Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: GiadyEsse    11/07/2014    8 recensioni
Sai, ho un ricordo di me e tua madre, a casa tua, mentre sfogliavamo un album di fotografie di quand’eri piccolo…e mi raccontò che all’età di sei anni agitavi le braccia a mo’ di gabbiano, dicendo che volevi fare l’angelo, sembrando piuttosto un aeroplano un po’ storto, che non sapeva bene come planare…Ti prometto, Harry, che se dovessi mai raggiungere quello che tutti chiamano “paradiso”, io ti aspetterò lì, senza spostarmi di un millimetro, finché tu non sarai arrivato. E un giorno ti insegnerò a volare. .
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Harry Styles, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Vorrei dedicare questa storia ad una persona speciale che, pur essendo lontana da me fisicamente, mi è sempre accanto. in ogni momento. 
Ad una persona che in realtà non ho mai incontrato, ma a cui voglio un bene infinito.
Un ragazzo coi capelli ricci e gli occhi verdi che si chiama Harry e che mi ha insegnato a sognare.
Anche se so che non la leggerai, questa è per te. 
Ti voglio bene, piccolino.


E’ strano come, in un attimo, le cose possano cambiare, senza che tu nemmeno te ne accorga. E’ bastato un breve, tagliente, brusco istante per ribaltare tutto.

In una frazione di secondo - anche se non avrei mai giurato che potesse esistere un tempo così rapido - due luci abbaglianti si sono fatte spaventosamente vicine, accecandomi, per poi farmi piombare nel buio più totale, e tutto intorno a me è stato come inghiottito da una forza sconosciuta, in un enorme turbine che mulinava vorticosamente nella mia testa facendomi pulsare le tempie, risucchiando ogni singola particella del mio corpo, che a poco a poco si stava lasciando andare. Un intenso, profondo, fulmineo dolore. Poi, il freddo. Tutt’a un tratto, era come se un grosso peso mi fosse stato estirpato dal petto. Non sentivo più niente.
Le mie braccia erano abbandonate lungo i fianchi, il capo reclinato su un lato del sedile, i miei capelli arruffati a coprirmi disordinatamente il viso, avevo pure smesso di sentire il sapore ferroso del sangue che mi colava agli angoli della bocca fino a un attimo prima. Solo un attimo.
Improvvisamente non ero più io, Helen. Non sentivo nemmeno più il battito del cuore, come se fossi morta. Ma io non sono morta. O almeno, non proprio. Semmai adesso sono la proprietaria di un piccolo e debole corpo che ha dimenticato cos’era la vita, portata via dalla fitta nebbia che mi offusca la mente.
“Mamma…mamma…” fu il mio ultimo pensiero, prima di sentirmi completamente scomparire.
 
Se ripenso a quel giorno, a quella volta in cui mi invitasti a venire con te al ballo scolastico, ancora mi viene da sorridere, anche se, a dire la verità, appena me l’avevi chiesto, la mia reazione non era stata esattamente questa. Ti ricordi di come fossi scoppiata a piangere, così, all’improvviso, sotto il tuo sguardo spaventato e incredulo che si chiedeva cosa avessi fatto di sbagliato per provocare quel fiume di lacrime? In quel preciso istante era come se gioia e dolore si mescolassero dentro di me, in totale confusione, e mi trovai con gli occhi rossi che mi bruciavano, ma di qualcosa che avevo completamente dimenticato. Gioia, tanta gioia. Tu sei la mia gioia, Harry.
Quel periodo non era stato facile per me, i miei si stavano separando ed io ero semplicemente distrutta. Tra me e mia madre, poi, c’era un muro insormontabile a dividerci, o meglio, ero stata io a costruirlo. Passavo tutto il tempo chiusa in camera mia, buttata sul letto, senza voler sentire o vedere nessuno, tantomeno lei, che spesso, dopo la separazione, aveva cercato (inutilmente) di farmi “sfogare”, e di sforzarsi di capirmi. Ma io non volevo saperne, e non facevo altro che trattarla malissimo, o peggio, ignorarla. Non mi accorgevo neanche di quanto male le stessi facendo in quel momento, non ne avevo benché la minima forza. Ero così chiusa in me stessa, disorientata, e arrabbiata, che riuscivo solo a pensare a quanto la mia vita fosse un completo pasticcio. Sulle prime avrà pensato che le mie reazioni fossero normali, d’altronde quando i tuoi genitori decidono di lasciarsi, come dicono gli psicologi, “è un trauma difficile da superare”. Ci aveva anche provato, mia madre, a portarmi da uno strizzacervelli, ma il mio rifiuto fu categorico e le risposi e che io stavo benissimo, e che stava davvero esagerando, io non avevo bisogno di nessuno, tantomeno di lei, e al suo “io voglio solo aiutarti, tesoro”, un pomeriggio che eravamo tutte e due nella cucina, avevo ribattuto, bruscamente:
“Ma cosa vuoi fare tu, che aiuto mi potrebbe dare una che non è riuscita nemmeno a tenersi un uomo?”
Poi arrivò lo schiaffo, talmente forte da farmi girare la testa dall’altra parte. Portai la mano sulla guancia, pensando a quel gesto che mi sembrava orribile. Come poteva fare questo a sua figlia? Sentivo di odiarla, dal profondo del mio cuore.
Forse perché anche lei era arrabbiata. E ferita.
E tradita.
Ma io non ci avevo dato peso. E avevo ignorato i suoi occhi lucidi, il suo dolore, il suo pentimento, la sua vergogna, e il suo bisogno di sentirsi amata.
Pochi istanti dopo, resasi conto di quello che era successo, si portò una mano alla bocca e poi si avvicinò a me tendendo la mano per accarezzarmi il braccio, ma io mi divincolai e le urlai contro, furiosa, con tutta la voce che avevo in gola: “Non mi toccare, hai capito? Ti odio. Io ti odio!”
Non è vero, non è vero, mamma, te lo giuro. Dimmi che ti eri accorta che stavo solo mentendo, ti prego.
Ma no. Lei, a quelle parole, si accasciò sulla sedia, pallida.
Come vorrei tornare indietro, mamma. Come ho potuto essere così cattiva?
Poi mi guardò, scuotendo debolmente la testa, mentre le lacrime le correvano giù per le guance.
Quella frase la colpì come una coltellata.
Non l’avevo mai vista così, lei  è  una che ha sempre tenuto duro, una donna di carattere, determinata, la tedesca per eccellenza, pronta e sicura ad affrontare qualsiasi situazione.
Ma in quel caso era stato diverso: quale moglie si sentirebbe mai preparata a scoprire il tradimento di suo marito?
Ma io riuscivo solo a pensare: quale figlia meriterebbe mai di vivere una situazione del genere?
Tradita da suo padre, ora anche da sua madre. Che poi la tipa con cui mio padre andava a letto aveva solo cinque anni più di me. Avrebbe potuto essere mia sorella.
Soffrivamo entrambe, io e mia madre, ma io non lo vedevo, ero troppo impegnata a fare i conti con quel dolore improvviso, pensando a quanto fosse abietto il mondo degli adulti, grandi ma allo stesso tempo così piccoli.
Lei invece cercava di raccogliere i cocci della sua vita, della mia, della nostra, ma le mie parole taglienti, come una lama, le stavano squarciando il cuore.
Mamma, riusciresti a perdonare la tua figlia arrabbiata?
 
Se a casa non riuscivo più a comunicare, a scuola era ancora peggio. Un martedì mi presentai con i capelli corti, a caschetto, di un blu elettrico che faceva da contrasto con la mia pelle chiarissima, e che mi ero fatta tingere solo il giorno prima.
Se la mia vita era cambiata, allora dovevo cambiare anch’io, no?
Appena mi vedevano per i corridoi, notavo tutti gli occhi puntati su di me. E non era semplice sorpresa, ma ero un vero e proprio motivo di divertimento. Le loro risate soffocate echeggiavano in qualsiasi posto mi trovassi: alla mensa, in aula, in cortile. Ovunque. Con Lucy e Valerie il rapporto si era interrotto da tempo: io non le avevo più chiamate, a scuola le evitavo e loro, dopo un po’, fecero lo stesso. Lo avevo voluto io, in fondo: l’unica cosa che desideravo in quel momento era la solitudine. Nessuno poteva sapere esattamente quello che stavo provando, e io nemmeno avevo voglia di spiegarlo. Liam, Louis e Zayn invece non si erano mai arresi, e mi rivolgevano tutte le mattine un timido saluto, accompagnato da un lieve sorriso.
Il giorno del mio compleanno ricordo che Liam si avvicinò al mio tavolo mentre ero a mensa, chiedendomi, un attimo prima di sedersi: “Posso?”
Ma io non risposi. Lui ignorò il mio silenzio – ormai ci era abituato – e si sedette comunque.
“Come stai, Hel?”
Che domanda idiota, pensai. Come una a cui è crollato il mondo addosso in un istante, Liam.
“ Uno schifo. Come tutti gli altri giorni”, risposi, a testa bassa.
Lui mi fissò, triste.
 “Ma oggi non è come tutti gli altri giorni, Helen - tentò lui– è il tuo compleanno..”
“E quindi, cosa vuoi che cambi? Non c’è proprio niente da festeggiare” avevo ribattuto, aspra.
“E invece sì. Se solo tu lo volessi…” continuò lui ostinato, guardandomi negli occhi e sorridendo debolmente.
“Ecco, appunto. Hai colto nel segno. Io non lo voglio, e non voglio che tu ti immischi nella mia vita. Cosa vuoi che me ne importi di uno stupido compleanno? Cosa diavolo vuoi da me, Liam?” risposi, tagliente.
“Helen, io voglio solo.. aiutarti” disse lui, calmo.
“Io non ho bisogno né del tuo aiuto, né di quello di nessun altro, è chiaro? Anzi, sai cosa vorrei? Essere felice, perché ora non lo sono. E poi vorrei che mio padre avesse amato davvero la madre di sua figlia, perché, beh, se l’avesse fatto, non si sarebbe scopato un’altra, che per giunta è una venticinquenne così sfigata che non ha saputo trovare nient’altro che un uomo già sposato. Lui è un grandissimo stronzo, lei una fottutissima troia!” strillai, sentendo gli occhi bruciare e accorgendomi che una ventina di persone si erano girate a guardarci.
Ora tutta la mensa era a conoscenza della mia vita privata, ma a me non importava.
Ero semplicemente troppo sconvolta per pensarci.
Liam tese un braccio verso di me. “Ti prego, non fare così…”
Io non lo feci nemmeno finire di parlare. Mi alzai di scatto e poi, guardandolo fisso negli occhi color nocciola, aggiunsi:
“Fatti i fatti tuoi, Payne. La mia vita non ti riguarda.”
E me andai.
 
In un certo senso, sono stati Liam, Louis e Zayn –miei amici da molto prima che venissi etichettata “Helen la pazza”- l’anello che ci ha legati. D’altronde era stata loro l’idea di organizzare quella famosa “uscita a cinque”, qualche mese dopo il nostro incontro.
Un giorno, una mattina delle tante, ero appena uscita dall’aula di inglese, e mi avvicinai al mio armadietto per riporvi i libri che avevo in mano.
Ancora non sapevo che voi vi sareste conosciuti, e che anche io avrei conosciuto te, proprio in quel momento.
“Hey, Roberts! Ma come ti sta bene questo blu elettrico! Hai preso la scossa, per caso?”
Sentii la voce di Michael Hawkins provenire dal corridoio, accompagnata dalle risatine dei suoi amici, Brad Stewart e Callum Fynch. I tre ragazzi più popolari della scuola.
Al mio non rispondere (non mi ero nemmeno girata) sentii uno dei tre esclamare un “ops” prima di farmi cadere la pila di libri che avevo in mano.
In quel preciso istante, mentre ero intenta a raccoglierli da terra, arrivasti tu.
“Serve aiuto?” sentii chiedere. No, mi servirebbe un abbraccio, è che sono qui, in mezzo ad un corridoio scolastico, sola anche se continuano a passare persone e si mescolano voci, a raccattare dei libri che dei ragazzi che volevano solo ferirmi mi hanno fatto cadere.
Poi mi voltai, e incontrai il tuo sguardo. Ti guardai. E poi ti guardai di nuovo.
“..Non ti vorrei scomodare. E poi, io…non ti conosco”, risposi.
Non ho mai visto questo ragazzo a scuola. E’ nuovo, forse? – pensai.
“Piacere, Harry” ti presentasti , porgendomi la mano.
“Helen”, dissi in un soffio.
Un attimo dopo ti vidi chinarti per poi raccogliere i libri che erano a terra, sotto il mio sguardo stupito, che seguiva ogni tuo movimento.
“Ora mi conosci” dicesti con un sorriso, alzandoti.
   
 Dopo quel giorno ci incontrammo tantissime altre volte: in corridoio, alla mensa, in aula. Era esattamente come avevo pensato: eri nuovo in quella scuola, arrivato da poco più di un mese a Londra, dove tu e tua madre vi eravate trasferiti andandovene da Nantwich, nel Cheshire. Mi salutavi sempre con la mano, e mi sorridevi, come non avevano mai smesso di fare Zayn, Liam e Louis, ma io li ignoravo. E più lo facevo, più mi rendevo conto in realtà di quanto mi mancassero. Credevo di fare il loro bene, così. Volevo solo che loro rimanessero fuori da sentimenti contrastanti che si agitavano nel mio animo e che avrei potuto scatenare contro di loro. Volevo evitargli la mia tristezza, e il mio rancore, anche se sapevo che loro l’avrebbero condiviso con me, senza esitare, perché è così che fanno i veri amici. E io che invece ho fatto quello che fatto, io che li ho allontanati da me, non mi ero comportata come tale nei loro confronti. Ma loro continuavano a volermi bene, e a prendersi cura di me, come venni a sapere dopo. Capitava spesso che tu ti avvicinassi al mio tavolo, e io capivo che volevi parlare con me, per alleviare quel dolore e quella delusione che mi invadeva il cuore e lo rendeva sordo ad ogni emozione, ad ogni suono che non fosse quello del mio pianto. Tu lo avevi capito, avevi capito che c’era qualcosa che mi lacerava dentro, ed eri l’unico a cui, volta dopo volta, permettevo di farmi guarire. Cominciammo ad uscire e non so nemmeno come successe, esplorammo ogni angolo di Londra insieme, e mi ricordo che una volta mi portasti vicino ad un fiume: noi ci sedemmo a terra, con le mani appoggiate sul suolo scuro e un po’ sassoso, e tu mi dicesti che mi capivi, che tu e tua madre ve n’eravate andati da quella cittadina perché lei e tuo padre si erano appena lasciati e pensava che fosse meglio andare via, per potersi rifare una vita.
Sì, tu mi capivi davvero, Harry. Fu in quel momento che mi confidai completamente con te, ti dissi tutto quello che provavo, i miei dubbi, le mie paure, di cui la più grande era quella che avrei  potuto provare odio verso mio padre. Le parole scorrevano veloci, come il corso di quel fiume, e non provavo imbarazzo, né vergogna. Mi fidavo di te. E quello è stato il primo passo con cui, piano piano, senza fare troppo rumore, sei entrato nella mia vita.
 Non dimenticherò mai quando, dopo aver pianto sulla tua spalla avendo finito le parole da dire, mi dicesti: “Nonostante tutto, Helen, c’è una cosa che non cambierà mai: tuo padre ti ha messa al mondo…ogni volta che camminerai, ricorda che le tue gambe sono anche le sue, e ogni stella che guarderai sarà dai suoi, dai tuoi stessi occhi. Odiare lui sarebbe come odiare te stessa. Non avere mai paura di questo, perché non succederà mai.”
 
Peccato che ora io sia attaccata ad un respiratore e non possa muovere granché la bocca; sai, la sento tutta appiccicata, come se le mie labbra si fossero incollate, probabilmente perché è da tanto che non pronuncio neanche una parola. Ma questo non mi impedisce di pensare, e di esistere, pur nel mio vivere silenzioso. Perché io sono viva Harry, viva. Ma è un vivere sottile, quasi invisibile, imprigionato nel mio corpo indolenzito che è da tanto che non muovo. Di questi tempi, sai, mi sono dovuta abituare, e mi sono inventata io stessa un nuovo modo per cercare il più possibile di ritornare alla mia vita di prima, in cui sorridevo, parlavo, correvo: mi faccio aiutare dai ricordi, e scavo, scavo nella mia mente alla ricerca di quelli più belli, provando a pensare alle sensazioni che provavo in quel momento, a come mi sentivo quando la felicità colorava le mie guance di rosso, in modo da non prendere davvero coscienza di dove sono e come dovrei essere diventata. Magari pallida e brutta, con i capelli piatti schiacciati sul cuscino. Magari più bianca degli indumenti a pallini che indosso. Non che io mi veda, è solo che nei film è sempre così.
Torno indietro a quando, da bambina, facevo lunghe corse in bicicletta la domenica, con la luce del sole che picchiava sulla mia fronte e il vento leggero a rinfrescarmi il viso. Poi, tornata a casa, ad aspettarmi trovavo nonna con la sua torta di mele pronta per me.
quando passavo lunghi pomeriggi in camera, stesa a pancia in su sul letto, a sognare chi sarei diventata da grande, cosa avrei fatto, chi mi avrebbe amata, quando sarei diventata indipendente a tal punto da avere uno spazio che fosse solo mio, una casa, un lavoro, una vita, e a domandarmi perché quel momento non arrivasse mai.
quando, durante le sempre più frequenti  “sedute davanti allo specchio”,  mi accorsi che qualcosa nel mio corpo stava cambiando: le mie forme più arrotondate, i pantaloni che cominciavano ad andarmi un po’ stretti, il seno che cominciava a farsi vedere da sotto la maglietta. Stavo maturando, diventando una donna, e mi sentivo bella, come non mai, e tutta presa dall’entusiasmo e dalla voglia di truccarmi e provarmi i vestiti corti fino al ginocchio e sentire il rumore che facevano i tacchi nel poggiare i piedi a terra, che alle mie orecchie suonava come qualcosa di ammiccante, affascinante, qualcosa che potesse condurmi, passo dopo passo, nel mondo dei grandi. E mi sembrò di entrarci dopo il mio primo invito in assoluto ad una festa, in cui per l’occasione mi passai un rossetto color fragola sulle labbra.
Quando poi è arrivato l’ultimo giorno di scuola, e mi sono ritrovata a gridare dalla gioia mentre scendevo le scale, correndo. Era davvero finita, e io non ci potevo ancora credere.  Era una mattina di giugno: mi guardavo intorno e mi sembrava tutto bellissimo, come non mi era mai apparso. Le casette color arancio e marrone chiaro, gli uccelli che svolazzavano leggeri  tracciando cerchi nell’aria e le querce dalla chioma folta, attraversata da un raggio di sole che la ricopriva come un velo chiarissimo. E sentivo che quella luce, per quanto abbagliante fosse, non avrebbe accecato i miei occhi. Distinguevo bene la linea dell’orizzonte, e sapevo che non l’avrei persa di vista. Sentivo come se i miei sogni invadessero l’aria, e più vicini che mai, mi raggiungevano fino ad accarezzarmi il viso. Finalmente era tutto finito: ora non avrei dovuto più studiare chimica, matematica, o informatica. Finalmente sarei andata all’università, e sapevo già che avrei scelto arte. L’ho sempre saputo. Perché disegnare è l’unico modo per dare forma ad un mondo che sia esattamente come vuoi tu.
                                                                                                            
Mi trovo in bilico tra la vita e la morte come una ginnasta che cerchi di mantenere l’equilibrio muovendosi lentamente e con cautela su una sottilissima asta di legno. Per quanto possa provare a concentrarsi e tenere le braccia dritte e sollevate, nulla esclude che da un momento all’altro il suo equilibrio possa cominciare ad oscillare, perdendo così il controllo prima delle gambe, poi delle braccia, poi ancora dell’intero corpo. E potrebbe cadere. Ma mi piace pensare che se avesse una specie di sentore che questo stia per succedere, l’acrobata guardi fisso davanti a sé, per poi abbassare delicatamente le braccia, come un fiore che si schiude, e infine scendere dalla sbarra con la stessa grazia con cui ci era salita, come a dire: “No, grazie. Non sono ancora pronta.” Vorrei che si potesse rimandare, almeno di un po’, quel momento in cui, ad un certo punto della nostra vita, ci viene chiesto di andarcene via, pur non sapendo dove…Ma alla fine, se ci pensiamo, è un viaggio. E chi ne rifiuterebbe mai uno? Certo, magari all’inizio abbiamo un po’ paura, ma magari sarà un’avventura fantastica e ci piacerà da matti. E’ solo che io non sono sicura di volerlo fare… Saresti anche tu dove sono io?
Tutti pensano che il paradiso sia un luogo meraviglioso costruito più o meno all’altezza del cielo, popolato da angeli che, sdraiati su nuvole rosa, intonano inni melodiosi. Lo sai come me lo immagino io, invece, il paradiso? Come qualcosa di bellissimo, anzi, perfetto, ma non credo sia un posto. Credo che sia semplicemente uno stato d’animo. Un senso di pace, tranquillità, la felicità di avere tutto quello che si è sempre sognato. Non credo di aver bisogno di salire fin lassù, perché io ho già provato tutto questo, qui, su questo mondo,  stretta a te durante il ballo di fine anno, con la mia mano dietro la tua schiena, mentre ci muovevamo adagio al ritmo di Yellow dei Coldplay. Potevo sentire il tuo respiro calmo e regolare e il tuo fiato caldo vicino al mio orecchio, e la tua mano grande tenermi delicatamente la vita, come se il mio corpo fosse di vetro e io, tremando, mi sentivo come se fossi appena caduta da un albero altissimo e qualcuno mi avesse appena raccolto da terra. Come se quel qualcuno mi avesse appena preso in braccio e io avessi ancora i brividi per il pericolo scampato.
Io non la smettevo di tremare, e tu te n’eri accorto. Allora mi stringesti ancora più forte, senza dire nulla. Intanto la musica continuava a suonare, e noi a fonderci in una danza silenziosa, fatta di una melodia tutta nostra, senza note, senza parole, contenuta dentro ad un abbraccio. Intanto io tremavo ancora, stavolta come una foglia accarezzata dal vento.
Sai una cosa? Anche se il paradiso fosse un luogo, e io dovessi andarci, spero soltanto una cosa: di incontrare quelli che non hanno avuto la fortuna di avere quello che invece ho avuto io, e poter raccontare loro quanto è bello l’amore, e quanto è vero. Sono innamorata di te, Harry, che ancora una volta sei qui, seduto ai piedi di questo letto d’ospedale ad aspettare che, come dicono i dottori “io mi risvegli dal coma”. Mi sentirò ancora più fortunata ad averti avuto, ma allo stesso tempo proverò una tristezza infinita per tutti coloro che non hanno mai ricevuto una tua semplice carezza, un tuo bacio, un tuo abbraccio, un tuo tenero sguardo. Non c‘è una cosa che io non ami di te, non c’è un momento in cui io non ti abbia apprezzato per quello che sei, e non una volta in cui tu non sia riuscito a farmi dimenticare del mondo intero quando ero con te, come in quell’attimo meraviglioso in cui assaporai per la prima volta il tuo bacio, che sapeva di caffè.
Sai, ho un ricordo di me e tua madre, a casa tua, mentre sfogliavamo un album di fotografie di quand’eri piccolo…e mi raccontò che all’età di sei anni agitavi le braccia a mo’ di gabbiano, dicendo che volevi fare l’angelo, sembrando piuttosto un aeroplano un po’ storto, che non sapeva bene come planare…Ti prometto, Harry, che se dovessi mai raggiungere quello che tutti chiamano “paradiso”, io ti aspetterò lì, senza spostarmi di un millimetro, finché tu non sarai arrivato. E un giorno ti insegnerò a volare.
                              
Un pomeriggio, mi chiedesti di andare con te a cena da Nando’s in Church Street.
Mi venne subito in mente che quello era il ristorante in cui andavo sempre con i miei amici; Zayn, soprattutto, ci andava pazzo. All’inizio avevo paura che tornare lì avrebbe scaturito un’ondata di ricordi, e avrei voluto rifiutare. Ma poi, pensandoci bene, decisi di venire. Quando arrivai, ti trovai ad aspettarmi all’entrata, con uno stupendo sorriso sul volto che credo non dimenticherò mai. Come non dimenticherò quelle due parole,“Sei bellissima”, pronunciate in un sussurro, mentre mi spostavi una ciocca di capelli blu dietro l’orecchio. Mentre ci facevamo strada tra i tavoli, con il rumore delle risate della gente in sottofondo, ad un certo punto vidi tre ragazzi che, incrociato il mio sguardo, si girarono e mi sorrisero. Erano Louis, Liam e Zayn. Com’era possibile che fossero lì? In quel modo, ogni mio tentativo di tenerli a distanza da me falliva miseramente. Solo dopo capii che lo sguardo d’intesa che i quattro si scambiarono spiegava tutto. Harry aveva parlato con loro e avevano deciso di farsi trovare qui, tutti insieme. Non sapevo nemmeno che si conoscessero,  ero semplicemente senza parole, immobile, davanti a loro, e li fissai a lungo, al che vidi Zayn alzarsi, lentamente, e guardarmi con i suoi grandi occhi neri, ma senza fare nessun’altra mossa che quella; rimase lì, in piedi, col braccio appoggiato sullo schienale di legno color noce. Louis e Liam mi guardavano anche loro, con un sorriso. Come sempre.
Come avevo potuto stare lontana da loro per tutto quel tempo? Come avevo potuto abbandonarli quando loro non lo avevano mai fatto con me? Credevo forse di essere una vera amica negando a me stessa il loro calore e a loro la mia presenza? No, mi sbagliavo, ed era stata tutta colpa mia se mi ero solo fatta trascinare da un egoismo disperato, non sapendo come affrontare quello che era successo.
Anche Liam e Louis si alzarono, e io corsi verso di loro, abbracciandoli forte. Sentii tutto il loro affetto, e mi accorsi che Liam aveva gli occhi lucidi. Piangeva. Gli chiesi scusa per come l’avevo trattato a mensa il giorno del mio compleanno, ma a lui sembrava non importare, scuoteva la testa in segno di diniego e continuava a sorridermi… Zayn era ancora lì, in piedi, appoggiato a quella sedia. Non mi ero ancora completamente avvicinata a lui, quando mi sentii avvolgere all’improvviso in un caldo abbraccio. Poi sentii il pizzichio  della sua barba contro la pelle, e lo schiocco del suo bacio sulla mia guancia.
“Ti voglio bene. Non dimenticarlo” sussurrò.
“Ehyyy! Bentornata tra noi, Ellie!” esordì Louis con entusiasmo, avvicinandosi.
Sapeva quanto odiassi quel nome. Lo sapeva!
“E’ un piacere, Boo Bear” sogghignai soddisfatta. Poi lo abbracciai di nuovo.
 
Sdraiata su questo letto d’ospedale, con due sottilissimi tubicini attaccati alle narici e tenuta in vita da qualche macchinario di cui non so il nome,immagino.
D’altronde, questo è l’unico modo che ho per vedere le cose. Immaginare.
Immagino che le pareti siano bianche, che ci siano le veneziane alle finestre, e che sul comodino alla mia destra anche oggi, per rallegrare un po’ la stanza, qualcuno abbia poggiato un vaso di fiori per me. Anche se non posso vederli o toccarli, immagino di sentirne l’odore. Potrebbero essere gigli. I miei preferiti.
A te invece non sono mai piaciuti, Harry.
“Troppo tristi – mi dicesti una volta – non trovi che siano più belli i girasoli?”
Forse sono più simili a te, che sei un vulcano di allegria ed entusiasmo, e che, se dovessi sceglierti un colore, ti darei il giallo.
Giallo come i tuoi sorrisi che accendono il mondo.
Giallo come il calore del tuo abbraccio che scotta.
Come sole che ti acceca gli occhi e copre tutto. Tranne il suono che la tua risata sprigiona.
Me la faresti sentire ancora una volta, amore?
Forse così potrei finalmente riuscire a muovere la bocca in un sorriso anch’io, questa bocca piena di parole d’amore per te che però non riesco ad articolare. Sento il palato asciutto, la lingua secca, gli occhi impastati che non riescono ad aprirsi e che invece vorrei tenere spalancati in modo da poter guardare i contorni perfetti del tuo viso per poi percorrerli delicatamente con la punta delle dita.
Se avessi un foglio di carta e una matita imprimerei ogni singolo dettaglio del tuo viso lì sopra, per far sì che io non lo possa mai dimenticare e in modo che tutti possano guardarti.
Dì qualcosa di buffo, così tanto da sembrarti assurdo anche il fatto di averlo solo pensato. E poi ridi, ridi a crepapelle, così da far ridere anche me.
Lo so, lo so. Non è facile trovare un modo per soddisfare questo mio desiderio, un modo per cercare di essere felice anche in mezzo a questo gran casino, scusami se te lo chiedo, e so che sono io la causa per cui non ci stai riuscendo più. Scusami se sto facendo in modo che il tuo sorriso ti rimanga congelato sulle labbra, Dio, Harry, non voglio questo, non lo voglio,  eppure non posso fare nulla per impedirlo…
Era notte fonda e non saremmo dovuti salire in macchina, le strade sono pericolose a quell’ora… Avremmo potuto stare in albergo, o andare da Liam, lui ci avrebbe ospitati, o prendere il treno di mezzanotte e zero cinque, o un taxi, o non andare proprio da nessuna parte, e tutto questo non sarebbe successo. Io non sarei qui, e tu non passeresti i tuoi giorni in un ospedale, perennemente seduto su un lato del letto, col tuo braccio teso ad accarezzare il mio e le lacrime che ti solleticano gli occhi e che tu cerchi di fermare premendoti leggermente il naso tra l’indice e il pollice. Quella notte guidavi tu, e forse è per questo che ti senti colpevole di quello che è accaduto, ho sentito che lo dicevi a bassa voce, ripetutamente, come fosse una preghiera – ne ricordo il suono soffocato e il tuo viso che sprofondava tra le mie coperte - un giorno, anche se non so con precisione quale fosse (sai, il mio tempo si è fermato, ormai vivo in un mondo senza ore) e quando ti ho sentito avrei voluto battere i pugni sulla tua spalla, urlando come un’isterica che non è vero, non è vero, non lo devi nemmeno lontanamente pensare, e che ti amo, anche se non c’entra niente. Se solo non avessi insistito per andare a quel concerto, Harry…
Tu non hai fatto nulla, è stata quella macchina a venirci addosso, e ad avvicinarsi troppo velocemente per poterla evitare,,, zigzagava, barcollava, forse il conducente era ubriaco, non lo so, non ho avuto nemmeno il tempo di vederlo in viso. Immagino che tu invece lo abbia guardato bene negli occhi quella notte stessa, appena arrivati in ospedale. Ho saputo che appena l’hai visto entrare gli hai sferrato un pugno in faccia con tutta la forza che avevi. L’ho sentito dire da due infermiere che parlavano tra di loro fuori dalla mia stanza. Doveva essere il mattino dopo. La porta era aperta, e così dalle loro parole ne sono venuta a conoscenza.
“Sai cosa è successo ieri sera?” diceva una – poi, senza nemmeno attendere la risposta, continuò- “due ragazzi si sono picchiati in ospedale.”
“Come, picchiati?” aveva chiesto l’altra, con tono monocorde, senza fingere una nota di preoccupazione.
“Hai capito bene. Anzi, a essere precisi è stato il riccio a tirare un pugno al moro. Appena l’ha visto in sala d’attesa è corso nella sua direzione come una furia. Gesù, sembrava volesse ucciderlo, quel ragazzo.”
“Chi sarebbe il riccio?” domandò stancamente la collega. Non so perché, ma se avessi dovuto darle un volto l’avrei immaginata bionda, con i capelli legati in una coda bassa e il volto pallido, segnato da due occhi grandi affossati dalla noia. O forse dalla rassegnazione. Non doveva piacerle molto il suo lavoro.
“Ah, hai ragione. Tu non puoi saperlo, ieri è toccato a me il turno di notte… - constatò l’altra quasi con soddisfazione, contenta di avere l’ “esclusiva” sulla notizia – è un paziente giovane, sui diciannove anni. C’è stato un incidente in Victoria Street, e lui e la sua ragazza, mi pare si chiami Lena, sono finiti fuori strada. Lei è in coma, mentre lui ha riportato solo qualche leggera lesione..”
Helen. Mi chiamo Helen. E comunque non è che io voglia essere oggetto di un articolo da gossip in prima pagina.
“E il moro? Chi è?” chiese la bionda, controvoglia.
“Non saprei proprio. Non mi sono ancora informata bene, per non sembrare troppo indiscreti, sai…”
Poi sentii i loro passi affrettarsi verso il corridoio, e le loro voci dissolversi.
“Ditemi chi è!” – avrei voluto urlare- ditemelo!” Ma dalla mia bocca non usciva nessun suono. Proprio nessuno. Allora sai cosa ha fatto? Sono tornata indietro a quella notte, a quel concerto, quando la musica dei Coldplay pervadeva l’02 Arena e la voce di Chris Martin mi cullava insieme al suono rassicurante dei tuoi battiti, che riuscivo a sentire con la testa poggiata sul tuo petto, e al tocco delle tue dita affusolate con cui mi accarezzavi piano i capelli. Le note di Fix you riempivano l’aria  e riempivano noi. Ricordo che poi mi baciasti sulla fronte e io avevo alzato lo sguardo per poterti guardare, e mi ritrovai i tuoi smeraldi luminosi che mi fissavano. Sorrisi. Scusami se avrei voluto dirti “Ti amo”e non l’ho fatto, ma pensavo che non ce ne fosse bisogno. Tutto quello che era intorno a noi,  ciò che stavamo pensando, provando, valeva più di qualsiasi parola. Poi partii Yellow. La nostra canzone. La stessa del ballo scolastico…
Non dimenticherò mai quella sensazione, Harry. E se dovessi sceglierti un colore, ti darei e ti ridarei il giallo.
 

Avverto una miriade di rumori intorno a me…è un fievole bisbigliare, poi un vociare che si fa sempre più fitto, un fluire di parole che sembra non interrompersi mai. Non riesco a distinguere un suono dall’altro, né a riconoscerlo, ma mai come adesso mi sembra di percepire, di sentire. Da cosa potrebbe essere provocato tutto questo rumore? Voci su voci, quindi persone…ma quante? E dove sono, di preciso? Chi sono? Distesa su questo letto che è la mia casa, il mio habitat, da parecchio tempo ormai – forse sei mesi, forse dieci, forse un anno – immagino.
Vedo davanti a me il corridoio che si trova fuori dalla mia stanza, gremito di gente. Ci sono tutti quelli che conosco: mia madre, mio padre, Zayn, Louis, Liam, anche Lucy, e Valerie, con gli occhi rossi e persi nel vuoto, appoggiata sul petto di quel tizio biondo, Niall, che rincorreva da tempo aspettando che la notasse. E tu, dove sei? Non ti vedo, Harry, c’è così tanta confusione, così tanta gente…forse sei in fondo, perché proprio non riesco a trovarti…Nella mia mente allungo la mano per cercare di raggiungerti, aspettando che vaghi nell’aria trasparente fino a che non arriverà a sfiorare te. Forse, se ci riuscissi veramente, nella realtà, potrei toccarti davvero, dato che non ti sei mai mosso di un centimetro da dove sei sempre stato, cioè qui, ai bordi di questo letto. Forse è per lo sforzo, o perché sto desiderando ardentemente di avere un contatto con te, che non sia la tua presenza perenne di cui io non posso veramente godere…ma comincio a tremare. Sento dei fremiti lungo tutto il mio corpo, come se avessi freddo. Allora perché, perché sto sudando? Sento la mia maglietta bagnarsi secondo dopo secondo. Freddo contro caldo. Sangue che mi scorre nelle vene, come un corso d’acqua che finalmente ha trovato il suo lago dove sfociare. Sento ancora delle voci, stavolta incredibilmente vicine a me…
Poi, un tremito. La mia mano. Sento che qualcosa la tiene stretta. Sento la mia mano…la sento…No, non può essere…tutto questo è assurdo, devo essermelo immaginato… Ricomincio a sentire quel brivido…e tremo, tremo di nuovo. Mi sento così spaventata…se solo potessi toccarti…E’ con questo pensiero che mi convinco che devo farcela, ci devo riuscire…
Perché non sei lì in corridoio con gli altri?
Ripenso alla promessa che ti ho fatto, che se avessi mai raggiunto il cielo ti avrei aspettato lì. E penso a te bambino, che volevi volare, ma sai, io ci sono riuscita, e senza avere le ali…l’ho fatto con i piedi ben piantati a terra, mentre mi tenevi stretta a te assicurandomi che tutto sarebbe andato per il meglio…
La mia mano, ancora la mia mano…è come se la sentissi di nuovo mia…intanto continuo ad avvertire quel brivido…Sento che stringe qualcosa…
“Oh Dio, Helen..”
Sento gli occhi coperti come da un velo, schiacciati, appesantiti. Poi un lieve solletichio, come se delle piccole formiche danzassero sulle mie palpebre…all’improvviso le sento sbattere, come farfalle o uccellini che si preparano prima del volo…Poi, la luce. Incerta, intermittente come una lampadina, così sfuggente…
Ora so perché non eri lì con gli altri. Tu sei sempre stato qui... vicino a me.






SPAZIO ME:

Grazie di cuore a tutti quelli che sono arrivati fino alla fine di questa storia... Grazie, davvero.


 
  
Leggi le 8 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: GiadyEsse