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Autore: London Eyes    14/07/2014    0 recensioni
"Per non pensare al passato, cercai di concentrarmi sul presente. Che cosa ero io? Un ragazzo, ormai dimenticato dalla società, un “asociale” come dicevano in tanti, oppure “ il Lupo Solitario” come invece starnazzavano quelle ochette della quinta, ma sarei sempre ricordato come “ Zayn Jawaad Malik, il figlio dell’assassino”."
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tirai due boccate e sbuffai, creando un immacolato anello di fumo che fluttuò dissolvendosi. L’aria era frizzante e penetrava nelle ossa facendomi rabbrividire. La mia giacca di pelle nera, non bastava per coprirmi e tenni duro fino ad arrivare a scuola. Il mio fiato formava nuvolette bianche che odoravano di fumo e caffè, un miscuglio di odori che mi elettrizzava. Il sole faceva capolino da dietro ai palazzi e i suoi deboli raggi andavano ad illuminare a sprazzi il tenue grigiore dell’asfalto, creando giochi di luci che variavano dal giallo, all’arancione e al grigiastro. Presi  la sigaretta e l’appoggiai delicatamente alle labbra, aspirandone l’essenza che mi tranquillizzava ogni volta, facendomi dimenticare il mondo circostante. Mi svegliai che mamma era ancora a letto e dormiva, respirando piano  con quel fare ancora da bambina. Assomigliava tanto alle mie sorelle, soprattutto a Safaa, la mia tenera e dolce sorellina… che riposa in pace tra gli altri giacigli, nel cimitero del paese. La mia anima è ancora in tumulto per la perdita di Safaa, mentre la sua è ancora da rivendicare, dopo quell’atto imperdonabile di quel farabutto di  mio padre, o dovrei dire un uomo senza dignità e merito di compassione, Yaser. Cercai di non pensarci, di scacciare via quei ricordi che impestano ancora casa nostra, che la rendono un luogo colmo di agonie e dolori. Per non pensare al passato, cercai di concentrarmi sul presente. Che cos’ero io? Un ragazzo, ormai dimenticato dalla società, un “asociale” come dicevano in tanti, oppure “ il Lupo Solitario” come invece starnazzavano quelle ochette della quinta, ma sarei sempre ricordato come “ Zayn Jawaad Malik, il figlio dell’assassino”. Era per questo che tutti mi temevano a Bradford. O almeno la maggior parte delle persone. Ero quello visto male da tutti e che non aveva un cuore. Si, il cuore non l’avevo ma, semplicemente perché, me lo ruppero  anni fa, quando tutto sembrava non avere lieto fine. Stop. Non avrei dovuto pensarci! E invece  ogni pensiero si collegava a quel fatto, che avrei voluto tanto, poter cancellare. Ritornai sui miei passi e, cominciai a guardarmi le Blazer nere che andavano avanti e indietro, avanti e indietro, ad ogni mio movimento. Il vento cominciò a soffiare come l’alito di un uomo cattivo e arrabbiato, che ogni sera torna a casa tardi, mezzo ubriaco, come era mio padre. Afferrai a malapena il cappuccio della mia felpa coprendomi quasi del tutto il mio viso. Aspirai con più foga il filtro bagnato e mi rilassai, espirando e buttando fuori le urla senza suono, che avrei voluto gridare a squarciagola. La sigaretta era arrivata al punto di non ritorno, cominciò lentamente a bruciare il filtro. Con dentro, una rabbia cieca, la lanciai lontano con tutta la mia forza. Seguii con lo sguardo la sua traiettoria ad arco fino a sparire tra l’erba secca e sciupata, come la mia vita. E alla fine i ricordi affiorarono, ebbero la meglio nella mia mente e mentre il suono dei passi faceva da sotto fondo, l’immagine di mio padre che picchiava mia madre prese il sopravvento. Ricordo quel giorno, come se fosse ieri, avrò avuto 8 anni e giocavo a nascondino con la mia sorellona Doniya. Sentii dei colpi e capii  che era arrivato Yaser, come sempre sbronzo, di cattivo umore che puzzava di fumo e aveva un aspetto orribile. Mia madre cerca di non darlo a vedere, ma io assomiglio tanto a lui: gli stessi occhi, gli stessi capelli, la stessa bocca. E’ la mia condanna, la mia punizione per non aver difeso la mia famiglia  da buon fratello e protettore.  Ancora oggi sto ore allo specchio per convincermi del contrario, ma  inutilmente. Sono la pecora nera della famiglia. I colpi diventarono sempre più forti e incessanti, poi quelle urla e grida che ancora mi perforano le orecchie e il cuore, sempre più strazianti. Anche se io ero piccolo, capivo tutto, e stavo male, non riuscivo a sopportarlo, nonostante Doniya cercasse di distrarmi e di farmi ridere per non udire quel dolore nelle parole, che a poco a poco, si sarebbero trasformate in schiaffi, calci e  pugni. All’ultimo urlo, quello più doloroso che mi trafisse il cuore, non resistetti più. Mi divincolai dalle braccia salde di mia sorella e scesi giù. Afferrai qualcosa di pesante e affrontai mio padre, alto, imponente e più forte di me. Ma non m’importava, volevo mettere un punto a quella storia che ormai si ripeteva dalla mia nascita. Tutto successe in fretta: mentre mia mamma urlava di non toccarmi e cercava di fermarlo invano, lui la spingeva, le rispondeva male, questo, mi fece salire una forza, che mai avrei immaginato di possedere. Coraggio. Il Coraggio di poter andare avanti. Speranza. La Speranza di finire la tortura una volta per tutte. Potrei dire di aver vinto e di aver avuto la meglio, ma il fatto è che non ricordo più niente, solo dei flash troppo brevi da farmi capire cosa accadde dopo. La stessa sera, mi raccontò mia madre, fui immediatamente portato all’ospedale, e così passai la mia settimana più bella della mia vita. Senza la presenza di quell’uomo indignitoso, le grida e i colpi che sarebbero rimbombati nelle orecchie. Dei rombi di moto mi fecero finalmente distogliere dai miei cupi ricordi. Alzai lo sguardo, e mentre passavo nella scorciatoia che tutte le mattine percorro per andare a scuola, notai tre moto parcheggiarsi in un angolo. Non mi chiesi il perché si fossero fermate lì, ma mi domandai il motivo con cui attaccarono violentemente bottone con una ragazza che passava di lì. A pensarci bene, quei quattro ragazzi non avevano l’aria da Principe Azzurro. Decisi di vedere come la faccenda, avrebbe avuto fine, se ne avrebbe avuto uno. Nascosi ancora di più la mia faccia nell’ombra del cappuccio, e avanzai nervoso.
“Ehi! Tu Dolcezza, che ci fai qui da queste parti, tutta sola?” cominciò uno.
Evidentemente non mi avevano visto, o mi consideravano uno sfigatello incapace di fare nulla, perché continuarono imperterriti a tormentare quella povera ragazza. Nemmeno la conoscevo, chissà se era del primo anno.
“Perché non rispondi, Bellezza?” disse un altro.
La ragazza continuava a camminare senza minimamente dargli corda. Decisi di nascondermi dietro ad un palazzo, la situazione si stava riscaldando.
“Non fare la maleducata, si risponde alle domande, dai non vogliamo mica farti del male!” disse ancora Magliarossa, allungando una mano al viso della fanciulla, che si era fermata.
La ragazza dai capelli scuri, scansò la mano con uno schiaffetto, infastidita:
“Devo andare, lasciatemi in pace.”
Si era girata.
Non potrei mai confessarlo a nessuno, nemmeno a mia madre a cui voglio un bene dell’anima e nemmeno a Doniya, ma con un’innata naturalezza, il mio cuore, fermo ormai da anni, sembrò animarsi improvvisamente. Cercai di non darci peso e mi obbligai a continuare ad assistere a quella scena.
“No, no, Carina, prima vogliamo farti una semplice domanda, se sarai disposta ad accettare, giuriamo che non ti faremo niente, prometto” disse Occhigrandi.
“Non ho intenzione di risponderti, mi dispiace, ma ora devo and…”
“Ehi!” sibilò con una faccia poco rassicurante, afferrando per un braccio Capelliscuri “Ti ho già detto che dovrai prima rispondere alla nostra domanda…altrimenti… cccch!” mormorò Occhigrandi, mimando con la mano un coltello che taglia la gola.
“Ma c-cosa…” balbettò la ragazza.
Uno di loro, le prese le mani, facendole cadere per terra i libri e i quaderni. Un altro la immobilizzò al muro, accostandosi pericolosamente al suo corpo.
“Se provate a fare qualcosa io vi ammazzo! Vi denuncio! Io vi…” qualcuno le tappo la bocca con la mano e la guardò squadrandola.
“Ssshh! Non gridare potremmo disturbare…”
Cominciarono con un calcio e un pugno allo stomaco. Qualcosa in me scattò e con gesto veloce abbassai il cappuccio della mia felpa, sepolta sotto alla giacca di pelle nera. Poi, tutto, successe in pochi istanti. 
   
 
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