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Autore: Venenum    13/07/2014    6 recensioni
Era stato lì – l’aveva baciata, spinta contro il muro, animale ferito. Le aveva sfiorato il seno, curioso appena, slacciato il primo bottone. Quando aveva abbassato lo sguardo, lo aveva visto diverso, con le guance rosse, le labbra gonfie, il volto rigato di lacrime. Hermione non si era ritratta – non aveva potuto. Non per la sua stretta, che pure forte, era facile da sciogliere.
“Scusa, Granger.”
Era sparito un attimo dopo.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Hermione, Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Come sogni tra le dita
 
Prima Parte
Era dicembre a morirci addosso – diciannove mesi dopo
 
Hermione aveva sognato, quella notte – morso il cuscino come una mela. Si era stretta tra le lenzuola bianche, umidicce, aveva deglutito. Era il caldo dentro, che avvertiva; nel suo viaggio notturno aveva adocchiato, tra le foglie secche della Foresta Proibita, la fiammella di una candela, gli ultimi sputi di un fuoco mai chetato. Le succedeva spesso, di ritrovarsi a Hogwarts, di correre per i corridoi – alle scale piace cambiare – costretta nell’illusione di una sera. In sottofondo, mesta, udiva la musicalità lineare di un carillon, confusa con le ultime gocce di un amore fugace, e baci di luce su nasi appuntiti.
“Mh,” mugugnò, rigirandosi il cuscino tra le guance. Non si sarebbe mai più addormentata. Era forte l’istinto di mettersi a sedere, schiena contro cuscino, a sfogliare un buon libro, cercare tra le parole la stessa impronta che faticava a lavarsi via di dosso, che fungeva da vetro contro qualsiasi altra emozione. Si soffermò a lungo sulla finestra, la neve era sputata leggera dall’alto, e sottile imbiancava ogni contorno; sui cespugli di rose rosse del suo giardino, la cassetta delle lettere, il lampione di fronte che, a intermittenza, bagnava di giallo le strade.
A piedi nudi, dalla sua camera si diresse in cucina – scivolava nel silenzio della casa, fantasma d’altri tempi. Si ritrovò dinanzi allo specchio: la camicia bianca che indossava apparteneva a Ron. Era andato a trovarla la settimana scorsa, e l’illusione scorreva ogni giorno uguale, fratello del precedente, come galleggiante nello stesso liquido amniotico. Dal suo volto trasparì la strana malinconia delle giornate d’autunno, quando sembrava piovesse – che la pioggia colasse dal cielo, prepotente – ma non era altro un gioco da sciocchi, l’inganno del cervello per richiamare i ricordi e imprimerli negli occhi.
Confusa, annusò il colletto, le rimase una ciocca di capelli incastrata tra le dita. Ebbe un moto di riso isterico, diede un pugno leggero allo specchio, ritornò sui suoi passi, strinse ancora i denti, fino a sentire la mandibola scattare. Socchiuse le palpebre, per un momento, e voltandosi si diede le spalle. Camminò sino al frigo, tirò fuori un po’ di latte. L’aiutava a dormire. Se ne versò un bicchiere generoso, leccandosi appena il baffo bianco sopra le labbra.
(Un gesto involontario,
quello di ritornare a casa,
aspettami sempre,
più a lungo che puoi.)
Tornò a letto che scintille di alba le morivano sulla pelle, e coprendosi il corpo ritornò a sognare. Saltava da un tronco all’altro, con la bacchetta in mano, raccoglieva fiori che nulla del dolore avevano mai conosciuto. Staccava le margherite, era di nuovo un’adolescente, nessuna ruga, nessun pezzo di cuore a infradiciarsi nel fango.
Era figlia di un pensiero fisso.
L’aspettava dall’altra parte del fiume.
 
Seconda Parte
Ferma alla stazione – diciannove anni dopo
 
“Ciao.”
Draco e Hermione si incrociarono a Diagon Alley il settembre di un anno che entrambi avrebbero volentieri dimenticato. Draco aveva seppellito sua madre – l’incanto di una vita – mentre Hermione aveva dimenticato come si faceva a ridere. Era stata lei a salutarlo; aveva riconosciuto il biondo tirato, lucido, che solo un Malfoy aveva, dei suoi capelli. Era cambiato, Draco – lo aveva trovato più magro, spoglio di quell’aria tronfia di cui si era sempre agghindato.
“Ciao, Granger. Ti trovo bene.”
“Sciocchezze, Malfoy. Tu, piuttosto. Mi dispiace… per tua madre. E quello che è stato scritto…”
“Sì, proprio un bell’articolo di giornale, la solita Rita. Grazie, comunque. Ora devo andare, non sono da solo,” occhieggiò alla sua destra: Astoria stringeva la mano di Scorpius, e gli indicava il negozio ch’era stato di Olivander. Il bambino aveva gli occhi pieni di meraviglie. Assomigliava a Draco, era come guardare dall’altro lato di un coltello la stessa persona.
“Ci vediamo,” gli disse, e suonò la bugia ch’era, l’illusione di potere scavare il muro del tempo e rimanere abbracciati in un ballo di eterno.
“Certo,” la voce gli mancò per un momento. Si incrinò, punta di ferro arroventata contro la carne.
Hermione inspirò. Combatté se stessa, sforzandosi di non ripensarci più; di non soffermarsi troppo sulle linee del corpo di Draco, che per una notte al buio aveva conosciuto. Ché all’immaginazione non aveva più nulla da chiedere. Lo aveva respirato, e vissuto, le aveva pianto addosso, mormorandogli scuse che avevano lo stesso sapore del sale.
“Ehi, ‘Mione, eccoti,” Ron le corse incontro, prostrato. Fu un secondo e sempre, ritrovarsi nei suoi occhi verdi di prato, casa mobile, fondamenta che avevano costruito, seppure a fatica, insieme. Basi che nessun terremoto sarebbe stato mai capace di indurre al crollo.
“Ho già visto Harry, James lo sta facendo impazzire, urla contro il fratello che gli farà un sacco di scherzi non appena arrivati a scuola! Mi sembra di rivedere… sì, ecco, ti volevo dire che Rose è da George al negozio, Hugo è con Ginny e Lily. Devi andare subito al Ministero o ti fermi ancora un po’?”
Hermione inarcò le sopracciglia. “Penso che andrò subito al Ministero, devo sbrigare delle pratiche. Tieni tu d’occhio i bambini? Ci vediamo a casa per cena.”
Lo vide triste, d’un tratto, incurvare le labbra in un sorriso da pagliaccio. “Capisco. Be’, a dopo, allora,” un bacio delicato, sul labbro superiore, che pure aveva avuto la stessa consistenza della schiuma. Ron tornò indietro. Hermione fece un sospiro, e una parola si spense in gola.
(Ferma dove
erano rimasti
tutti gli arrivederci.)
 
Terza Parte
Mancanza e vento: ricordo – ventidue anni dopo
 
Era successo una sera di Maggio, a un anno esatto dalla Grande Guerra. Hermione era tornata a Hogwarts per diplomarsi. Era stata nominata Prefetto. Nei corridoi della scuola si respirava l’ossigeno di tutti i morti, i feriti – Voldemort aveva incontrato la sua fine proprio dove gli studenti stavano cenando con tacchino e sandwich. La preside McGranitt aveva allestito inizialmente delle aule, mentre una parte del castello era stata devastata. Nessuno osava avvicinarcisi. L’estate successiva la ristrutturazione sarebbe stata ultimata, e Hogwarts sarebbe tornata come prima, se non per un piccolo scorcio, in cui avevano detto che avrebbero costruito la statua di Fanny, la fenice di Silente, alla memoria di tutti i presenti che avevano lottato contro Voldemort e il suo esercito di Mangiamorte.
Erano stati i Malfoy i principali finanziatori. Harry aveva protestato, ma ognuno doveva conoscere il proprio prezzo. Ognuno di loro aveva qualcosa da farsi perdonare. Lucius era riuscito a scampare la prigionia ad Azkaban grazie ad alcuni documenti segreti che aveva ceduto a Harry. Nessuno aveva mai saputo cosa c’era scritto, neppure Hermione, che in quanto a segreti era una tomba. Tuttavia, nessun Mangiamorte era in libertà, e molti di loro avevano trovato la morte qualche settimana dopo la scomparsa del loro Signore.
Anche Draco era tornato a Hogwarts.
Mangiava in disparte, in un angolo del tavolo dei Serpeverde, mantenendosi a distanza da tutti. Gli avevano dato il distintivo da prefetto, e lo aveva rifiutato, ma era l’unico diciassettenne di quell’anno a presenziare alle lezioni. Hermione sapeva che era stato chiamato dalla McGranitt, e che era venuta Narcissa a parlargli.
Durante tutto l’anno, non aveva trasgredito nessuna regola ed era stato silenzioso nei gesti, nelle punizioni. Tutti lo temevano, e al tempo stesso lo ignoravano. Hermione aveva provato solo una volta ad avvicinarsi, ma Draco aveva raccolto le sue cose dal tavolo della Biblioteca, ed era fuggito via, lasciando nell’aria l’effluvio dell’infelicità.
Era successo una sera di Maggio.
Hermione stava percorrendo i corridoi, stanca, aveva studiato china sui libri per tutto il giorno. Cominciava ad avvertire il peso delle parole, sulla schiena. Puntava la bacchetta, che sprizzava scintille di luce rossa. Aveva sbagliato piano – alle scale piace cambiare – e lo aveva incontrato.
“Ciao,” gli aveva detto, piano, per non svegliare istinti più forti.
“Che cosa c’è?”
“Nulla, ho… mi sono persa, succede. Ero sovrappensiero, non volevo disturbarti.”
“Nessun disturbo,” Draco si accigliò. “Ti va di terminare il giro con me?”
Hermione aveva avuto paura. Non di Draco, ma di se stessa. Aveva preso a tremare, e mettere insieme qualche frase era stato difficile, come soffrisse di rotacismo. “Okay,” aveva replicato, andando al suo fianco.
Draco non aveva sorriso, si era limitato a respirare. Avevano camminato cinque minuti insieme, distanti, due pianeti lontani, cose che collidevano.
“Come stai?” si era informata Hermione.
“Io sto bene. Stanco.”
“Non hai parlato molto quest’anno.”
“Neanche tu.”
“Non c’è stato molto da dire.”
Avevano raggiunto la Sala Grande. Dovevano salutarsi. Draco si era voltato verso di lei. Aveva provato a toccarla – mano ritratta, come incenerita. Era stato lì – l’aveva baciata, spinta contro il muro, animale ferito. Le aveva sfiorato il seno, curioso appena, slacciato il primo bottone. Quando aveva abbassato lo sguardo, lo aveva visto diverso, con le guance rosse, le labbra gonfie, il volto rigato di lacrime. Hermione non si era ritratta – non aveva potuto. Non per la sua stretta, che pure forte, era facile da sciogliere.
“Scusa, Granger.”
Era sparito un attimo dopo.
Ventidue anni dopo, Ron le avrebbe chiesto se rammentava ancora il loro primo bacio – Hermione avrebbe risposto di sì, solo che aveva confuso il ricordo, sforzandosi, ed era rimasta incagliata in un sogno.
 
Quarta Parte
Il nodo gordiano – quarant’anni dopo
 
C’era una rosa bianca, sulla lapide di Hermione.
Rose Weasley andava a trovare la madre ogni prima domenica del mese. Di ritorno dalla colazione con Lily Potter, si fermava al cimitero. Nessuno lo sapeva, a parte lo zio Harry. Aveva chiesto al padre, se portasse mai fiori freschi alla mamma, ma aveva cambiato discorso e le orecchie gli erano diventate rosse. Segno che, forse, non onorava i morti più di quanto fosse concesso al suo animo.
Rose aveva scoperto la verità un giorno di Settembre. Non era domenica, ma mercoledì. Percorreva il tragitto, stringendo le solite calle, e lo aveva visto di spalle, piangere nei sussurri del vento. Rose non si era avvicinata. Non era riuscita a muovere più un passo – paralizzata.
Avrebbe riconosciuto quei capelli tra mille. Gli stessi di un altro, lo stesso che qualche anno prima le aveva chiesto di sposarla. Era Draco.
Prima che potesse tornare indietro, Draco si voltò verso di lei. Non le lasciò scelta, se non accostarsi. Era lui – l’uomo delle rose bianche. Le loro famiglie non si erano mai frequentate. Cordialmente, il giorno di Natale, si scambiavano i biglietti d’auguri e regali che mostravano le carenze di affetto e conoscenza. Suo padre, poi, odiava Malfoy Senior, e ogni volta che quello gli voltava le spalle, sputava alla sua sinistra.
“Perché rose bianche?” gli chiese. La verità non era stata creata per curare, era la parte dell’incisione, il momento in cui si scavava dentro.
“Per il silenzio.”
Con cui l’aveva amata.
Tornarono a casa che scendeva la neve.
   
 
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