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Autore: La sposa di Ade    11/07/2014    1 recensioni
Con un'esplosione dei muscoli cercò l'aria. Un unico, enorme movimento, dopo pochi improvvisi e interminabili istanti di silenzio e sgomento vivo.
E la sua innata voglia di vivere sembrò essere l'unica vincitrice.
Un urlo smorzato, interrotto, soffocato. Tossì violentemente cercando di riadattare i suoi occhi alla luce.
Pulsava.
Tutto pulsava.
Ogni singolo muscolo bruciava, come sciolto nell'acido. Piegata a metà, cercava solo di capire.
Dove.
Perchè.
Quando.
Cosa.
E i polmoni erano due baratri incendiati ad ogni affannatissimo respiro. Tremava.
Era come essere rinati. Come aver ripreso la prima boccata d'aria della propria vita.
E faceva MALE. Male da morire.
Sul corpo sentì un peso innaturale: calò lo sguardo, osservando le sue mani.
Lerce di sangue, anch'esse brucianti come il resto del corpo. Pallide e gelide.
E poi un battito.
Sussultò.
Un altro.
Aritmico. Accelerato.
E poi normale: il battito di un cuore. Che pompava sangue. Che scorreva nel suo corpo. Che sembrava ridare colore alle sue braccia, alle sue dita.
Genere: Angst, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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SECONDA PARTE–DAEMON

TIENE IL DIAVOLO I FILI CHE CI MUOVONO!
SCOPRIAMO UN FASCINO NELLE COSE RIPUGNANTI;
OGNI GIORNO D’UN PASSO, NEL FETORE DELLE TENEBRE,
SCENDIAMO VERSO L’INFERNO, SENZA ORRORE.

 

6. Il sangue è come acqua

Siamo fiori malsani noi. Sbocciamo solo quando tutto intorno è buio.
Dipinti sono i nostri petali con i colori dell'abisso. P
elli, carne e ossa colorati di questo manto ombroso.

“Bene, vogliamo entrare?” La donna inclinò la testa di lato e accarezzò uno dei mastini neri che l’avevano affiancata e, senza attendere la risposta di uno dei due uomini, fece un lieve cenno che bastò ai due cani per farli avvicinare al corpo per terra. “Non c’è bisogno di essere delicati con lei, vero?” Una luce sinistra brillò nei suoi occhi quando rivolse la domanda a Veiler che non aveva smesso di studiare quelle due creature che sembravano spuntate dal nulla. Lo notava solo in quel momento, mentre si allungavano a stringere tra le fauci le braccia della ragazza, le cuciture sui loro corpi e gli occhi vitrei di uno e i crateri neri che erano quelli dell’altro.
“Non ricordavo che ti dilettassi in queste cose.” Safin sorrise genuinamente.
“Ah, se solo sapessi quanto può essere vasta la magia.” A quelle parole Ayn rabbrividì guardando ostilmente la donna, poi l’altro. Capiva poco di quella situazione; la magia era per chi praticava il culto di Izalith, com’era che Veiler, reso migliore da Ragnor, il Burattinaio, si affidasse a una seguace della Serpe Bianca?
Entrarono nel tempio fatiscente, senza porgere omaggio alcuno alle macerie della statua che svettava in fondo alla navata centrale. 
“Avete trovato quello che stavate cercando?”
“È probabile.” L’entusiasmo invase il volto della donna.
 

Due menti fuse ma sfuse.
La storia non aveva neanche bisogno di essere raccontata, perché già insita nella sua mente, nelle sue carni, nelle pupille affilate negli occhi che si coloravano di nero.
Due entità distinte, questo era l’importante.
Due entità distinte e al contempo infinitamente legate.
        “Hai paura?”
“Di cosa devo aver paura?”
        “Hai paura del buio?”
“No.”
        “Allora guarda quanto splende l’ombra adesso.” L’ombra aveva un sapore diverso, un colore diverso, un odore diverso. L’ombra la investiva, le scivolava sul volto, s’ insinuava nei suoi polmoni. Era tutto ciò che riusciva a percepire sul suo corpo. Rossa, calda ombra.
Ma mancava qualcosa.

Con un'esplosione dei muscoli cercò l'aria. Un unico, enorme movimento, dopo pochi improvvisi e interminabili istanti di silenzio e sgomento vivo.
E la sua innata voglia di vivere sembrò essere l'unica vincitrice.
Un urlo smorzato, interrotto, soffocato. Tossì violentemente cercando di riadattare i suoi occhi alla luce.
Pulsava.
Tutto pulsava.
Ogni singolo muscolo bruciava, come sciolto nell'acido. Piegata a metà, cercava solo di capire.
Dove.
Perchè.
Quando.
Cosa.
E i polmoni erano due baratri incendiati ad ogni affannatissimo respiro. Tremava.
Era come essere rinati. Come aver ripreso la prima boccata d'aria della propria vita.
E faceva MALE. Male da morire.
Poi si guardò attorno: rocce.
Rocce impilate in una strana imitazione di mura, una stanza scarna e lei stava sdraiata per terra.
Cercò di issarsi in piedi.
Cadde.
Sul corpo sentì un peso innaturale: calò lo sguardo, osservando le sue mani.
Lerce di sangue, anch'esse brucianti come il resto del corpo. Pallide e gelide.

E poi un battito.
Sussultò.
Un altro. 
Aritmico. Accelerato.
E poi normale: il battito di un cuore. Che pompava sangue. Che scorreva nel suo corpo. Che sembrava ridare colore alle sue braccia, alle sue dita.

Non era la prima volta che succedeva.
No, lo sapeva.
Forse aveva addirittura sperato troppo. Forse era stata stupida a pensare che quella era l'unica via. Ma c’era stata la paura, la disperazione. Cosa avrebbe dovuto fare?
Ma ancora tremava, disgustata dal colore che macchiava le sue mani. Infilò le dita nei capelli piegando la testa e prendendo a ragionare con una lucidità che non riconosceva. Non voleva provare di nuovo quelle sensazioni, non voleva annegare di nuovo nel sangue.
Non voleva. Punto.
Si chiuse in se stessa, stringendo le gambe al petto osservando la stanza malmessa intorno a lei. Dall’angolo in cui si trovava i suoi occhi ancora brucianti vedevano una porta in metallo, una finestra troppo piccola per poterci passare e strani simboli bianchi attorno a lei; per terra, sui muri e sul soffitto. Fissava con ostinazione tutti i dettagli, obbligando la sua mente a un distacco che riuscì a mantenere per poco. Sentiva il battito del proprio cuore come un dono, una nuova e fantastica melodia.
“Piccola mia.”
NO. Le ritornò tutto alla mente e si contrasse, tentando in tutti i modi di escludere quella voce, quella presenza dalla sua mente. Passò freneticamente le mani sul collo, aspettandosi di trovare un solco profondo e sentendo solo la pelle liscia sotto le dita.
“Cosa sta succedendo?”
         “Bambina mia.”
“È tutta colpa tua.”
    “Di cosa mi stai dando la colpa?”
“Sono morta.”
    “Eppure respiri.”
“Io…” Dondolava in maniera impercettibile, mordendosi le labbra, stretta nelle spalle, come a volersi proteggere. Era stata come una folata, rapida ma preannunciata, sembrava aver rimosso il sudario di polvere dalla sua mente. Era il vuoto, che incombeva e si muoveva lento, che inesorabilmente marciava e nel paradosso la riempiva di nulla.
Sentiva lacrime calde iniziare a scorrerle sul viso. Strava crollando, era a pezzi.
“Va’ via.” Non avrebbe mia più ascoltato un suo ordine.
“Va’ via.” Non avrebbe mai più parlato con lei.
“Va’ via.” Non sarebbe mai più stata Sua.
         “Non essere così ingenua.”
“VAI VIA!”
         “Non posso. Lo sai, piccola mia.”
“VATTENE!” Chiuse gli occhi e li strinse con forza. Era persa nel nulla, lo era anche l’altra, lo erano tutte e due. E non c’era nessun posto dove potessero andare per sottrarsi a ciò da cui stavano fuggendo.
“Cosa dovrei fare?”
         “Hai già dimenticato?”
 

“Una cosa del genere è possibile?”
“Non c’è altro modo.” Veiler rimase un attimo in silenzio, organizzando un’altra volta le informazioni. “Hai percepito la presenza della pietra sin da quando l’abbiamo vista la prima volta, l’hai sempre, sempre, sentita su di lei, no?”
“È così.”
“Anche quando l’ho uccisa-“
“A dire il vero…” Tentennò un attimo, poco sicuro di quello che avesse sentito e poco sicuro delle conseguenze delle sue parole. Ma lo sguardo dell’altro lo obbligò a continuare. “In quel momento è successo qualcosa di strano. È stato come se la pietra si consumasse, l’ho sentita più flebile, ma non come se si fosse allontanata. Ma adesso è tale e quale a prima.”
“Quindi non può che essere così.” Si massaggiò le tempie realizzando che tutto quello gli avrebbe facilitato le cose. Sorrise tra se, mentre Ayn rabbrividiva. “Meglio così.”
“Come-“
“Non si può cavare sangue da  una pietra, ma da un corpo si.” Disse quasi tra sé.
Ayn fremette. Quella proprio non ci voleva. Aveva sperato di guadagnare del tempo, e invece era tutto il contrario; tutto stava andando troppo velocemente e ancora doveva parlare chiaramente a Safin, doveva ancora organizzarsi.
“Come è possibile una cosa del genere?” L’altro posò per un istante i suoi occhi d’oro su di lui per poi tornare a osservare il vuoto.
“Lascia che sia Safin a occuparsi di queste cose.”
 

Passi, passi lievissimi si avvicinarono, e non se ne sarebbe accorta se questa presenza non si fosse portata dietro il chiasso di sonagli e altre cianfrusaglie che erano appese ai suoi abiti.
Quando la porta si aprì vide una donna dalla carnagione pallida, lunghissimi capelli neri e abiti di un colore che le ricordava terribilmente il sangue. Le sorrise, avvicinandosi e posando al limitare di un cerchio bianco che contornava un perimetro intorno a Zaara, impedendole gran parte dei movimenti, alcuni contenitori e strani strumenti.
“Ciao piccola.”

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Passò la mano sulla chiazza di sangue che era rimasta sul suo cappotto nel tentativo di pulirlo. Il risultato fu allargare ancora di più la macchia. Il demone fece una smorfia alzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta.
Raven, svegliato dal suo sonno leggero, lo osservò con occhi attenti.
“Dove vai?”
“Dovremo pur uscire da questa città senza causare un putiferio, no?” Il Cacciatore non rispose. Non aveva pensato a come uscire dalla città e si maledisse per quello; ormai tutto veniva registrato e non entravi se prima non ti identificavi e non avevi un buon motivo per varcare le mura. Stessa cosa per uscire. Popolazione e commercio erano tenuti costantemente sott’occhio. “Non ti sarai mica registrato per entrare in città, vero?”
“Figurati.”
“Bene. Usiamo il solito metodo.” Detto questo allargò un braccio, il corvo volò velocemente verso di lui e affondò gli artigli nella sua manica, prima di sistemarsi in una posizione comoda. Il demone si fermò un attimo, soppesando qualche istante le parole. “A quanto pare in questa faccenda sono immischiate tante anime, più di quante credessi, probabilmente molte si perderanno, io spero solo che tu non sia una di quelle. Sei un buon cacciatore Raven, fa attenzione.” Senza dire altro Valentine uscì dalla stanza, portandosi dietro quella macchia nera che aveva iniziato a gracchiare.
Il Cacciatore sospirò, cercando nelle tasche il suo pacchetto di sigarette, e con immenso dispiacere si rese conto di averle finite tutte. Appoggiò la testa sullo schienale, sbuffando e fissando il soffitto. Il silenzio era assoluto, neanche il letto cigolava e la pioggia si sentiva appena, la ragazza giaceva sotto le coperte, immobile come se fosse morta. Lentamente e con un briciolo di concentrazione Raven si mise ad ascoltare il battito del proprio cuore. Si accorse appena delle palpebre che iniziarono a farsi pesanti, e mentre respirava con regolarità la sua mente correva, collegando i suoi pensieri al sogno.
 

Le penne erano perfette e lucide, circondate da una gabbia piccola e bianca. Un paio di occhi furbi e intelligenti scrutava oltre quella piccola voliera, inclinando appena il capo, facendo luccicare il becco nero come una lama.
“Perché un corvo? E perché dentro una gabbia?”
“Perché i corvi sono astuti e non hanno mai paura, volendo troverebbe un modo per uscire da lì.” L’ uomo guardò il volatile che gli restituì uno sguardo estremamente intelligente, Huginn, l’aveva chiamato il suo maestro.
“Allora perché non lo fa?”
“Perché i corvi sono astuti.” Ripetè. “Sanno osservare e adattarsi.” Si accese una sigaretta, aspirando con forza. Il ragazzino rimase in silenzio, ma lo osservò chiedendosi quanto suoi polmoni si avvicinassero al colore delle piume del corvo, che sembrava ascoltarli in silenzio.
“Domani lo tireremo fuori di lì per farlo volare, a meno che non sia già uscito da solo.”
“Perché un corvo? Perché non un falco?”
“I falchi vivono per essere addestrati, i corvi, come anche gli umani, no.”
“Quindi si dovrà adattare?”
“È quello che facciamo tutti prima o poi.”


Il mattino seguente erano all’aperto, con loro la gabbia del corvo e qualche boccone di carne secca. Il vento soffiava lieve creando onde sull’ erba alta, in cielo non c’era una nuvola e il sole primaverile scaldava piacevolmente la pelle.
E nonostante quella splendida giornata il ragazzino sentiva un forte disagio crescere dentro di sé, aveva già addestrato diversi falchi, ma mai un corvo, e in quel momento si chiese se il suo maestro, nel momento in cui aveva deciso di addestrare un corvo, non fosse stato ubriaco. Non aveva idea di come cominciare, come trattare quel volatile dallo sguardo penetrante.
Si riscosse quando, dopo aver fissato a lungo lo sguardo negli occhi neri del corvo, tanto intensi da sembrare pozzi senza fondo, questo non gracchiò da dentro la voliera, come a incitarlo a fare qualcosa.
Spostò lo sguardo sul suo maestro che con un cenno d’assenso lo incitò ad aprire la gabbia, mentre il falco incappucciato sul suo braccio si sistemava le ali.
Quando il corvo zampettò fuori dalla gabbia si guardò un po’ intorno, spostando l’attenzione da una persona all’altra inclinando la testa.
“Cosa devo fare maestro?”
“Osservare.” Il corvo gracchiò ancora, aprendo appena le ali e iniziando a camminare velocemente e in modo un po’ goffo in mezzo all’erba, il ragazzo vide con la coda dell’occhio l’uomo che sfilava dal capo del falco il cappuccio.
Quando il corvo si alzò in volo, una macchia nera come la pece contro il cielo sereno, tre paia d’occhi erano puntati su di lui. Volava placido, sbattendo con foga le ali per poi lasciarsi cadere e tornare di nuovo su con fluidità.
Il ragazzino osservava e vedeva una creatura orgogliosa e libera in un cielo che non gli apparteneva.
“Uccidi.” Un fruscio d’ali, aria che gli sfiorò il volto, poi una sagoma scura si diresse velocemente verso il corvo che ancora si stava librando in aria. Lo colpì una volta con gli artigli prima di riprovare con il becco, si inseguirono in un fruscio disordinato di penne. Il corvo non era veloce come il falco ma con virate improbabili e movimenti imprevedibili riusciva sempre a sfuggirgli, fino a che non si lasciò cadere in picchiata; il falco lo seguì poco dopo restando a distanza, attese di vederlo aprire le ali e planare per piombargli addosso e schiacciarlo al suolo.
 

Non riusciva a chiudere occhio, o almeno era quello che aveva creduto, in verità come si era steso sul letto una pesante stanchezza lo aveva spinto a chiudere gli occhi. Ma si era fatto violenza tentando di tenerli aperti per ragionare un po’ su ciò che era accaduto quel pomeriggio. Non piangeva per la perdita dell’animale, gli avevano insegnato a non affezionarsi. Ma era rimasto turbato perché in fondo, e lui lo aveva capito solo alla fine, non era il corvo che doveva essere addestrato, quanto lui.

“I falchi vivono per essere addestrati, i corvi, come anche gli umani, no.” Tutti si devono adattare, prima o poi. E lui? C’era riuscito?  O quel turbamento era qualcosa di differente e più profondo che comunque non avrebbe mai dovuto mostrare al maestro? Non sapeva. Non sapeva nulla. Ed era una cosa che odiava.
Stava per scivolare nel sonno quando un suono insistente lo ridestò; c’era qualcosa che batteva con forza contro il vetro e lui, esausto, tentò di ignorarlo fino a che non sentì la finestra incrinarsi. Allora spalancò gli occhi, infastidito dall’ idea di dover passare una notte al freddo nel caso la finestra si fosse rotta. Ancora ignorava cosa ci potesse essere al di fuori del vetro.
 

Stessi occhi come pozzi neri senza fondo, intelligenti. Stesso modo insistente di gracchiare. E l’incendio sotto di loro donava riflessi vermigli sulle penne nere.
Bruciava, tutto bruciava. Era un mare di fuoco, rosso e rovente.
Terrificanti le figure di demoni informi che correvano fra le fiamme.
Sfigurato il corpo del suo maestro riverso nel suo stesso sangue.
Orrendi occhi neri su di lui, inumani e affamati. Roventi.
Atroce il dolore al volto.
Buio.

 

La poesia all'inizio è di nuovo Baudelaire, e 'Daemon' significa semplicemente Demone, titolo che sarà parecchio adatto per questa parte della storia.

  
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