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Autore: wonderwall_98    14/07/2014    8 recensioni
Paige Donovan è una diciassettenne abbastanza sicura di sé e con la testa sulle spalle. È la migliore di tutti i corsi scolastici alla Newtown High School ed è una delle migliori giocatrici di tennis nella sua accademia, la Rock Tennis Accademy. Ma quando avrà una notizia devastante diventerà un’altra persona: arrogante, ombrosa, scontrosa, solitaria. Vorrebbe avercela col mondo intero se fosse possibile. Ed è proprio in questo periodo buio che nella cantina abbandonata della villa in cui vive scopre che può esserci un rimedio, o meglio, una cura all’irrimediabile e incurabile malattia di suo padre, Bruce. A questo punto vuole a tutti i costi mettere le mani su quella che, a detta di suo zio Cameron, si rivela essere una macchina del tempo che la porterebbe in un’altra dimensione al fine di trovare nel futuro la cura che nel presente non esiste ancora.
Ma il futuro ha in serbo per Paige un amore impossibile e senza confini, un amore che non può vivere se ha scelto di salvare la vita a suo padre. E sarà proprio questa la scelta alla quale Paige Donovan sarà sottoposta.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo 3

THE CHILD AND
HIS TEACHER

 
 


 
 
Il giovane e ricco Cameron Donovan era sempre stato uno che se la sa vedere. Aveva esplorato questo mondo minuziosamente, lo conosceva persino meglio dell’uomo più vecchio che fosse mai esistito.
Questo perché non solo aveva viaggiato da un posto all’altro della Terra, esaminato ogni città di ogni nazione, ma aveva esplorato qualcosa di più grande della Terra.
Lui aveva esplorato l’Universo. Come? Con un semplice regalo.
All’età di otto anni, sua madre Grace Hamilton gli presentò colui che avrebbe cambiato, anzi stravolto, la sua vita.
Si chiamava Gilderoy Sapiens, era uno scienziato ragguardevole, ma non nel senso positivo della cosa. Difatti aveva la fama di “Colui-che-non-termina”.
Molta gente lo riteneva un vecchio pazzo, scapestrato. Un rivoluzionario senza farina nel sacco. Uno che aveva mille grilli per la testa, che aveva un milione di aspettative, ma che non combinava mai niente di concreto. Con ciò si spiega il titolo che gli veniva attribuito.
Non che suo padre, il prestigioso e influente Edgar Alger Sapiens, fosse come quell’inetto di suo figlio.
Alle volte dicevano che Gilderoy era la personificazione del famoso parto della montagna. Vale a dire, un topo. Come narra l’antica ma attuale storiella di Fedro.
Quei pochi seguaci che il povero figlio dell’influente Edgar Alger Sapiens aveva, erano dei fannulloni come lui. Un branco di topi, metaforicamente parlando.
Suo padre, invece… Lui era tutta un’altra storia. Lui sì che era degno di essere chiamato scienziato.
Ma sta di fatto che il fannullone, ozioso, inoperoso, bighellone e scioperato senza speranze di Gilderoy sperimentò qualcosa che avrebbe dato una svolta alla storia dell’umanità. Qualcosa che il degno e autorevole Edgar non sarebbe mai riuscito a sperimentare. Ma questo nessuno lo avrebbe mai saputo. Nessuno a eccezione di Cameron Donovan.
 
Alzai lo sguardo da quella sottospecie di ottovolante e mi accorsi che il mio corpo era scosso da brividi e palpiti a intermittenza. Mandai giù un singhiozzo, a cui seguì uno spiacevole colpo di tosse. Gemetti alla vista del conato di vomito che era fuoriuscito dalla mia bocca. Probabilmente tutta quella polvere e la perenne sporcizia che ricopriva ogni strato di quell’angusto perimetro non mi giovava un granché.
Mi alzai velocemente e, con la mano posata all’altezza dello stomaco, salii le scale di corsa. Arrivata di fronte alla soglia di casa, esitai dal suonare il campanello. Avevo completamente dimenticato la bottiglia di vino che mi aveva chiesto mia madre. E di certo non potevo raccontarle ciò che avevo visto. Come avrei giustificato?
Oltrepassai la porta di casa e mi addentrai nelle sovrastanti rampe di scale. Precisamente un piano più su c’era la porta di servizio, quella che conduceva direttamente alla mia stanza. Io la chiamavo porta sul retro.
Finita la rampa, mi addentrai nel corridoio stretto e allampanato che precedeva l’entrata diretta alla mia stanza. Cacciai le chiavi dalla tasca e mi diedi all’apertura della porta. La spalancai e gettai le chiavi sul letto.
Mentre la richiudevo facendo attenzione a non destare il minimo rumore, il suono acuto e penetrante del campanello mi fece guizzare le orecchie.
Chi poteva mai essere a quest’ora che bussava a casa Donovan?
Mi bloccai a metà strada dal chiuderla completamente e la lasciai socchiusa in modo da poter sentire il minimo e indispensabile. Ma non serviva a molto, riconobbi. Riuscivo a percepire soltanto dei fastidiosi e indistinti mormorii. Qualcuno era entrato. Ma, mi chiedevo ancora, chi poteva mai essere?
«Pay!»
Per poco non collassai. Quella era la voce di mio padre.
 
Gilderoy Sapiens era un caro amico di sua madre, l’aveva conosciuto per caso in un viaggio in Thailandia. Grace aveva intuito dal primo momento che sarebbe stata una persona importante per lei e la sua famiglia.
Quando le raccontò di lui e della famiglia da cui proveniva, Grace collegò l’immagine sorridente e buffa del nuovo compagno di viaggio al vecchio strampalato e senza speranza di cui si parlava tanto alla Downtown. Ma sotto quella folta chioma grigia, sotto quegli spessi baffi, pensò Grace, c’era un piccolo genio incompreso. Un vero scienziato sotto mentite spoglie. E lo capiva dal modo in cui parlava, da come ragionava, dall’impressionante capacità di capire, con un solo sguardo di lei, cosa pensava e quali erano, istante per istante, le sue intenzioni.
A volte, pensava Grace, sembrava più un genio della lampada che un genio della scienza.
Le bastò passare una settimana con lui, in effetti tutta la durata del suo viaggio, per pensare che Gilderoy fosse davvero la persona di cui suo figlio Cameron, di soli otto anni, aveva bisogno.
All’epoca Cameron era decisamente un bambino fuori dal comune. Non faceva la collezione di figurine dei cartoni animati, bensì di alieni di ogni tipo in miniatura. Per Natale chiedeva ogni anno una navicella spaziale diversa. Suo padre Gilbert Donovan le sceglieva con molta cura, andando a cercare quelle più minuziose e raffinate. Ma lui ne voleva una grande abbastanza da potersi infilare dentro e viaggiare nello spazio. Aveva capacità intellettive fuori dalla norma, per avere solo otto anni. A scuola era il piccolo genio della classe. Risolveva problemi alla portata di ragazzi della scuola media. In situazioni estreme, aiutava anche suo fratello Bruce, che aveva diciotto anni e doveva sopportare per l’ultimo anno la grandissima penitenza che era per lui la scuola.
Col passare degli anni e col definirsi dei caratteri dei due, molti non si spiegavano quella totale differenza tra fratelli.
Bruce, il primogenito solitario e introverso, pigro e sfaticato, ombroso e diffidente, una testa calda e costantemente piena di rancore.
Cameron, il secondogenito carismatico e suadente, sicuro di sé fino al collo, bello e popolare, ottimi voti e pomeriggi sempre riempiti dal basket.
Grace e Gilbert Donovan non potevano desiderare di meglio e, nei modi più malvagi e involontari possibili, facevano sempre notare a Bruce quella maledetta preferenza.
Ritornando ai tempi in cui Cameron era soltanto un bambino prodigio, sua madre era più che convinta che l’amicizia con Gilderoy non avrebbe fatto altro a Cameron se non bene.
Quando ritornò dal viaggio e bussò alla porta, andò ad aprire il bambino. E fu sorpreso nel vedere che sulla soglia di casa a scrutarlo c’erano non due, bensì quattro occhi.
 
Mi lasciai ogni cosa alle spalle e arrivai al piano di sotto.
«Paige non…» Mia madre s’interruppe a metà frase.
«Papa!»
Ma l’euforia e l’entusiasmo di quel momento furono spazzati via come una manesca folata di vento nel costatare che avevo scambiato ancora una volta la voce di Caleb con quella di mio padre.
Mio fratello era lì, con il borsone nero degli strumenti sulla spalla e i densi e gremiti ricci castani che aveva ereditato da zio Cameron a coprirgli parte dello sguardo. Per cui ebbi la grazia di non doverlo guardare dritto negli occhi quando la sua espressione felice e spensierata divenne una maschera di disappunto. Sorrideva, era felice prima… pensai. E a tal proposito mi sentii perfino peggio.
Caleb guardò nostra madre. «Mamma, sei stata tu a insistere perché tornassi.» Dopodiché si girò verso di me. «Ma vedo che tu non hai l’entusiasmo che ho io, cara la mia sorellina.» Iniettò nel sorriso che mi rivolse una dose di veleno niente male.
«Caleb, Paige in questo periodo non è di ottimo umore. E non serve che tu la incoraggi ad andare contro il prossimo della lista.»
«Ovvero io?» domandò con una punta di sarcasmo. «Ora vorrei tanto sapere…»
«Mamma!» esclamai con tono di protesta e sorpresa al tempo stesso. Le mie labbra si schiusero e un gemito di disapprovazione ne scaturì. «Non dirmi che ancora non gliel’hai detto?!»
Dallo sguardo che aveva e che cercava di allontanare dai miei occhi capii che la risposta era negativa.
«Non gliel’hai ancora detto» sbraitai. «Non ci posso credere!» urlai allargando le braccia.
«Scusate, vi dispiace mettermi al corrente su quel che succede, di tanto in tanto?» intervenne Caleb alquanto perplesso.
«Tu» gli ringhiai «sta’ zitto.»  «Se vogliamo parlarne, tu potresti anche venire a casa di tanto in tanto» palesai cantilenando le sue ultime parole di proposito.
«Basta, voi due!» s’interpose mia madre indignata. «Smettetela di litigare! Ora più che mai, dobbiamo essere uniti. E voi pensate a battibeccare e a chi deve avere l’ultima parola?»
Non potei non riconoscere che aveva ragione.
«Magari se qualcuno mi dicesse cosa diavolo sta succedendo…»
«Paige, fallo tu. Io… non ce la faccio a dirlo anche a lui. È straziante.»
Sballottai il mio sguardo da mia madre, che scappò di corsa al bagno, a mio fratello, che mi guardava a braccia incrociate come fossi una preda alquanto curiosa appena catturata.
Lo sguardo era imperscrutabile. «Esigo una spiegazione.»
 
Cameron Donovan non sapeva che aveva di fronte il più grande e caro amico di sempre.
«Mamma, lui chi è?» chiese con sguardo indagatore.
«Oh, Cameron, lui è Gilderoy» disse Grace facendo guizzare lo sguardo da suo figlio al vecchio.
«Gilderoy Sapiens» precisò lo scienziato.
«Lui è…» S’interruppe immediatamente quando incrociò lo sguardo ammonente di sua madre. Evidentemente Grace aveva paura che suo figlio potesse lasciarsi scappare di bocca uno di quegli strambi epiteti con cui l’uomo che aveva dinanzi veniva identificato. Ma un: «Forte!» fu tutto ciò che gli uscì di bocca.
Grace Hamilton decise di ospitare il vecchio scienziato per qualche giorno. Ma, passata una settimana con lui, Cameron volle che Gilderoy restasse ancora. E ancora. Così passarono altri dieci giorni. Ma Cameron non riusciva a salutare Gilderoy. Aveva paura di non rivederlo. Era così intenso il legame che si era creato fra quei due, nonostante l’abbondante differenza di età, che Cameron proprio non voleva saperne di lasciarlo uscire da quella porta.
Grace si dimostrò comprensiva, dopotutto era stata lei a portarlo in casa loro. E non poté non notare che quelli che erano i suoi propositi si erano già trasformati in realtà.
Gli concesse di rimanere: in occasione di un soggiorno leggermente prolungato, queste le parole di Grace.
D’altronde, Gilderoy viveva in una vecchia catapecchia che spacciava per casa. E, dopo la tragica morte di suo padre, la sua unica compagnia erano gli strumenti scientifici che aumentavano giorno per giorno.
Molti lo definivano anche eremita, giusto per aggiungere un altro appellativo alla lista.
Tra segreti e confidenze, risate e momenti d’euforia, il vecchio pazzo e strampalato della città divenne il migliore amico del bambino prodigio.
Quando ebbero acquistato abbastanza familiarità, tanto da poter sembrare un nonno col suo nipotino, Gilderoy decise di portare il suo piccolo amico nella stamberga in cui trascorreva la sua vita.
«La mia casa è come uno studio scientifico» disse Gilderoy a Cameron. «Ti va di farci un salto?»
Grace lì sentì e non riuscì a nascondere quell’aculeo di apprensione che le stava spuntando. Semplicemente pensava che quel posto non fosse fra i più sicuri sulla Terra.
Ma appena suo figlio andò da lei a chiederle il permesso, Grace non riuscì a dire di no a quegli occhi imploranti e pieni di riverbero. Lo osservò a lungo senza spiaccicare parola, buttando giù sul nascere i suoi pensieri malevoli. Lo sguardo illuminato e il sorriso smagliante di suo figlio ebbero la meglio su di lei. «D’accordo» cedette. «Quando torni?» chiese soltanto.
Cameron guardò il suo vecchio amico e lui gli diede una pacca sulla spalla, spostando lo sguardo sulla madre ansiosa. «Non preoccuparti, Grace, torneremo per l’ora di cena. Voglio solo mostrare a tuo figlio un paradiso per i suoi occhi.»
 
Sospirai e guardai mio fratello con aria bonaria. «Vieni di sopra.» Pronunciai quelle parole con fermezza.
Caleb si limitò ad annuire e a seguirmi, nel modo più silenzioso possibile, lungo le scale.
Entrammo nella camera e lo invitai a sedersi sul mio letto con un cenno del capo. Occupai un posticino accanto al cuscino, proprio di fronte a lui. Mi schiarii la voce nel tentativo di allentare la tensione che si era creata tra di noi.
«Allora?» chiese Caleb impaziente.
«La mamma è stata molto concisa con me» cominciai «quindi cercherò di farla breve.»
Caleb annuì, e notai che nello sguardo c’era qualcosa di inquieto.
«Papà non sta bene» dichiarai tutto d’un fiato.
Decifrare l’espressione di Caleb era impossibile. Aveva eretto un muro. E lo stava facendo bene.
«In che senso…»
«Nel senso che è malato» tagliai corto.
«Come, malato?»
«È malato, Caleb. Non so in quale altro modo spiegartelo. Ammalato. Infermo, indisposto, ricoverato, degente. E la cosa peggiore è che… è un malato terminale, Cal.»
Cercai il suo sguardo e quando finalmente lo incrociai, scorsi due occhi persi nel vuoto. Mi guardava, ma era come se guardasse altrove. Oltre.
Abbassò lo sguardo al pavimento sotto i suoi piedi. Sembrava desolato. Era immobile. Reazione prevedibile.
Notai che una lacrimuccia gli scorreva sulla guancia.
Mi abbandonai anch’io alle lacrime e Caleb mi strinse fra le sue braccia forti e muscolose.
«Mi dispiace tanto» singhiozzai. «Non volevo che finisse così» gemetti facendomi cullare dalle onde sonore del suo cuore e lasciando che mi stringesse il più forte possibile.
«Calma, Pay» disse accarezzandomi i capelli. «Troveremo una soluzione.»
«Non c’è una soluzione» dissi scossa da continui tremiti.
«Ssh, a tutto c'è una soluzione.»
Caleb mi strinse così forte da farmi mancare il fiato. Smisi di piangere e mi staccai lentamente da lui. Mi strofinò delicatamente i pollici sul viso per rimuovere le lacrime.
«Ha un cancro?» chiese a pochi centimetri di distanza da me. Era così vicino che potevo sentire il suo alito caldo e tremante.
«Magari» dissi mordendomi il labbro inferiore.
«Come, magari?»
«Ha detto la mamma che ha una malattia ignota.» Mi bagnai le labbra con la lingua, anche se di saliva in bocca ne era rimasta ben poca. «Connor dice che nessun medico l’aveva mai diagnosticata.»
«E che razza di malattia è?»
«Non mi ricordo il nome preciso. Però è una cosa orribile.» M’interruppi per inalare quanta più aria fosse possibile.
«Dimmi di più, Pay, per favore…»
«Connor dice che è una malattia straziante. Non chiedermi come né perché, qui il medico non sono io, ma per quello che ne so ti ora via ogni parte del corpo, lacerandoti e distruggendoti a poco a poco.»
«Come sarebbe a dire?» Caleb sembrava non capirci più niente. Del resto, la sua condizione non era poi tanto diversa dalla mia.
«Cal, ti prego, non chiedermi più niente. Non ce la faccio.» Ripresi fiato. «Questo è quello che ha detto la mamma, o meglio, quello che Connor ha detto alla mamma.»
«Voglio vederlo.»
Alzai lo sguardo prima di realizzare ciò che aveva detto. «Come?»
«Andiamo, tu no? Anche tu vuoi, Paige. Lo so.»
«Io…» Scossi la testa e dischiusi le labbra.
«Andiamo, Pay, lo vuoi anche tu» disse prendendomi una mano.
Aprii la bocca per replicare, ma mi vennero meno le parole. Distolsi lo sguardo.
«Devo dirti una cosa» dissi annuendo per convincere me stessa a rivelargli ciò che avevo visto. O meglio, scoperto.
 
Arrivati nella vecchia baracca di Gilderoy, Cameron sbatté le palpebre per la sorpresa. Non era affatto come se l’era aspettata. Era persino meglio.
Non aveva ben capito le sue parole, quando Gilderoy disse: “Voglio solo mostrare a tuo figlio un paradiso per i suoi occhi”. Ma gli era divenuto subito tutto chiaro, come un lampo in una giornata di sole, nel momento in cui aveva messo per la prima volta piede in quella casa.
«Questo è il laboratorio» spiegò Gilderoy «dove studio, faccio esperimenti, medito sulla mia condizione. Molte cosette.»
Cameron era ancora estasiato da quella visione.
«Sai, giovane amico, agli occhi di un altro bambino questo posto sembrerebbe soltanto una vecchia catapecchia in cui abita un vecchio scienziato pazzo. Ma con te è diverso. Tu sei diverso.»
«Definisci diverso» disse Cameron.
Il vecchio rise di gusto. «Non conosco abbastanza parole per definirti. Tu conosci te stesso meglio di me. Sono sicuro che ti saprai dare una definizione da solo.»
Cameron ripercorse decine e decine di volte quell’angusto perimetro per esaminare ogni cosa.
«Un giorno mi farai provare tutti questi affari» disse con aria sognante a Gilderoy.
«Che ne dici di cominciare ora?»
Cameron sembrò brillare di luce propria.
E fu così che il vecchio raccontò al bambino il progetto che aveva intenzione di portare a termine da anni. Gli disse che in parte erano vere le cose che dicevano su di lui. Ma non era un completo fannullone.
«In effetti» disse «finora non ho ancora portato a termine nessuno dei miei mille progetti. Ma con il tuo aiuto posso terminare quello che mi preme di più. E sono sicuro che ti piacerà.»
Gli raccontò della macchina del tempo che stava progettando.
«Macchina del tempo?» aveva chiesto sorpreso Cameron. «Quindi esiste davvero?»
«Ogni cosa esiste davvero» rispose il buon Gilderoy Sapiens.
E così, dopo quel pomeriggio, stabilirono un patto. Si sarebbero visti tutti i pomeriggi alle quattro all’imbocco del bosco.
Gilderoy l’avrebbe raggiunto e condotto al suo laboratorio.
Qualora uno dei due avesse ritardato, il patto sarebbe stato infranto. Non più valido.
Si incontravano ogni pomeriggio all’orario stabilito, e Cameron cercava di stare ben attento all’orario. Non voleva ritardare per nessuna ragione.
Il ritardo più grande che Cameron aveva fatto era stato arrivare alle quattro e quattro. Si era sentito così in colpa per l’accaduto che aveva chiesto umilmente scusa al suo maestro più di dieci volte. Da allora quello divenne l’orario ufficiale. Non più alle quattro del pomeriggio, ma alle quattro e quattro minuti.
Ogni pomeriggio facevano un passo avanti per quanto riguardava la misteriosa macchina del tempo. Cameron era di notevole aiuto a Gilderoy, che con l’avanzare degli anni cominciava a perdere la lucidità.
Ma quando il vecchio si ammalò, Grace non ne volle sapere di lasciar andare ancora suo figlio al laboratorio.
Cameron non ebbe verso di convincerla. Era distrutto. Aveva molti amici per avere solo otto anni, ma se non poteva vedere il suo migliore amico, allora non avrebbe visto neanche gli altri.
Sua madre cercava di spronarlo, convincerlo ad andare a casa dei suoi amichetti quando questo lo invitavano per il pranzo. Ma lui voleva soltanto ritornare al vecchio laboratorio del suo maestro Gilderoy Sapiens.
«Mamma» diceva con le lacrime agli occhi «lui è il mio maestro. Ho bisogno di vederlo almeno per un’ultima volta.»
Alla fine Grace acconsentì, ma a una sola condizione: sarebbe andato con lei, o non l’avrebbe mai più rivisto. A Cameron piacque l’idea, anche se non era molto entusiasta di condividere quell’addio con sua madre.
Ma non aveva altra scelta. Se voleva rivederlo, quelli erano i patti. E andare con sua madre era decisamente meglio che non rivederlo mai più.
Dopo due settimane da quel doloroso addio, arrivò a casa Donovan una posta speciale: un regalo d’addio a tutta la famiglia da parte del dottor Gilderoy Sapiens.
A Gilbert Donovan, sebbene il vecchio avesse soltanto scambiato qualche parola con lui, regalò un costoso televisore da quaranta pollici.
 
A Gilbert Donovan, con cui ho soltanto fatto qualche chiacchierata. Ma dalle poche parole che ci siamo scambiati, ho capito che sei un fanatico della televisione. 
Ci si rivede alla prossima tappa.
Dottor. Gilderoy  Sapiens.
 
Questo diceva il biglietto attaccato alla confezione sfarzosa del suo regalo.
Gilbert rimase senza parole, di certo non se l’aspettava.
A Bruce Donovan, che conosceva ancora meno a causa della sua riservatezza, regalò un Nokia 7110, il cellulare più moderno che esistesse. Era uscito in quello stesso anno, il 1999.
Il suo biglietto diceva: A te, Bruce Donovan, ho deciso di regalare questo cellulare. Ti conosco pochissimo, è vero, ma da quel che ho capito desideri tanto un cellulare. Ed eccolo qui, l’ultimo modello della Nokia. È il primo cellulare con tecnologia WAP, ovvero Wireless Application Protocol. Vuol dire che puoi avere accesso ad Internet. Spero ti piaccia, quanto è piaciuto a me comprarlo.
Auguri affettuosi per la tua vita.
Dottor. Gilderoy Sapiens.

 
«Questo perché lo chiamavano vecchio pazzo!» esclamò euforico Bruce. Ancora pieno d’eccitazione per il suo nuovo regalo, si rintanò tutto contento nella sua stanza.
A Grace Hamilton, invece, regalò una collezione di libri. Dal momento che aveva imparato a conoscere il suo animo romantico e premuroso, decise che una pila di libri del genere sarebbe stata più che sufficiente.
A Grace Hamilton, la mia cara amica conosciuta in viaggio. La tua premura e il tuo amore per questi figli ti ripagheranno, un giorno. E così ho deciso di regalarti questa collezione di libri. Sono proprio del tuo genere, romantici e drammatici. Sono certo che ti strapperanno qualche lacrima, ma ne varrà la pena.
Ti saluto, cara amica. 
Dottor. Gilderoy  Sapiens.
 
Grace si lasciò scappare una lacrima in anticipo. Poi prese la pila di libri e corse come una furia nella camera da letto.
Non rimaneva che quello di Cameron. Il bambino avanzò tremante verso gli scatoloni. Gli altri tre erano stati già aperti ed erano niente in confronto alle dimensioni del suo.
Vi si inginocchiò accanto e cominciò ad aprirlo e a scartare la confezione.  Raccolse subito la lettera dal fondo dello scatolo e la aprì.
 
“A te, Cameron, mio piccolo ma grande amico. Credimi quando ti dico che sei stato il migliore amico che io abbia mai avuto. Mi hai capito e hai assimilato la mia essenza come nessun altro aveva mai fatto. E ti ringrazio per questo, sei stata la persona più importante della mia vita, dopo mio padre.
Ho deciso di regalarti tutti i miei affari, come dicevi tu, tutti gli strumenti del laboratorio e il laboratorio stesso. Nello scatolo c’è la chiave del laboratorio, così potrai andarci quando vorrai. E magari, di tanto in tanto, potrai pensare a me, al tuo vecchio amico.
Ma non è tutto. Ti chiedo soltanto la cortesia di non far mettere le mani su questa lettera a nessuno all’infuori di te, perché… be’, ci sono cose private. E voglio che queste righe rimangano un segreto tra me e te.
Nel laboratorio, nella stanzetta più piccola che usavo come ripostiglio, c’è qualcosa di più di questi attrezzi. C’è qualcosa di speciale. E ricorda che non sarà stato soltanto merito mio se un giorno riuscirai a viaggiare nell’Universo.
Ti voglio bene, migliore amico.
Dottor. Gilderoy  Sapiens.
 
«La macchina del tempo!» si lasciò sfuggire Cameron, non notando che suo padre era ancora lì, in quella stanza.


 
  
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