TIENE IL
DIAVOLO I FILI CHE CI MUOVONO!
SCOPRIAMO UN FASCINO NELLE COSE RIPUGNANTI;
OGNI GIORNO D’UN PASSO, NEL FETORE DELLE TENEBRE,
SCENDIAMO VERSO L’INFERNO, SENZA ORRORE.
6. Il sangue
è come acqua
Siamo
fiori malsani noi.
Sbocciamo
solo quando tutto intorno è buio.
Dipinti
sono i nostri petali con i colori
dell'abisso. Pelli,
carne e ossa colorati di
questo manto ombroso.
“Bene,
vogliamo entrare?” La donna inclinò la
testa di lato e accarezzò uno dei mastini neri che
l’avevano affiancata e,
senza attendere la risposta di uno dei due uomini, fece un lieve cenno
che
bastò ai due cani per farli avvicinare al corpo per terra.
“Non c’è bisogno di
essere delicati con lei, vero?” Una luce sinistra
brillò nei suoi occhi quando
rivolse la domanda a Veiler che non aveva smesso di studiare quelle due
creature che sembravano spuntate dal nulla. Lo notava solo in quel
momento,
mentre si allungavano a stringere tra le fauci le braccia della
ragazza, le
cuciture sui loro corpi e gli occhi vitrei di uno e i crateri neri che
erano
quelli dell’altro.
“Non ricordavo che ti dilettassi in queste
cose.” Safin sorrise genuinamente.
“Ah, se solo sapessi quanto può essere vasta
la magia.” A quelle parole Ayn rabbrividì
guardando ostilmente la donna, poi
l’altro. Capiva poco di quella situazione; la magia era per
chi praticava il
culto di Izalith, com’era che Veiler, reso migliore da
Ragnor, il Burattinaio,
si affidasse a una seguace della Serpe Bianca?
Entrarono nel tempio fatiscente, senza
porgere omaggio alcuno alle macerie della statua che svettava in fondo
alla
navata centrale.
“Avete trovato quello che stavate cercando?”
“È probabile.” L’entusiasmo
invase il volto
della donna.
Due menti fuse ma sfuse.
La storia non aveva neanche bisogno di essere
raccontata, perché già insita nella sua mente,
nelle sue carni, nelle pupille
affilate negli occhi che si coloravano di nero.
Due entità distinte, questo era l’importante.
Due entità distinte e al contempo
infinitamente legate.
“Hai paura?”
“Di cosa devo aver paura?”
“Hai paura del buio?”
“No.”
“Allora
guarda quanto splende l’ombra
adesso.” L’ombra aveva un sapore diverso, un colore
diverso, un odore diverso.
L’ombra la investiva, le scivolava sul volto, s’
insinuava nei suoi polmoni.
Era tutto ciò che riusciva a percepire sul suo corpo. Rossa,
calda ombra.
Ma mancava qualcosa.
Con
un'esplosione dei muscoli cercò
l'aria. Un unico, enorme movimento, dopo pochi improvvisi e
interminabili
istanti di silenzio e sgomento vivo.
E la
sua innata voglia di vivere sembrò essere l'unica
vincitrice.
Un urlo smorzato, interrotto, soffocato. Tossì
violentemente cercando di riadattare i suoi occhi alla luce.
Pulsava.
Tutto pulsava.
Ogni singolo muscolo bruciava, come sciolto
nell'acido. Piegata a metà, cercava solo di capire.
Dove.
Perchè.
Quando.
Cosa.
E i polmoni erano due baratri incendiati ad ogni affannatissimo
respiro. Tremava.
Era come essere rinati. Come aver ripreso la prima
boccata d'aria della propria vita.
E faceva MALE. Male da morire.
Poi si guardò attorno: rocce.
Rocce impilate in una strana imitazione di mura, una
stanza scarna e lei stava sdraiata per terra.
Cercò di issarsi in piedi.
Cadde.
Sul corpo sentì un peso innaturale: calò lo
sguardo,
osservando le sue mani.
Lerce di sangue, anch'esse brucianti come il resto del
corpo. Pallide e gelide.
E
poi un battito.
Sussultò.
Un altro.
Aritmico. Accelerato.
E poi normale: il battito di un cuore. Che pompava
sangue. Che scorreva nel suo corpo. Che sembrava ridare colore alle sue
braccia, alle sue dita.
Non era la prima volta che succedeva.
No, lo sapeva.
Forse aveva addirittura sperato troppo. Forse era
stata stupida a pensare che quella era l'unica via. Ma c’era
stata la paura, la
disperazione. Cosa avrebbe dovuto fare?
Ma ancora tremava, disgustata dal colore che macchiava
le sue mani. Infilò le dita nei capelli piegando la testa e
prendendo a
ragionare con una lucidità che non riconosceva. Non voleva
provare di nuovo
quelle sensazioni, non voleva annegare di nuovo nel sangue.
Non voleva. Punto.
Si chiuse in se stessa, stringendo le gambe al petto
osservando la stanza malmessa intorno a lei. Dall’angolo in
cui si trovava i
suoi occhi ancora brucianti vedevano una porta in metallo, una finestra
troppo
piccola per poterci passare e strani simboli bianchi attorno a lei; per
terra,
sui muri e sul soffitto. Fissava con ostinazione tutti i dettagli,
obbligando
la sua mente a un distacco che riuscì a mantenere per poco.
Sentiva il battito
del proprio cuore come un dono, una nuova e fantastica melodia.
“Piccola mia.”
NO. Le ritornò tutto alla mente e si contrasse,
tentando in tutti i modi di escludere quella voce, quella presenza
dalla sua
mente. Passò freneticamente le mani sul collo, aspettandosi
di trovare un solco
profondo e sentendo solo la pelle liscia sotto le dita.
“Cosa sta succedendo?”
“Bambina
mia.”
“È tutta colpa tua.”
“Di cosa mi stai dando la
colpa?”
“Sono morta.”
“Eppure respiri.”
“Io…” Dondolava in maniera
impercettibile, mordendosi
le labbra, stretta nelle spalle, come a volersi proteggere. Era stata
come una
folata, rapida ma preannunciata, sembrava aver rimosso il sudario di
polvere
dalla sua mente. Era il vuoto, che incombeva e si muoveva lento, che
inesorabilmente marciava e nel paradosso la riempiva di nulla.
Sentiva lacrime calde iniziare a scorrerle sul viso.
Strava crollando, era a pezzi.
“Va’ via.” Non avrebbe mia più
ascoltato un suo
ordine.
“Va’ via.” Non avrebbe mai più
parlato con lei.
“Va’ via.” Non sarebbe mai più
stata Sua.
“Non
essere così ingenua.”
“VAI VIA!”
“Non
posso. Lo sai, piccola mia.”
“VATTENE!” Chiuse gli occhi e li strinse con forza.
Era persa nel nulla, lo era anche l’altra, lo erano tutte e
due. E non c’era
nessun posto dove potessero andare per sottrarsi a ciò da
cui stavano fuggendo.
“Cosa dovrei fare?”
“Hai già
dimenticato?”
“Una cosa del genere è possibile?”
“Non c’è altro modo.” Veiler
rimase un attimo in silenzio,
organizzando un’altra volta le informazioni. “Hai
percepito la presenza della
pietra sin da quando l’abbiamo vista la prima volta,
l’hai sempre, sempre,
sentita su di lei, no?”
“È così.”
“Anche quando l’ho uccisa-“
“A dire il vero…” Tentennò un
attimo, poco sicuro di
quello che avesse sentito e poco sicuro delle conseguenze delle sue
parole. Ma
lo sguardo dell’altro lo obbligò a continuare.
“In quel momento è successo
qualcosa di strano. È stato come se la pietra si consumasse,
l’ho sentita più
flebile, ma non come se si fosse allontanata. Ma adesso è
tale e quale a
prima.”
“Quindi non può che essere
così.” Si massaggiò le
tempie realizzando che tutto quello gli avrebbe facilitato le cose.
Sorrise tra
se, mentre Ayn rabbrividiva. “Meglio
così.”
“Come-“
“Non si può cavare sangue da
una pietra, ma da un corpo si.” Disse quasi
tra sé.
Ayn fremette. Quella proprio non ci voleva. Aveva
sperato di guadagnare del tempo, e invece era tutto il contrario; tutto
stava
andando troppo velocemente e ancora doveva parlare chiaramente a Safin,
doveva
ancora organizzarsi.
“Come è possibile una cosa del genere?”
L’altro posò
per un istante i suoi occhi d’oro su di lui per poi tornare a
osservare il
vuoto.
“Lascia che sia Safin a occuparsi di queste cose.”
Passi, passi lievissimi si avvicinarono, e non se ne
sarebbe accorta se questa presenza non si fosse portata dietro il
chiasso di
sonagli e altre cianfrusaglie che erano appese ai suoi abiti.
Quando la porta si aprì vide una donna dalla
carnagione pallida, lunghissimi capelli neri e abiti di un colore che
le
ricordava terribilmente il sangue. Le sorrise, avvicinandosi e posando
al
limitare di un cerchio bianco che contornava un perimetro intorno a
Zaara,
impedendole gran parte dei movimenti, alcuni contenitori e strani
strumenti.
“Ciao piccola.”
Passò la
mano sulla chiazza di sangue che era rimasta sul suo cappotto nel
tentativo di
pulirlo. Il risultato fu allargare ancora di più la macchia.
Il demone fece una
smorfia alzandosi in piedi e dirigendosi verso la porta.
Raven,
svegliato dal suo sonno leggero, lo osservò con occhi
attenti.
“Dove
vai?”
“Dovremo
pur uscire da questa città senza causare un putiferio,
no?” Il Cacciatore non
rispose. Non aveva pensato a come uscire dalla città e si
maledisse per quello;
ormai tutto veniva registrato e non entravi se prima non ti
identificavi e non
avevi un buon motivo per varcare le mura. Stessa cosa per uscire.
Popolazione e
commercio erano tenuti costantemente sott’occhio.
“Non ti sarai mica registrato
per entrare in città, vero?”
“Figurati.”
“Bene.
Usiamo il solito metodo.” Detto questo allargò un
braccio, il corvo volò
velocemente verso di lui e affondò gli artigli nella sua
manica, prima di
sistemarsi in una posizione comoda. Il demone si fermò un
attimo, soppesando
qualche istante le parole. “A quanto pare in questa faccenda
sono immischiate
tante anime, più di quante credessi, probabilmente molte si
perderanno, io
spero solo che tu non sia una di quelle. Sei un buon cacciatore Raven,
fa attenzione.”
Senza dire altro Valentine uscì dalla stanza, portandosi
dietro quella macchia
nera che aveva iniziato a gracchiare.
Il
Cacciatore sospirò, cercando nelle tasche il suo pacchetto
di sigarette, e con
immenso dispiacere si rese conto di averle finite tutte.
Appoggiò la testa
sullo schienale, sbuffando e fissando il soffitto. Il silenzio era
assoluto,
neanche il letto cigolava e la pioggia si sentiva appena, la ragazza
giaceva
sotto le coperte, immobile come se fosse morta. Lentamente e con un
briciolo di
concentrazione Raven si mise ad ascoltare il battito del proprio cuore.
Si
accorse appena delle palpebre che iniziarono a farsi pesanti, e mentre
respirava con regolarità la sua mente correva, collegando i
suoi pensieri al
sogno.
Le penne erano
perfette e lucide,
circondate da una gabbia piccola e bianca. Un paio di occhi furbi e
intelligenti scrutava oltre quella piccola voliera, inclinando appena
il capo,
facendo luccicare il becco nero come una lama.
“Perché un corvo? E perché dentro
una gabbia?”
“Perché i corvi sono astuti e non
hanno mai paura, volendo troverebbe un modo per uscire da
lì.” L’ uomo guardò
il volatile che gli restituì uno sguardo estremamente
intelligente, Huginn,
l’aveva chiamato il suo maestro.
“Allora perché non lo fa?”
“Perché i corvi sono astuti.”
Ripetè. “Sanno osservare e adattarsi.”
Si accese una sigaretta, aspirando con
forza. Il ragazzino rimase in silenzio, ma lo osservò
chiedendosi quanto suoi
polmoni si avvicinassero al colore delle piume del corvo, che sembrava
ascoltarli in silenzio.
“Domani lo tireremo fuori di lì per
farlo volare, a meno che non sia già uscito da
solo.”
“Perché un corvo? Perché non un
falco?”
“I falchi vivono per essere
addestrati, i corvi, come anche gli umani, no.”
“Quindi si dovrà adattare?”
“È quello che facciamo tutti prima o
poi.”
Il mattino
seguente erano all’aperto,
con loro la gabbia del corvo e qualche boccone di carne secca. Il vento
soffiava lieve creando onde sull’ erba alta, in cielo non
c’era una nuvola e il
sole primaverile scaldava piacevolmente la pelle.
E nonostante quella splendida
giornata il ragazzino sentiva un forte disagio crescere dentro di
sé, aveva già
addestrato diversi falchi, ma mai un corvo, e in quel momento si chiese
se il
suo maestro, nel momento in cui aveva deciso di addestrare un corvo,
non fosse
stato ubriaco. Non aveva idea di come cominciare, come trattare quel
volatile
dallo sguardo penetrante.
Si riscosse quando, dopo aver
fissato a lungo lo sguardo negli occhi neri del corvo, tanto intensi da
sembrare pozzi senza fondo, questo non gracchiò da dentro la
voliera, come a incitarlo
a fare qualcosa.
Spostò lo sguardo sul suo maestro
che con un cenno d’assenso lo incitò ad aprire la
gabbia, mentre il falco
incappucciato sul suo braccio si sistemava le ali.
Quando il corvo zampettò fuori dalla
gabbia si guardò un po’ intorno, spostando
l’attenzione da una persona
all’altra inclinando la testa.
“Cosa devo fare maestro?”
“Osservare.” Il corvo gracchiò
ancora, aprendo appena le ali e iniziando a camminare velocemente e in
modo un
po’ goffo in mezzo all’erba, il ragazzo vide con la
coda dell’occhio l’uomo che
sfilava dal capo del falco il cappuccio.
Quando il corvo si alzò in volo, una
macchia nera come la pece contro il cielo sereno, tre paia
d’occhi erano
puntati su di lui. Volava placido, sbattendo con foga le ali per poi
lasciarsi
cadere e tornare di nuovo su con fluidità.
Il ragazzino osservava e vedeva una
creatura orgogliosa e libera in un cielo che non gli apparteneva.
“Uccidi.” Un fruscio d’ali, aria che
gli sfiorò il volto, poi una sagoma scura si diresse
velocemente verso il corvo
che ancora si stava librando in aria. Lo colpì una volta con
gli artigli prima
di riprovare con il becco, si inseguirono in un fruscio disordinato di
penne.
Il corvo non era veloce come il falco ma con virate improbabili e
movimenti
imprevedibili riusciva sempre a sfuggirgli, fino a che non si
lasciò cadere in
picchiata; il falco lo seguì poco dopo restando a distanza,
attese di vederlo
aprire le ali e planare per piombargli addosso e schiacciarlo al suolo.
Non riusciva a chiudere occhio, o
almeno era quello che aveva creduto, in verità come si era
steso sul letto una
pesante stanchezza lo aveva spinto a chiudere gli occhi. Ma si era
fatto
violenza tentando di tenerli aperti per ragionare un po’ su
ciò che era
accaduto quel pomeriggio. Non piangeva per la perdita
dell’animale, gli avevano
insegnato a non affezionarsi. Ma era rimasto turbato perché
in fondo, e lui lo
aveva capito solo alla fine, non era il corvo che doveva essere
addestrato,
quanto lui.
“I
falchi vivono per essere addestrati, i corvi, come anche gli umani,
no.” Tutti si devono adattare, prima
o poi. E
lui? C’era riuscito? O
quel turbamento
era qualcosa di differente e più profondo che comunque non
avrebbe mai dovuto
mostrare al maestro? Non sapeva. Non sapeva nulla. Ed era una cosa che
odiava.
Stava per
scivolare nel sonno quando
un suono insistente lo ridestò; c’era qualcosa che
batteva con forza contro il
vetro e lui, esausto, tentò di ignorarlo fino a che non
sentì la finestra
incrinarsi. Allora spalancò gli occhi, infastidito
dall’ idea di dover passare
una notte al freddo nel caso la finestra si fosse rotta. Ancora
ignorava cosa
ci potesse essere al di fuori del vetro.
Stessi occhi come pozzi neri senza
fondo, intelligenti. Stesso modo insistente di gracchiare. E
l’incendio sotto
di loro donava riflessi vermigli sulle penne nere.
Bruciava, tutto bruciava. Era un
mare di fuoco, rosso e rovente.
Terrificanti le figure di demoni
informi che correvano fra le fiamme.
Sfigurato il corpo del suo maestro
riverso nel suo stesso sangue.
Orrendi occhi neri su di lui,
inumani e affamati. Roventi.
Atroce il dolore al volto.
Buio.