se n’è andata, e gli ha lasciato te, e tu continuavi a non parlare, e la gente ha cominciato a dir male, a dire che quegli occhi troppo a taglio erano un chiaro segno, che dovevi essere mongoloide di sicuro. Che sciocche persone. Quegli occhi li hai ereditati da tua madre, che veniva dall’Oriente, come anche quella pelle di neve, e come il tuo nome. Hime: nella sua lingua significa “principessa”. Tu eri la sua principessa. Ma poi lei se n’è andata. E la gente continuava a dir male. E tuo padre, tuo padre non la reggeva più quella situazione. Allora ha detto a tutti che eri morta (e nessuno si è sorpreso: si sapeva, che eri malaticcia); poi ti ha chiuso qui, nella stessa casa in cui sei nata e in cui sei sempre vissuta, in una stanza da sogno, tra pupazzi e giocattoli d’altri tempi. Tanto tu che ne sai, piccola principessa silenziosa? Per te va bene tutto. Ti ha sepolta viva, e poi, per punirsi, ha sepolto anche stesso. In questa stessa casa vive anche tuo padre, sta sempre seduto nel grande salone fumando la pipa, o ripercorre passo dopo passo i corridoi sulle cui pareti troneggiano i ritratti degli antenati. Fuma, cammina, ricorda, rimpiange. Questa casa è sempre stata un po’ fatata; qui nel bel mezzo della brughiera, tra la nebbia, i fantasmi sono di casa. Ma da quando siete entrambi chiusi qui dentro la nebbia si è fatta più densa e tanti spiriti senza casa sono venuti qui, attirati dal sapore della malinconia. Ora lontani antenati e anime insolenti e plebee sono un po’ ovunque. Sbucano fuori se prendi un libro dalla biblioteca, sonnecchiano tra le pentole della cucina e giocano a nascondino in mezzo alle siepi del parco.

A te non importa nulla, piccola principessa. Per te è tutto normale. In realtà, tu, tu che non parli mai, tu non hai bisogno di pregare il Signore perché preservi la tua anima, o la prenda con sé.

Tu l’anima non ce l’hai.

 

A notte fonda, Hime era sveglia e fissava i disegni della carta da parati stesa sul soffitto. Guardava creature fantastiche e curiosi ghirigori inseguirsi a vicenda, li ripercorreva avanti e indietro, avanti e indietro, muovendo lentamente il capo. Non dormiva molto, di notte. Non era mai davvero stanca. Passava le sue giornate su quel gran lettone, oppure a terra, sul tappeto, armeggiando pigramente coi pupazzi. Ogni tanto si dondolava sul cavallo di legno, qualche volta apriva i libri di fiabe per rimirarne le figure. Capitava anche che si appisolasse qua e là, così non aveva mai sonno. La sua vita era un continuo dormiveglia.

Fuori dalla finestra c’era una luna piena e sfocata dai pesanti banchi di nebbia che circondavano la villa. Da sotto le ante filtrava una nebbiolina azzurra e sottile. Un po’ per via della luna, un po’ grazie alla lanterna accesa dalla governante, c’era nella stanza abbastanza luce per potersi alzare senza rischi. La ragazzina saltò giù dal letto e corse a prendere dal ripiano di un cassettone il suo carillon preferito. Fece girare la chiave per caricarlo; uno spirito minore saltò fuori inviperito. Era quasi rimasto incastrato negli ingranaggi. Squittì qualche imprecazione indistinguibile, quindi svanì. Con il viso appoggiato sui gomiti, Hime stette a guardare la danza di animali meravigliosi che animava il carillon: un girotondo di elefanti, giraffe, leoni e altre bestie ancor più incredibili. La musica era un lento ritmo africano unito a ruggiti e barriti meccanici.

L’orologio a pendolo appeso alla parete schioccava i secondi, toc, toc, toc.

La nebbiolina azzurra che stava entrando dalla finestra si stava facendo più consistente. Adesso era delle dimensioni di un bambino, ma la sua forma non era ben definita. Era un po’ come una persona, ma anche un po’ come uno squalo, o forse un gorgo marino. L’unica cosa certa era che aveva un occhio, questo sì. Uno solo. La nuvola diventava via via più grande, e man mano che si spandeva nella stanza l’aria si riempiva del suo odore. Palude, torba e marciume. Cresceva ancora e ancora.

Hime si voltò.

L’occhio la fissava, spalancato e tremante. Qualcosa in quella nuvolaglia mefitica assunse l’aspetto di un ghigno. La ragazzina non indietreggiò, anzi allungò la mano verso la cosa, che ora estendeva verso di lei ampi pseudopodi bluastri. Toccò il gas e all’istante ritrasse la mano con uno squittio. Bruciava, quella roba, come una fiamma accesa o un acido. Quando osservò il proprio palmo vide una lunga striscia di pelle nera, che fumava. Alzò ancora lo sguardo.

-         Ah! – ghignò la presenza – Hai paura di me, adesso?

Il cuore le batteva forte in petto, più forte che mai. Sì, l’aveva, di sicuro. Ma non fece nemmeno un passo indietro.

-         Hai paura… e ti piace. Bene! – fece la nuvola, e rise sguaiatamente.

Hime provò ad allungare la mano ancora una volta. Lo spettro sfuggì il contatto e rifluì di nuovo attraverso la finestra.

-         Ah – ha! Se ne vuoi ancora, devi seguirmi. Vieni fuori in giardino. – disse. Aveva una voce storta, maligna.

La ragazzina non aspettò un solo istante. Corse ad aprire la porta della stanza e si diresse verso le scale, per scendere giù, uscire nel parco. Ogni tanto ci andava da sola a giocare: nessuno glielo impediva, perché comunque non le sarebbe mai saltato in testa anche solo di camminare fino ai lontani cancelli della tenuta. Ma di notte non c’era andata mai. Scese al piano di sotto, attraversò la cucina per passare dalla porta di servizio. Lo spirito di sir Michael Harrod, accanito fumatore, si era incarnato temporaneamente in un bricco d’acqua calda sui fornelli, che ora sbuffava allegri soffi di vapore. Hime passò oltre, si diresse verso la porta, inseguendo il gusto di qualcosa di nuovo, di imprevisto, di pericoloso.

 

Ogni grande famiglia ha un antenato illustre di cui andare orgogliosa: e quello degli Harrod è senz’altro lord George Philip Harrod.

Nato nel 1540 nella città di Sheffield, morto serenamente nel proprio letto, circondato dai familiari, nel 1623, fu amato, rispettato e apprezzato da tutti coloro che lo conobbero. Uomo di grande cultura e intelligenza, letterato erudito, curò un’edizione oggi considerata particolarmente preziosa e ricercata delle opere di John Milton; scrisse inoltre diversi pamphlet contenenti considerazioni sull’argomento del modo di trattare con gli indigeni nel Nuovo Mondo, che gli attirarono l’ammirazione di alcuni e il biasimo di altri per la modernità e la liberalità del suo pensiero. Era inoltre pittore e incisore, e alcune delle sue illustrazioni più celebri si possono ammirare proprio nell’edizione di Milton sopra citata.

Questo, a grandi linee, dice oggi l’Enciclopedia Britannica sulla figura di George Philip Harrod. Ignorano, i curatori dell’Enciclopedia, che il suo spirito ancora aleggia nella grande magione di famiglia, la stessa in cui scrisse le sue opere più famose, in cui realizzò le sue incisioni e in cui infine spirò. Passa i suoi giorni incarnato in un’alta statua di bronzo raffigurante un angelo guerriero, un po’ defilata, mezza sommersa dalle fronde. C’è, sul retro della casa, un grande spiazzo ammattonato, ora insidiato dalla vegetazione sempre più selvaggia ed incolta, e sul suo perimetro stanno una decina di piedistalli. Dalla sommità di uno di essi, lord George Philip Harrod veglia con occhi sereni sul parco, levando la spada in un gesto di trionfo.

Veglia su Hime, anche. Lo considera un suo dovere, in certo qual modo; ma sicuramente è un dovere che ama compiere. Lo affascina in modo indefinibile la vista di quella ragazzina, della sua semplicità, della sua innocenza. Saggio e colto com’è, trova rinfrescante anche solo osservare i suoi giochi vivaci e vani. Scende spesso dal piedistallo e le cammina a fianco, passa del tempo assieme a lei. Non smette mai di intenerirsi alla vista della purezza di Hime: che è capace di stupirsi e sgranare gli occhi di fronte al battito d’ali di una farfalla anche se non muove un ciglio vedendo una statua di bronzo muoversi e camminarle accanto. Perciò la segue, fedele e instancabile adoratore, come fosse la sua dea. Finché Hime si trova nel parco, accanto a lei è sempre presente il bruno scintillio di due vaste ali di bronzo.

 

Hime mise timidamente il naso fuori dalla porta sul retro, aperta nemmeno a metà; c’era freddo. L’aria era quella umida e pungente dei primi di marzo. La ragazzina indossava solo una camicia da notte di seta, lieve come una piuma, ma non esitò a lungo e si lanciò fuori, nel piazzale retrostante la villa. Camminò lentamente verso il bordo dello spiazzo, dove le piastrelle si infrangevano contro le radici dei ginepri e lasciavano il posto a un terriccio scuro che odorava di pioggia. Poi mosse qualche passo disordinato, avanti e indietro, senza meta. Era di fronte all’imbocco di un lungo viale quando riapparve la nuvola azzurra. C’era questa grande strada lastricata e mezzo sfasciata, qua e là spuntavano ciuffi d’erba tra le pietre; di lato, le siepi erano degenerate e protendevano verso il viale lunghe fronde inselvatichite, come artigli, e cariche di fiori dall’aspetto malato; in fondo risplendeva un bagliore bluastro indefinito. La nebbia rendeva ancora più difficile dargli una forma.

-         Vieni. – sibilò.

Hime si fece avanti. Entrò nel viale e cominciò a correre. Intorno i rami secchi e storti la graffiavano, la ferivano, le strappavano la vestaglia. La ragazzina continuava a correre, sempre più forte. C’era silenzio. La nebbia attutiva i rumori, e il passo svelto di Hime si perdeva, spariva, assorbito dal bianco tutt’intorno.

Silenzio. La nuvola blu scivolava nell’aria rapidissima, allungando dietro di sé i lunghi tentacoli come uno strascico, uno strascico che lambiva le siepi tutt’intorno. Al solo contatto, i rami secchi si contorcevano e si annerivano. In silenzio.

Hime correva, immersa in una nuvola di foglie e petali strinati che turbinavano sopra e sotto e da ogni lato, trascinati da un vortice di vento. I fiori che bruciavano si lasciavano dietro un forte profumo, aromatico, come d’incenso. La ragazzina affrettò ancora il passo. A tratti chiudeva gli occhi. Non sembrava più curiosità la sua, non più. La violenza con cui muoveva ogni passo rasentava la disperazione. Come una fuggitiva.

Appena aveva visto Hime, lord George Philip Harrod era sceso dal proprio piedistallo e aveva cercato di seguirla, insospettito da quella uscita notturna. Dopo qualche decina di metri percorsi nel viale, però, l’aveva persa di vista. Purtroppo per lui, il peso del suo corpo di metallo gli impediva di correre velocemente, e ovviamente le sue ali non gli servivano di certo a volare. Si fermò a riflettere, preoccupato. Aveva visto bene la cosa che aveva attirato Hime fuori casa, sapeva di chi si trattava. Ma dove potesse aver portato la bambina, o perché l’avesse convinta a seguirlo, gli riusciva del tutto incomprensibile.

-         Che cos’hai in mente, Occhiodimorte, razza di demonio? – bisbigliò tra i denti.

 

Ogni grande famiglia ha una pecora nera il cui nome dovrebbe essere dimenticato e cancellato dagli annali: e quella degli Harrod è quel vecchio bastardo di Occhiodimorte.

Nato nel 1538, morto impiccato a Santo Domingo nel 1579, su Occhiodimorte, al secolo Robert Harrod, non troverete molte notizie nell’Enciclopedia Britannica. Non è il tipo di persona di cui la Storia ami ricordarsi. In vita fu brigante, pirata, assassino e spregiatore di ogni morale e di ogni legge. Uccise il primo uomo a soli quattordici anni. Era il suo istruttore di scherma, un abile spadaccino assunto dalla famiglia perché avviasse il ragazzo alla via delle armi. Dopo l’ennesima sconfitta, e l’ennesimo rimprovero a proposito della sua eccessiva impulsività, Robert si rialzò da terra con uno strano sguardo sul volto. Fissò il maestro con gli occhi di un demone, levò la spada. L’istruttore comprese le sue intenzioni e tirò un fendente per difendersi, ma non fece in tempo. La lama lo scannò completamente, dall’inguine alla gola; il sangue si riversò su tutta la stanza e sugli allucinati spettatori. Ma l’ultimo colpo dello sfortunato spadaccino non era andato completamente a vuoto. L’occhio sinistro di Robert Harrod, ferito, perse la vista e la mobilità. Per tutto il resto della vita di quel masnadiere restò fisso, vitreo, spaventoso, demoniaco. Uno sguardo di odio puro congelato per sempre. Il giorno stesso Robert fuggì dalla villa di famiglia e si diede alla macchia. Pochi anni dopo navigava per mare, un filibustiere dei peggiori, di quelli che non desiderano tanto le ricchezze e i tesori quanto il solo piacere di uccidere. Si guadagnò presto il nomignolo di Occhiodimorte: perché si diceva che se puntava quel suo occhio spento contro di te significava che ti aveva preso di mira, e allora facevi meglio a spararti subito un colpo in testa, perché comunque lui, prima o poi, ti avrebbe ammazzato di sicuro, e in modo ben più doloroso.

Il primo ottobre 1579 il suo occhio malefico si chiuse per sempre mentre il suo corpo ancora si dimenava appeso alla forca. E dopo, dopo la fine dei suoi giorni tra i vivi, Robert Harrod ha fatto la cosa che meno ci si poteva aspettare, da uno come lui.

E’ tornato a casa.

 

L’angelo di bronzo che cercava Hime in ogni angolo del parco aveva ormai perso quasi completamente le speranze di trovare una qualunque traccia della bambina. Aveva camminato fuori dal viale e dai sentieri battuti, attraverso prati trasformati in giungle dall’incuria, e non era nemmeno più certo di dove fosse finito. Il parco era vasto. Di notte, con la sola luce della luna, perdersi non era difficile, persino per chi quei luoghi li conosceva da quasi cinquecento anni.

Poi apparve la luce. Era distante e fioca, ma di un inconfondibile colore azzurro.

-         Occhiodimorte.

George Philip Harrod si incamminò con decisione, senza pensarci due volte, verso il bagliore. Non c’era dubbio, Hime sarebbe stata lì, assieme a quel malefico spettro. Passo dopo passo la luce si fece più definita. Era insolitamente tremula e non si riusciva a distinguere l’occhio al centro. Ma ormai era vicina. C’era da superare un prato ricoperto da erba stranamente bassa e curata. Solo cinque, quattro, tre metri.

La statua sprofondò senza fare rumore. Si trovò in un attimo con la testa al livello del terreno, gli occhi ormai abbastanza vicini a quella che aveva creduto semplice erbetta da capire che invece si trattava di ninfee, cresciute selvaggiamente fino a ricoprire completamente lo specchio d’acqua di un laghetto artificiale trasformandolo in una trappola perfetta. Ironia della sorte, quel bacino, ora lord Harrod lo ricordava, lo aveva fatto scavare proprio lui, in vita. Ora c’era intrappolato dentro, con i piedi che sprofondavano nella melma sul fondo e l’acqua che gli arrivava fino al collo. Davanti a lui la siepe che, bruciando di una fiamma azzurra, aveva fatto da esca per attirarlo in quel tranello. Però c’erano pochi dubbi sulla natura di quel fuoco, poteva essere stato solo “lui” ad accenderlo. E d’altronde, chi altri avrebbe dovuto tendergli una simile imboscata?

Occhiodimorte emerse lentamente dal terreno, filtrando come un’esalazione tra le zolle e prendendo forma pian piano.

-         Ciao, fratellino. – disse ridendo.

L’angelo lo guardò furibondo.

-         Occhiodimorte, non osare più chiamarmi tuo fratello.

-         Dici, George? Ma il sangue che scorre nelle nostre vene è lo stesso. E’ quello che sei. E’ quello che siamo.

-         Mi rattrista pensare che la stessa madre che ha partorito me abbia dovuto soffrire per dare alla luce un simile demonio, ma, in ogni caso, non abbiamo nient’altro in comune. Tu sei solo un bandito e un rinnegato. Non ti consideravo mio fratello in vita, non lo farò certo adesso. Il sangue che scorre nelle nostre vene è lo stesso, dici tu: ma noi non abbiamo più né sangue né vene.

Occhiodimorte rise di nuovo. Aveva un che di agghiacciante. La sua risata era un ribollire e un esplodere; gas che si rimescola; onde che si infrangono; fiamme che scoppiettano.

-         Ti devo dare ragione, fratellino. Sei sempre stato più bravo di me a parlare. Però adesso non ti servirà molto, non trovi?

-         La bambina, demonio. Che vuoi fare con la bambina?

-         Niente.

-         Non mentirmi.

-         Niente, ti ripeto. La bambina si è stancata un po’ troppo correndo, ora è sdraiata sul viale che riprende fiato. Non era mica lei che volevo. Lei era l’esca.

Lord Harrod capì tutto in un istante. Cominciò a dimenarsi, cercando di liberare i piedi dal fango. Tentò di sollevare le braccia, ma l’acqua in cui era immerso rendeva più penosi tutti i movimenti.

-         Sapevo che l’avresti seguita, lo fai sempre. Lei era solo l’esca. La preda sei tu.

Il braccio destro della statua, quello che impugnava la spada, emerse gocciolante dal lago, avvolto dalle foglie delle ninfee. Era lento. Occhiodimorte guizzò nell’aria, l’angelo tentò un affondo, la nuvola lo scansò vorticando, si allargò come se prendesse un ampio respiro per poi stringersi di scatto attorno al braccio di bronzo.

Lord Harrod gridò, un suono meccanico e disarticolato. Il suo braccio destro si fuse in un istante, esplodendo in goccioline di scintillante metallo liquido, minuscole stelle che brillarono un attimo per poi evaporare e diventare parte della nuvolaglia di Occhiodimorte, che si fece ancora più grande. La mano e la spada che impugnava, staccate dal resto, piombarono in acqua, ormai senza vita. Lo spettro emise un grugnito di soddisfazione.

-         Adesso mi mangio anche il resto.

Partì nuovamente all’attacco, e anche questa volta fu questione di un istante. Mentre Occhiodimorte si gettava come un avvoltoio verso la testa dell’angelo, dall’acqua emerse l’altro braccio. Stavolta non riuscì a scansarlo, e la mano si strinse sulla sua massa informe. La afferrò, come fosse una cosa solida. Occhiodimorte urlò e provò a cambiare forma, ad allargarsi come aveva fatto prima, ma fu tutto inutile. Lord Harrod non esitò un secondo, spinse il suo avversario dentro l’acqua e lo tenne sotto. La superficie del lago ribolliva. L’acqua debordava e schizzava.

-         Vattene all’inferno! – ruggì Harrod sentendo gli ultimi spasmi dello spettro che si spegneva.

Quando l’acqua finalmente si calmò l’angelo uscì dal lago, faticosamente, trascinandosi con l’unico braccio rimasto. Era ricoperto di foglie e fango, in alcuni punti la sua pelle bronzea era annerita, in altri sporca di gocce del braccio perduto che si erano solidificate rapidamente. Si voltò a guardare l’acqua nera per un’ultima volta.

-         Rinnegato.

Il mostro era scomparso. Il lago era tornato calmo, freddo e nero come doveva essere. Era stata una battaglia breve, violenta e completamente inutile. Occhiodimorte l’aveva persa, dopo averla iniziata per ragioni che solo la sua mente malata conosceva. Rancori e odi che lui stesso aveva generato e covato. Che essere penoso, pensò lord Harrod. Mosse un poco il braccio che gli restava, provando la mobilità delle dita che avevano afferrato il mostro; sfiorò il moncherino dell’altro, indugiando un momento. Poi si allontanò dal lago e si diresse verso le siepi che lo separavano dal vicino viale, con passo stanco, pesante.

 

Sul filo d’erba tremava una goccia. L’erba sbucava, a ciuffi, dalle fessure che si aprivano tra i mattoni di pietra grigia di cui la stradina era lastricata. All’erba si mescolavano altri fili, altre ciocche, di capelli neri sparsi. I capelli erano quelli di Hime. La bambina stava sdraiata sul selciato. Era stanca ed aveva paura. Perciò piangeva. Le lacrime, piccole, le scivolavano lungo il naso per poi rotolare giù, verso un filo d’erba. Su quel filo d’erba tremava una goccia.

-         Hime

La bambina sentì la voce, ma non reagì. Restò rannicchiata per terra e continuò a piangere, senza singhiozzare o fare un suono, solo piangere. L’angelo di bronzo si avvicinò lentamente e si chinò accanto a lei.

-         Hime, sono io. Sei al sicuro.

Non la rassicurò. Anzi, Hime iniziò a piangere ancor più copiosamente, e a tremare. Lord Harrod la sollevò delicatamente. Il suo unico braccio era abbastanza lungo e la mano abbastanza ampia da reggere l’intero corpo della ragazzina. La portò al suo petto, il piccolo capo accanto ai rimasugli anneriti del braccio destro. Le lacrime ora gocciolavano e scivolavano sul metallo, e riflettendolo sembravano anch’esse del colore del bronzo. George Philip Harrod era rattristato al vederla tanto scossa, ma ormai era tutto finito. Occhiodimorte era sparito, erano rimasti solo loro due. Solo loro due.

-         Andiamo. – bisbigliò con tenerezza.

Tornarono indietro lungo il viale, fino ad arrivare al punto di partenza. Lo spiazzo sul retro della casa circondato dalle statue. L’angelo con la bambina in braccio si avvicinò all’unico piedistallo vuoto, il suo. Era un parallelepipedo di marmo, ma sui quattro lati aveva pannelli di bronzo in bassorilievo. Lord Harrod sorrise.

-         Il nostro posto segreto, Hime.

La ragazzina non rispose. Chiuse gli occhi e si contrasse ancor di più. Continuò a piangere.

L’angelo spinse con la mano il lato destro di uno dei pannelli decorati, con un movimento particolare, che solo lui conosceva. La lastra si smosse, dopodichè si aprì come una porta, ruotando su cerniere invisibili dall’esterno. Dentro c’era una scala in pietra. George Philip Harrod entrò, chinandosi per passare attraverso quel basso cunicolo, e la porta si richiuse di scatto alle sue spalle. C’era buio.

-         Solo un momento.

Chiuse gli occhi e trasse una specie di sospiro. Il corpo di bronzo dell’angelo prese a risplendere di un chiarore innaturale. Era come se riflettesse una luce che non c’era.

Dal buio emerse l’aspetto del luogo in cui si trovavano. La scala, stretta e ripida, era stata scavata nel terreno e rinforzata con pareti e pavimento in pietra. A pochi metri l’una dall’altra grosse architravi in legno reggevano la volta. Alle pareti c’erano anche delle fiaccole. Erano servite a lord Harrod quando scendeva quaggiù senza poter produrre da sé la luce di cui aveva bisogno.

L’angelo e la bambina scesero in fondo alla scala e giunsero in una stanza. Era il rifugio di lord Harrod, fatto costruire da lui in gran segreto, dove ancora in vita coltivava una passione diversa, a cui l’Enciclopedia Britannica non fa cenno. L’angelo posò la bambina per terra.

-         Ecco, Hime. Siamo solo noi due.

(C’erano vecchi giocattoli, molto vecchi, un tempo colorati e allettanti. Cavalli di legno marcio. Bambole monche, orbe, decapitate.)

-         Non avere…

(Alle pareti decine di incisioni, opera della maestria di George Philip Harrod, che nessuno aveva mai visto. Ritratti di bambini e bambine. Nudi.)

-         …paura.

(E poi c’era una piccola branda malconcia.)

Con la sua unica mano, l’angelo prese a carezzare il corpo della bambina in modo invadente. Premeva forte con le sue dita metalliche. Hime restò immobile. Continuava a piangere, ma non reagì in alcun modo, non disse niente.

Da sempre viveva in quella casa.

Da sempre giocava in quel parco.

A non dire mai niente, beh…

…ci si era abituata.

-         Ti ho sempre considerato uno stronzo, fratellino, ma questa, poi!

L’angelo alzò gli occhi furente e si voltò bruscamente verso l’ingresso. Spinta involontariamente, Hime rotolò a terra. Si ritrasse. Nella scala risplendeva un’altra luce, non quella ambrata emessa dall’angelo, ma azzurra, fredda.

-         Voglio dire, di gente ne ho ammazzata tanta. Ma anch’io ho sempre avuto dei limiti. Certe cose fanno schifo persino a me.

Occhiodimorte scese nella stanza e la riempì con il suo fetore. Lord Harrod era furibondo e sorpreso.

-         Cosa ci fai ancora qui, traditore? Dovresti essere sparito! – gridò tremando di rabbia.

-         Ho imparato tante cose nella mia vita da brigante, fratellino. Una di queste è che ci sono due tipi di morti: quelli che lo sono davvero, e quelli che fanno finta.

Rise.

-         Sembra che tu non l’abbia capita, questa differenza.

La nuvola avanzò, avvicinandosi sempre di più all’angelo. Quello fece una mossa rapida col braccio tentando di afferrarlo, ma lo spettro sfuggì, scivolando di lato. Continuava a ridacchiare, muovendosi lentamente avanti e indietro e osservando ogni particolare della stanza.

-         E io che credevo di essere il degenerato della famiglia. Chissà che avrebbe detto papà se avesse visto tutto ciò… A dire il vero, mi incuriosiscono le meccaniche della cosa, visto che con quel corpo di metallo immagino tu non possa combinare un granché. Ma mi sa che è meglio se mi risparmi i dettagli.

-         Sparisci! Vattene via! Questo posto non è per mostri come te!

Occhiodimorte puntò la sua unica pupilla blu contro il fratello.

-         Mostri come me? Sei un pazzo. Non sono io l’orco mangiabambini, qui.

-         Tu non ne sai nulla! Io gli voglio bene! E loro amano me! Tu non capisci nulla!

La nuvolaglia azzurra emise uno sbuffo di gas e un sibilo di disprezzo.

-         Sei patetico. – disse – Ma tanto non avrai più occasione di fare i tuoi giochini con nessuno. Finisce tutto qui.

-         Non fare tanto lo spavaldo! – strillò l’angelo. Adesso il suo tono metallico era diventato acuto e intollerabile come lo stridio di un chiodo che graffia una lavagna. Hime si premette le mani sulle orecchie – Se prima ti sei preso tanta pena per farmi cadere nel lago, significa che non avevi il coraggio di affrontarmi faccia a faccia! Che avevi paura di me!

-         Vero, lo ammetto. Io avevo paura. Ma tu avevi un braccio in più. – rispose Occhiodimorte.

Lanciò un raccapricciante grido di giubilo, si gonfiò tutto, diventando più largo e rarefatto, quindi guizzò nell’aria. Lord Harrod non riuscì nemmeno a seguirlo con lo sguardo mentre schizzava da un lato all’altro della stanza. Lo spettro continuò il suo balletto per qualche istante, poi attaccò, proprio sul fianco destro, dove la statua non aveva più il braccio. L’angelo si voltò, appena in tempo per vedere l’occhio che lo fissava con  il suo immutabile sguardo da demone. Poi ci fu uno sfrigolio e la stanza fu inondata da una pioggia di lapilli. Occhiodimorte restò solo, una nuvola  più grossa e turbolenta di prima. La sua luce era l’unica che illuminava ancora la stanza. Hime aveva assistito alla scena con occhi spalancati, senza muoversi di un millimetro. Però non tremava più.

Occhiodimorte provò a rivolgersi a lei:

-         Ehi, piccolina, è a posto. Puoi alzarti.

Hime non si mosse. Lo spettro esitò, dubbioso. Non gli era mai capitato di avere a che fare con dei bambini, né da vivo né da morto; non sapeva cosa fare. Provò ad improvvisare.

-         Ascolta. Avevo un primo ufficiale, una volta, sulla mia nave, che era davvero in gamba. Aveva fegato da vendere e un sacco di talento. Era anche un intelligentone che leggeva un sacco di libri. Noi lo chiamavamo “il filosofo”. Poi se lo sono spolpato i cannibali di un’isoletta che neanche so come si chiamasse. Brutta fine.

Hime ascoltava e lo fissava, impassibile.

-         Insomma, non è questo il punto. Il fatto è che tutta questa vicenda mi ha ricordato una frase che lui diceva sempre. Ecco, lui mi diceva “Non fidarti mai degli angeli, Robert: perché siccome hanno le ali come gli uccelli, e volano come gli uccelli

Hime continuava ad ascoltare.

-          …come gli uccelli credono anche di poterti cagare in testa. – concluse Occhiodimorte, ridacchiando.

La bambina non reagì. Fece ciondolare il capo.

-         Ma tu, naturalmente, non mi ascolti. – brontolò lo spettro con il suono di una palude che ribolle – Beh, allora senti almeno questo. Ti do un consiglio, dopodichè me ne vado, perché fare la bambinaia non è proprio il mio mestiere.

Si avvicinò alla piccola, incombendo su di lei con il suo grande occhio spalancato.

-         Vattene da qui. – disse – Vattene appena puoi. Questa casa è sempre stata un posto morto, fatto di ricordi e di passato. Era così anche quando ci vivevo io. Lasciale a noi fantasmi, queste cose, e scappa via. C’è davvero tanto mondo da vedere, là fuori, e ti assicuro che ne vale la pena. Persino a costo di farsi appendere per il collo come ho fatto io.

Occhiodimorte si allontanò e raggiunse i primi gradini della scala.

-         Ho fuso il pannello d’ingresso per entrare qui dentro, quindi potrai passare. Filtra anche un po’ di luce della luna per farti vedere dove metti i piedi. Se mi hai capito, ti conviene farlo subito.

La bambina, ancora una volta, non rispose nulla.

-         Altrimenti va’ pure al diavolo, accidenti a te! – sbottò il fantasma, e scappò via.

 

La strada era larga e dritta, ma l’automobile proseguiva comunque lentamente, per via della nebbia che avvolgeva sempre quella zona. Era una cosa strana, quasi innaturale. Helen passava spesso da lì, ogni volta che andava in città, e ogni volta, qualunque fosse il clima del resto della regione, lì trovava solo nebbia, e nebbia tanto densa che nemmeno i fari gialli della macchina riuscivano a penetrarla più di tanto. Quasi quasi le veniva da pensare che ci fossero anche i fantasmi, là dentro. Ridacchiò e, per rompere quel silenzio che le metteva una punta di angoscia, accese la radio ad alto volume. Davano It’s my life di Bon Jovi. Il rock, rassicurante e fracassone, spazzò via l’atmosfera opprimente; la donna si accese una sigaretta e cominciò a canticchiare.

Non riuscì a distinguere bene la figura, pallida ed evanescente, che si piazzò improvvisamente davanti all’automobile, ma diede subito una brusca sterzata per evitare lo scontro. Perse il controllo. L’auto sbandò, slittò sull’asfalto umido e finì contro uno steccato di legno. Il cofano si ammaccò ed Helen, quando scese frettolosamente per controllare cosa fosse stato a comparirle di fronte, aveva un rivolo di sangue che colava da un piccolo taglio sulla fronte. Raggiunse il centro della strada. Aveva visto qualcosa di bianco, e la parte più irrazionale della sua mente temeva di non trovare proprio nulla, che fosse stato uno spettro a farla sbandare; ma per sua fortuna non era così. C’era una bambina, in mezzo alla strada. Helen lanciò un grido di sorpresa.

-         O mio Dio! Ti sei fatta male?

La ragazzina non rispose nulla, ma si rialzò senza problemi. Era illesa.

-         Meno male.

Helen si avvicinò alla bambina e la osservò meglio. Aveva capelli neri, tratti orientali e due iridi di un chiarissimo color azzurro.

-         Come ti chiami? – provò a chiedere, ma non ottenne risposta.

In ogni caso, pensò, non posso certo lasciarla qui. Poi notò una lunga scottatura nera sulla sua mano destra: e a guardare bene, la vestaglietta che indossava era rovinata in molti punti, dove strappata, dove bruciata. Improvvisamente Helen fu presa da una paura molto concreta. Quella poteva essere una bambina rapita che era riuscita a fuggire ai suoi aguzzini, o chissà cosa. Ma magari c’era di mezzo gente pericolosa. Meglio sbrigarsi.

-         Dai, sali in macchina. – disse, spingendo la ragazzina sul sedile passeggeri – Ce ne andiamo da qui e ti porto a casa mia. Domani cerchiamo la mamma e il papà, d’accordo?

Si sedette al posto di guida, fece manovra per liberarsi dai resti dello steccato abbattuto e ripartì, il più in fretta possibile. La bambina sobbalzò al suono del motore che si accendeva, poi, vedendo il mondo scorrere fuori dal finestrino, squittì di sorpresa. Incollò la faccia al vetro.

Quando furono un po’ più lontani dal luogo dell’incidente Helen si sentì un po’ più tranquilla. Provò di nuovo a parlare:

-         Allora, proprio non vuoi dirmelo, come ti chiami?

La bambina non disse nulla, restò appiccicata al finestrino, seguendo con la testa gli alberi che passavano accanto all’automobile, uno, due, tre. Helen sorrise.

-         Bene, me lo dirai dopo. Ma sono sicura che di te mi posso fidare. Guarda quanto sei bella, sembri un angelo.

-         No, signora! Non devi dire una cosa così!

La donna sobbalzò, sentendo la voce della bambina. Era forte e limpida. Quando si voltò, vide che la ragazzina la fissava dritta negli occhi, con uno sguardo serio serio che le fece venire da ridere. Ormai erano usciti dalla nebbia, se la stavano lasciando alle spalle, una volta per tutte.

-         Non lo sai, signora? Lo diceva un filosofo. Non devi mai fidarti degli angeli…

 

 

FINE

  
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