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Autore: SweetMelany    12/07/2014    1 recensioni
Le strade erano deserte e nessuno avrebbe potuto fare la spia al mio mentore. Eccezion fatta per un giovane. Anche lui mattiniero, si stava dirigendo nella direzione opposta alla mia. Non dovevo agitarmi per così poco. In fondo, proprio come lui, stavo passeggiando e non poteva sapere, e soprattutto dimostrare, quello che ero andata a fare, a quell'ora del mattino. Aveva viso e corpo coperti da un mantello blu oceano. Si notava perfettamente che non era un abitante della cittadella dal materiale di cui era composta la sua cappa: seta. Una stoffa che un semplice abitante non si sarebbe procurato facilmente, o almeno non senza essersi giocato un occhio della testa, quindi doveva far parte della corte. Aveva le spalle larghe, di certo era stato addestrato come tutti gli appartenenti alla sua classe sociale. Mentre camminava teneva il capo chino: un comportamento anomalo, tenendo in considerazione la sua probabile discendenza. Quando gli passai vicino sentii chiaramente un forte profumo di cenere e di muschio fresco.
Un odore del genere poteva provenire solamente da…
Appena quel pensiero mi sfiorò la mente, il giovane si voltò a guardarmi, trafiggendomi con i suoi bellissimi occhi turchesi.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Galvano | Coppie: Gwen/Artù
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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UNO
 Diciassette anni dopo
 
 
 
 
 
- Dove vanno depositati questi? – domandai, tenendo tra le braccia dei cocci di legno che sarebbero serviti allo scopo di riscaldare le stanze della corte. L’inverno si stava lentamente avvicinando, annunciandosi con ventate gelide e settimanali piogge autunnali, e dovevamo prepararci per il cambio di stagione. Motivo per il quale nel castello erano tutti in agitazione e stressati continuamente con richieste di ogni tipo, come consegnare piatti dalla cucina alle stanze dei lord, cambiare le tende della sala del trono o, come nel mio caso, trasportare pezzi di legname per aumentare il tepore degli ambienti.
Questo era sicuramente il periodo dell’anno che detestavo maggiormente. Tutti rispondevano male non appena qualcuno poneva una semplice domanda, e questo solo perché venivano distratti dai loro attuali compiti.
Come se non fosse abbastanza, quel giorno ci sarebbe anche stato un banchetto e, sfortuna voleva, io mi trovavo a dover lavorare proprio nelle cucine. Fino a pochi minuti fa stavo tagliando le verdure per fare lo stufato o per utilizzarle come ripieno del filetto di cinghiale, finché Jaclyn non mi era venuta a chiamare, chiedendo aiuto con le faccende domestiche. All’inizio ero stata sollevata, felice di poter uscire da quell’inferno governato dalle cuoche e da Agnes.
Avevo cantato vittoria troppo presto.
- Poggiali pure qui sopra – mi rispose una delle molte serve indaffarate.
La mia condizione poteva essere vista sotto diversi punti di vista, e dal mio ero molto fortunata. Dato che appartenevo a uno dei ranghi più inferiori delle ancelle, se avessi commesso uno sbaglio o avessi dimenticato di svolgere un compito, non sarei stata incolpata o sanzionata dal Re in persona.
Mi costava tanto ammetterlo, ma era grazie al mio mentore che mi trovavo in una situazione così agiata e concordante alle mie esigenze. Non mi piaceva ricoprirlo di complimenti e lui era più che abituato al mio comportamento freddo e distaccato, anche se le persone erano solite lusingarlo per le sue numerose doti. Ma io pensavo che, nonostante fosse una persona anziana e ancora intelligente e capace di dare lezioni e di regalare qualche perla di saggezza ogni tanto, non meritasse il mio interesse. Certo, mi aveva accudita e accolta in casa sua – sapevo benissimo di essere stata abbandonata e molto probabilmente di essere un’orfana – ma non volevo lodarlo troppo per questo. Svolgevo i miei compiti ed eseguivo i doveri a me assegnati. E questo era sufficiente.
 - Gwen! -. Mi voltai, anche se sapevo già chi era la proprietaria di quella voce squillante.
- Non restartene lì impalata! Vieni a darmi una mano – mi rimproverò Jaclyn, stracolma di piume tenute scomodamente e in modo precario tra le gracili braccia.
Sorrisi divertita. Aveva un che d’ironico considerando quanto fosse magra e, nonostante questo, quanta roba riuscisse a trasportare.
Presi metà del bottino e l’aiutai con molta calma a infilarlo nelle fodere dei cuscini. Era strano pensare che persino quelli richiedevano un cambiamento con il passare del tempo. Mi veniva quasi voglia di sparpagliare tutte quelle piume per la stanza, per il castello, andando a dare cuscinate a chiunque passasse, persino al Re se fosse capitato lì per caso. Ma ho detto quasi.
Da quel che avevo sentito dire dagli altri servitori – i fedeli aiutanti della famiglia del sovrano – i reali erano molto viziati e questo doveva essere uno dei loro tanti capricci. Chissà se erano talmente delicati da accorgersi del cambiamento delle piume… Una volta, quando ero piccola, il mio tutore mi aveva raccontato una storia: si concludeva con una ragazza sdraiata su un’infinità di materassi sotto i quali era schiacciato un pisello. Lei se n’era accorta, nonostante tutta la distanza che li separava, perché era di sangue reale. Io a quei tempi avevo pensato che se era davvero così, non ci voleva poi tanto per diventare principessa se era richiesto solo di dormire scomodamente. E anche in quel momento lo pensavo. Di tanto in tanto andavano a far visita al sovrano delle principesse provenienti da regni vicini. Erano tutte viziate e incapaci di tutto se non lamentarsi dalla mattina alla sera. Dunque avere la testa vuota serviva solo a riconoscere gli errori degli altri o a sottolineare la mancanza o l’aggiunta di qualcosa. Nel caso della storia, di un pisello.
 
 
In più di un’ora avevamo riempito a malapena quindici cuscini. Ovvio, era il nostro lavoro e lamentarsi era più che inutile, considerato anche che non sarei stata l’unica se avessi espresso i miei pensieri ad alta voce.
In compenso, erano arrivate in nostro soccorso altre tre ragazze, grazie al cielo. Alzai lo sguardo per osservarle. Indaffarate com’erano, non si accorsero minimamente delle mie occhiate. Dovevano avere all’incirca la mia età, anche se due di loro erano già felicemente sposate. Mi chiesi cosa provassero convivendo con un uomo, trascorrendo la maggior parte del tempo con lui, dipendendo completamente da qualcuno che non fossero loro stesse. Chissà se io mi sarei comportata in egual modo…
 Jaclyn fu l’unica ad accorgersi della mia breve pausa, anche se non fece la spia. Si asciugò la fronte sudata con il dorso della mano e sapevo con certezza che, come la mia, la sua era altrettanto ricoperta di calli. Le rivolsi un sorriso, che lei ricambiò con gentilezza, anche se nei suoi occhi potevo leggervi una leggere confusione, forse dovuta alla stanchezza. Riabbassai la testa, presi una manciata di piume nel pugno e le infilai nella fodera senza proferire parola. Mi ci vollero alcuni minuti per accorgermi che Jaclyn era rimasta a fissarmi, come io avevo fatto con le nostre aiutanti poco fa. Alzando lo sguardo notai che nelle sue pupille non era affatto scomparsa quella luce che vi aveva scorto prima e che credevo fosse confusione. In quel momento invece mi resi conto che si trattava più di un’esigenza, come se non potesse trattenersi dal dire qualcosa, dallo svelare un segreto.
- Come ci riesci? – mi chiese. Ah, e così si trattava di una domanda. Voleva semplicemente pormi un quesito.
- Come riesco a fare cosa? -. Adesso ero io quella confusa tra le due.
Poi, un flash mi passò per la mente e per un istante mi immobilizzai. Che lei sapesse?
Lasciò andare la federa di cotone che teneva tra le mani. – A fare tutto questo, a eseguire un lavoro tanto umile e sorridere, come se fosse la cosa più bella al mondo… - spiegò, gesticolando e facendo svanire le mie preoccupazioni.
- Non so di cosa parli. Per me è un compito come un altro – mi giustificai.
Lei mi lanciò un’occhiata scettica. Adesso aveva negli occhi una luce diffidente e indagatrice. Infine scrollò la testa, come per cercare di dimenticarsene e andare oltre e sperai con tutta me stessa che lo sguardo che avevo scorto pochi attimi fa fosse svanito davvero.
Jaclyn poteva essere molte cose, ma di sicuro non era un’ingenua.
- Allora, come sta andando? – domandò Agnes, irrompendo all’improvviso nella stanza e facendo sobbalzare tutti i presenti. Era sempre stato merito di quella donna se avevo svolto diligentemente i miei compiti, quindi per me era una figura di autorità e rispetto. Questo ovviamente esclusivamente entro le mura della fortezza. Agnes mi riempiva costantemente di promemoria e mi colmava il tempo che passavo al castello con faccende di ogni tipo, anche se le andava riconosciuto che quando si rivolgeva a qualcuno, chiunque fosse, usava dei toni di voce rispettosi e gentili. Non mi lamentavo sapendo delle voci che giravano riguardo a Claire, un’altra addetta alle supervisioni, la quale si adirava anche solo per una camicia un po’ sgualcita o per un pollice di polvere che andava rimosso.
- Andrebbe meglio se avessimo qualche minuto di riposo – intervenne una delle giovani aiutanti. Mi pareva che il suo nome fosse Dyan. L’avevo incontrata più di una volta al mercato nella cittadella, mentre razziava i banconi delle vivande.
- Bene, basta per oggi con i cuscini. Vi consiglio di dirigervi subito alle cucine. Lì che abbiamo davvero bisogno di una mano – comandò, usando il solito tono imperioso che sfoggiava tutte le volte che si rivolgeva a più di cinque persone.
Nella stanza risuonò un borbottio generale di disapprovazione ma, come al solito, quando Agnes dettava legge, tutti obbedivano.
Io e Jaclyn non ci scambiammo altre parole. Ci conoscevamo da quando aveva iniziato a fare l’apprendistato qui, anche se l’avevo già intravista diverse volte per le vie della Città Bassa, intenta a comprare alimenti per lei e per il fratello minore. Avevo saputo che i loro genitori erano morti a causa di una strana malattia che aveva invaso tutta Albion e di cui non vi era alcuna cura. Fortunatamente, essa era stata debellata, anche se prima aveva fatto molte vittime, tra cui la Regina Elderea. In un certo senso, era stata una sorte di rassicurazione per il popolo, visto che confermava il fatto che non solo i comuni contadini incappavano nelle disgrazie mal desiderate.
Nonostante Jaclyn non avesse raggiunto la maggiore età, come me del resto, aveva comunque iniziato a cercare un impiego per mantenere entrambi e si era rimboccata le maniche. Era ancora parecchio inesperta, ma comunque migliorata rispetto a otto mesi fa.
Il resto della giornata trascorse lentamente e, tra una faccenda e l’altra, non mi accorsi che il sole stava già tramontando dietro la collina.
Jaclyn se n’era andata prima di me, così salutai Agnes e mi diressi sulla via di casa. Lasciai la fortezza, salutai le guardie di controllo ai cancelli che dividevano la Città Alta dalla Cittadella e mi diressi alla mia dimore, dove mi attendeva il mio tutore, colui che si era preso cura di me in tutti questi anni: Galvano.
 
 
I focolari nelle case si stavano a uno a uno accendendo, rischiarando almeno un pochino le strade. Ormai la luce diurna era allo stremo e le guardie stavano accendendo le fiaccole che percorrevano e illuminavano le vie di notte.
Quando passavo e incontravo qualcuno a me conosciuto lo salutavo cordialmente, il che capitava spesso. Conoscevo quasi tutti i miei compaesani e non passavo di certo inosservata, visti gli indumenti che portavo, per niente adatti a una giovane donna. In verità non c’era un vero e proprio regolamento – o almeno non uno scritto – che sanzionava il vestiario che una persona deve avere nell’ambito lavorativo. Così, al contrario delle mie colleghe, io indossavo un paio di pantaloni di pelle marron al posto di una gonna lunga di lana, accompagnati da cintura e stivali che mi arrivavano al ginocchio, con due centimetri di tacco. Sopra la vita indossavo una maglia rossa di cotone a maniche lunghe, con uno scollo a V, mentre i capelli erano acconciati in una crocchia da cui spuntavano riccioli ribelli. Lo chignon era l’unica regola che mi veniva imposta e che non poteva essere infrante: serviva per identificare il mio rango.
Varcata la soglia di casa, mi lasciai ricadere i lunghi capelli corvini sulla schiena, slegando quel concio che odiavo tanto: lì non ero obbligata a tenerlo.
- Gwennyfer! – mi chiamò una voce dalla fine della stanza.
- Quante volte ti ho ripetuto di bussare prima di entrare? – rimproverò Galvano.
- E io quante volte ti ho ripetuto di non chiamarmi col mio nome completo? – risposi io a tono. Detestavo quando faceva così. Sapevo che ribattere in questo modo non avrebbe fatto altro che aggravare la situazione, incitandolo a cominciare la solita tiritera che mi rifilava ogni sera. Ma era più forte di me: non resistivo, ero troppo impulsiva.
- Se non sento bussare e vedo entrare qualcuno senza che questo si annunci, mi viene da pensare che siano le guardie, o peggio! – si giustificò lui.
sicuramente si stava riferendo ai banditi. In città giravano parecchie voci di gente aggredita nei vicoli o nelle proprie case, fuori dalla taverna o di ritorno dagli orti. È vero, vi erano alcune guardie che presidiavano le strade, ma a volte non bastavano. Soprattutto quando queste si addormentavano sul posto con la testa appoggiata alla spalla o si ubriacavano prima di arrivare. Il Re si pensava fosse all’oscuro di tutto questo, dato che non si decideva a mandarne altre più efficienti, per sostituire quelle che vi erano in quell’istante. Ma io non ero solita a pensare il meglio dai reali, soprattutto visto e considerato che erano anni che questo problema invadeva la Cittadella. Ma a quanto pareva, io ero stata la prima ad accorgermene. Forse per il fatto che tutti erano troppo impegnati o eccessivamente egoisti da pensare solo a loro stessi e da non interessarsi se il vicino di qualcuno veniva aggredito. Adesso però le uccisioni erano così tante che era impossibile contenere la preoccupazione e il panico delle persone.
- Non è colpa mia se sei paranoico – ribattei sottovoce. Galvano era una delle persone più caute che conoscessi e la causa era probabilmente la saggezza acquisita in tutti questi anni trascorsi a Camelot. Non ne ero completamente sicura, ma ormai doveva aver raggiunto gli ottant’anni – una rarità per una persona di quest’epoca. Aveva il viso ricoperto di rughe e il capelli grigi gli arrivavano alle spalle. Gli occhi castani scuri brillavano ancora, il che era una contraddizione considerata la sua vecchiaia.
Le mani nodose mi fecero cenno di accomodarmi a tavola, indicando che era ora di cena. Mi sedetti senza troppe cerimonie e lo sguardo del mio tutore mi seguì, incuriosito, probabilmente per sapere com’era andata la giornata al castello. Me ne restai zitta mentre mangiavamo: era il mio modo di comunicargli che era tutto a posto. Da quel che ne sapeva lui, io non ero il tipo di persona che nascondesse qualcosa. Se avevo delle difficoltà o ero terrorizzata da qualcuno o qualcosa glielo riferivo immediatamente.
Da fanciulla osservavo incuriosita i bambini della mia età. La maggior parte di essi possedeva una madre e un padre ed era normale per me domandarmi come mai io non fossi come loro. Io esposi subito il mio quesito infantile a Galvano, il quale mi rispose parlandomi per la prima volta dei miei genitori. Disse che mi avevano affidato a lui per proteggermi, dato che era un loro fedele amico. Aggiunse anche che non mi avevano tenuta a causa delle ingiustizie che ottemperavano allora. Da quel momento, il mio unico desiderio era stato saperne sempre di più e cercavo ogni volta che potevo di prendere il tutore in contropiede con qualche domanda a trabocchetto, a cui lui ovviamente non cascava mai. Mi ero sempre ripetuto che l’avevano solo fatto per il mio bene, che per questo erano stati altruisti pensando prima di tutto a me che a loro, ma non riuscivo comunque a capacitarmene: mi aveva pur sempre abbandonata. Che non ne avessero davvero potuto fare a meno? Per essere sinceri, non ero interessata tanto al fatto che fossero ancora vivi oppure morti. Per me rimanevano dei completi sconosciuti. E io e Galvano ce l’eravamo cavata piuttosto decentemente in questi diciassette anni, anche se litigavamo abbastanza spesso. Il mio mentore era capace di tenere il muso per due settimane di fila, se necessario, senza rivolgermi una parola per tutto il tempo. E tutto solo per farmi sentire in colpa per aver commesso una qualche bravata innocente. Così alla fine toccava sempre a me fare la prima mossa, arrendermi ai suoi silenzi, per cercare di riappacificarci. Sapevo che il suo era solo un ulteriore tentativo per cercare d’istruirmi e insegnarmi a essere paziente. E non cedeva nonostante fossi in un’età difficile, non cercava nemmeno di fare un semplice sforzo, provando a venirmi in contro.
Quando fui sazia mi alzai dalla panca. Ma la voce di Galvano mi bloccò prima che riuscissi a portare la mia scodella dal secchio per pulirla dagli avanzi.
- Ah dimenticavo… stasera tocca a te rassettare -.
Trasalii a quelle parole.
- Come? Ma se l’ho fatto la scorsa settimana! -. Ero sconcertata. Adesso cercava pure di provocarmi? Era un nuovo metodo, per caso? E quale sarebbe stata la lezione?
- È vero. Ma vedi… io ormai ho raggiunto un’età in cui i lavori domestici non fanno più per me… - divagò lui. Strinsi i pugni dalla rabbia.
- Ah sì? E sentiamo: quando anni avresti? – gli chiesi con tono di sfida. Non l’aveva mai ammesso prima e io avevo sempre dovuto tirare a indovinare.
- Non ribattere Gwen! Devi cominciare a portare rispetto agli anziani come me. E se la persona che è responsabile di te t’impone di fare una determinata cosa, tu non devi stare a domandarti il come o il perché e devi eseguirla, capito? È una questione di disciplina! -.
Non capivo proprio come facesse, ma riusciva sempre – e dico sempre – a cavarsela a parole.
E scovava sempre una lezione da infliggere dove in verità non ve n’erano. Affermava che era per educarmi meglio, ma io non me la bevevo affatto. Semplicemente si divertiva a mettere becco in ogni mia osservazione e io vi ero ormai abituata.
Sbuffai con aria rassegnata.
Mi armai di secchio e strofinaccio e iniziai a ripulire il pavimento di legno. Era già ricoperto di uno strato di sudiciume, nonostante non fosse passato molto tempo. Non riuscii a trattenermi dal borbottare maledizioni e dall’inveire contro Galvano. Perché toccava sempre a me svolgere questi lavori scomodi?
Il mio tutore nel frattempo si era diretto in camera, probabilmente per stendersi e riposare dopo una giornata faticosa. Perché ovviamente la mia non lo era stata affatto, pensai adirata, premendo con più forza la scopa sul pavimento.
Il motivo del suo continuo affaticarsi mi era ignoto, per quanto cercassi di indagare non ero a conoscenza di cosa Galvano facesse durante il giorno. Tentai di non pensarci troppo mentre mi rimboccavo le maniche e iniziavo a risistemare.
 
 
Quando finii era mezzanotte passata. Lo capii dalla posizione della luna; la sua luce filtrava dalla finestra, dove avevo appena pulito le imposte.
Ero stanca morta e fra poche ore sarei dovuta partire alla volta del palazzo. Non potevo inventare una qualche scusa per rimanermene a letto tutta la mattina perché quello spione di Galvano lo sarebbe andato a riferire subito ad Agnes, ne ero sicura. Tuttavia, non l’avrei fatto in ogni caso. Dopo tutto quello che Agnes aveva passato per aiutarmi a inserirmi in modo piacevole nel personale del castello non potevo ripagarla in questo modo.
I miei pensieri furono interrotti dal cigolio di una porta. Per un istante pensai si trattasse di Galvano, alzatosi per venire a controllare il mio operato. Ma poi mi accorsi che il rumore veniva dalla porta di ingresso.
Sein fece la sua comparsa sulla soglia, senza annunciarsi in alcuna maniera (una brutta abitudine che ci accomunava).
A quanto pareva, quella notte non avrei trovato il tempo di riposare.
Scambiandoci un’occhiata d’intesa, si avvicinò. Io protesi l’indice alle labbra, per comunicargli di fare silenzio, e indicai con lo sguardo la porta, aldilà della quale dormiva il mio tutore. Lui capì al volo e si limitò ad annuire. Appoggiò una chiave di ferro rozza sopra al tavolo che avevo appena lucidato. Fatto questo, si girò e uscì dalla dimora con uno sguardo di ammonimento nelle iridi nocciola. Annuii a mia volta. Aspettai che lui si fosse dileguato e misi a posto gli attrezzi da lavoro, prima di dirigermi con passo veloce e felpato all’uscio. La mia mano stringeva con sicurezza la chiave, afferrata poco fa. Quel gesto aiutava a calmarmi dall’eccitazione e dalla gioia che avevo provato nel vedere Sein e che cresceva mano a mano che camminavo. Un altro aspetto positivo nell’avere un paio di guardie incapaci? Non si accorgevano nemmeno se qualche minorenne violava il coprifuoco.
Arrivata al cancello che delimitava il confine tra la Cittadella e la Città Alta, osservai le guardie che lo sorvegliavano. Queste erano tutta un’altra storia confronto alle nostre. Ma io ero preparata: avevo imparato a memoria il tempo in cui le guardie si alternavano per darsi il cambio e riposare.
Dovetti aspettare solo un quarto d’ora all’ombra delle torce prima che gli uomini si allontanassero di dieci passi dalla grata, lasciandomi uno squarcio in cui potei passare. Corsi veloce sul terreno sabbioso, smorzando più che potevo i passi e l’agitazione.
Passata l’arcata trassi un sospiro di sollievo.
Attesi ancora un istante, ascoltando che nessuno si fosse accorto del mio passaggio clandestino all’una di notte e, quando ne fui certa, andai dritta alle scuderie. Era un bel sollievo che non esistessero più i Cavalieri e che al loro posto ci fossero delle guardie incompetenti, altrimenti a quest’ora sarei rinchiusa nelle segrete. Per di più a metà settimana i soldati venivano sempre mandati a compiere missioni, al di fuori del bosco, anche se nessuno era a conoscenza del motivo e di dove si dirigessero. Ci avevo riflettuto a lungo, ma non vi erano mai stati tentativi di attacco da parte di regni adiacenti o forze nemiche, quindi quale poteva essere un’altra ragione?
Giunta alla tanto agognata meta, infilai la chiave nella serratura malandata e, lanciandomi un’ultima occhiata alle spalle, entrai.


 
   
 
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