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Autore: finnicksahero    14/07/2014    6 recensioni
Mi sono sempre chiesta come si sono conosciuti Finnick e Annie, e durante l'ora di Chimica è nata questa storia. Dal testo:
-Piacere Finnick- dico porgendogli una mano, lei si volta verso di me ancora con il broncio sulle labbra e tende una mano -Annie Cresta-
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I'm in love with you ...'
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Capitolo cinquantotto.

Johanna Mason.


 

I capelli erano mossi dal vento, li sentivo sul collo e lungo la schiena, come degli uccelli legati. Il sole mi baciava il volto pallido, sorrisi al cielo e sentivo quei raggi caldi sulle labbra. I piedi nudi si flettevano sul prato, sentivo quei piccoli fili verdi che mi solleticavano la pianta dei piedi, facendomi uscire dalla bocca delle risatine. Stupide da ragazzina, anche se ormai non lo ero più.

Erano passati sedici anni. Sedici anni dalla guerra alla capitale. Sedici anni dalla morte delle due persone più importanti della mia vita. Finnick e Gale.

Sedici anni dal parto di Annie. Dal nostro legame ancora troppo forte. Ma che sentivo non meritarmi.

Non mi ero rialzata, Annie si, avendo avuto Fin si è rialzata anche se vive tuttora con i fantasmi del passato, si è rialzata. Pensa al futuro. Perché sa, che è quello che lui avrebbe voluto.

Sospiro e abbasso la testa, e apro piano piano gli occhi, guardando il verde speranza del prato, da dove spuntano dei fiorellini. Margherite, violette, e anche qualche dente di leone. Sorrisi, mi ricordava Katniss e Peeta, quei due ragazzi, giovani e forti, come lo ero io un tempo.

Mossi le dita dei piedi. Erano brutti, tutti storti. Prima delle torture erano bellini. Era la parte che preferivo di me. Ora è morta anche quella.

Osservai il mio giardino. Erano spoglio, un solo albero alto e robusto, con diversi rami, su uno un'altalena dove a volte alcuni bambini venivano a giocare. Ma non oggi. L'avevo tolta, da due giorni, al suo posto una corda legata con cura, dal color dell'avorio con nodi precisi ed eleganti. Veniva cullata dal vento, sotto un piccolo sgabello, l'avevo costruito io, ci avevo lavorato per settimane e settimane, era un lavoro egregiamente venuto bene. Con degli intagli e dei disegni. Fatti a mano. Mi avevano detto di essere brava a disegnare. Ma avevano sfruttato un altro mio talento. Che non sapevo di avere.

Feci vagare lo sguardo il più lontano possibile. Guardando i boschi, di cui l'odore si sentiva anche da lontano. Chiusi nuovamente gli occhi castani e respirai a fondo il loro profumo. Mi riempii i polmoni di aria buona. Aria di casa. Aghi di pino. Betulle. Querce. Li respirai e li ascoltai tutti. Con i loro fruscii, come se stessero cantando per me. Per dire addio.

Rientrai in casa, e passai le mani sui muri spogli, senza foto, senza niente. Non volevo appenderle. Facevano male, vedere Annie e suo figlio sorridenti, che crescevano, sopratutto quella di qualche mese fa, con suo figlio dai capelli castani, un po' ribelli, sicuramente presi da Annie e dagli occhi verdemare di Finnick, abbracciava la mia amica e lei lo guardava con tanto amore.

Non avrei mai potuto essere una mamma.

In salotto c'era una sola foto. Sul tavolino davanti al divano, mi sedetti sul quel duro ammasso di cuscini e la guardai, un sorriso mi increspò le labbra screpolate. Ero io, all'età di ventiquattro anni. Indossavo un abito nero, che scendeva fino alle caviglie e avevo i capelli raccolti in alto, ero senza trucco ma con i tacchi e stavo sorridendo, perché ero felice. Accanto a me un ragazzone altissimo mi teneva stretta a se, era stato preso nel bel mezzo di una risata, aveva la pelle olivastra e gli occhi grigi, una zazzera di capelli castani era stata domata e indossava un completo nero. Aveva sui diciannove anni. Le lacrime fecero capolinea dai miei occhi.

Gale.

Quella foto era stata fatta al matrimonio di Annie, era l'unica che tenevo in vista. Le altre erano nascoste negli scatoli accanto alla porta. Non le sopportavo. Nessuna. Ma quella era diversa. Mi piaceva. Era così sincera. Eravamo stati immortalati di nascosto. Ed eravamo venuti bene.

Mi asciugai le lacrime con il dorso della mani e sorrisi. Accarezzai un'ultima volta il giovane ragazzo spento troppo presto e mi alzai. Lisciandomi l'abito bianco. Era a campana.

Quando avevo sentito la canzone dell'albero degli impiccati avevo pensato che la ragazza indossasse un abito bianco, proprio come quello che avevo io in quel preciso momento. L'avevo trovato nei vecchi vestiti di mia madre. Incredibilmente mi stava.

Mi lasciai alle spalle il salotto. I miei piedi camminavano sul legno nero e freddo. Che scricchiolava ad ogni mio passo.

Aprii la porta, lo facevo sempre, ma quella volta la tenni spalancata. Non avevo niente di valore. Niente.

Guardai davanti a me, tutti continuavano la loro vita. Io ero ancora al passato. Non riuscivo a liberarmene, mi appoggiai allo stipite i capelli mi caddero sul viso, facendomi da scudo. Non vedevo altro che il color mogano.

Iniziai ad intrecciarli, non dall'alto. In maniera morbida lungo la mia spalla. Li avevo davvero lunghi. Non li avevo più tagliati, dall'esperienza delle torture. Non più.

Andai in cucina, presi quel foglio di carta. Era indirizzato ad Annie.

Volevo che lei ricevesse quel messaggio. Lessi le ultime righe.

'Mi dispiace, so che avrei dovuto lasciarmi il passato alle spalle. Ma non ci riesco. È difficile Annie.

Pensavo di uccidere quel demone, ma mi sono resa conto che in realtà non c'è nessun demone. Anzi uno c'è. Sono io. Io devo morire. Solo così potrò essere felice. Annie scusami. Scusami tanto.

Ma devo farlo, sai che è l'unica maniera che ho.

Tutti i mostri sono umani. Io sono un mostro. Quello più difficile da uccidere. Addio Annie Cresta/Odair, ti vorrò per sempre bene.

 

Tua amica e confidente.

Johanna Mason.'

Così andava. L' avevo scritta tre volte. E quell'ultima versione mi piaceva. La presi e la tenni con mani tremanti.

Andai verso la porta e l'attaccai sulla porta, sia in alto che in basso, con due puntine. Una nera. E una gialla.

Tornai in casa, lasciandomi alle spalle la lettera. Anche quel punto era fatto.

Vicino all'uscita posteriore c'erano delle scarpe. Delle ballerine bianche, lucide, mi chinai e le infilai. Un piede alla volta. Con estrema calma.

Cercai uno specchio e mi guardai. Tralasciando volutamente il viso, che era sicuramente lucido di lacrime. Amare e argentee che mi baciavano sia le guance sia la bocca, come un'amante invisibili.

Controllai la treccia e la sistemai.

Mi incamminai a testa alta verso la corda.

Il vento continuava a tirare, sventolandomi la treccia e l'abito bianco, creando come un'onda di candida stoffa bianca. Non mi fermai.

Nella mia mente iniziai a contare. Come mi avevano detto di fare. Contare. Come un conto alla rovescia.

Mentre allungavo il braccio per infilarmi la corda intorno al collo, il numero uno comparve nella mia mente. Non troppo lucida.

Presi a respirare mentre scendevano altre lacrime.

Uno.

Due.

Guardai fisso davanti a me, gli alberi. Respirandone il profumo per un'ultima volta. Salii sullo sgabello e alzai il mento. Solo verde, difronte a me.

Tre.

Quattro.

Cinque.

Toccai la corda, mi ricordava troppo Finnick e faceva più male di quanto mi aspettassi.

Sei.

Portai una mano al cuore, batteva deciso e a tempo decisamente veloce. Assaporava gli ultimi battiti.

Sette.

Otto.

Nove.

Respirai profondamente e mi preparai. Tenni i pugni chiusi. Pensai a Gale. E gli dissi addio e poi ciao. Pensai a Finnick, lo avrei rivisto, da li a poco. Pensai ad Annie e mi dispiacque. Per lei e per Fin. Chiusi gli occhi.

Dieci.

Riaprii gli occhi e mi lanciai in avanti, lasciando andare lo sgabello. Sentii la pressione della corda e tutto diventò nero.

Avrei finalmente riabbracciato la mia famiglia.

  
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