Ricordi?
L’esploratore
si passò una mano sulla fronte, madida di sudore. Erano giorni, ormai che
viaggiavano nella foresta amazzonica senza fermarsi un istante. Ma ormai il
Santo Graal era a portata di mano.
L’esploratore,
vestito in modo sorprendentemente simile a Indiana Jones, era ormai certo del
suo obiettivo.
«Ed
eccoci qua a un passo dal tesoro perdut…»
«Pista,
pista!»
L’esploratore
venne letteralmente sbalzato indietro da un uomo vestito in tuta mimetica con
tanto di bandana abbinata, che con nonchalance gli rubò anche il cappello da
esploratore. Il suo sguardo fiero e determinato rivelò la sua convinzione e
dedizione alla missione.
«Arriverò
io per primo al Santo Graal! Ormai sono vicinissimo al mio obiettivo e nessuno…»
Il
coraggioso esploratore sospirò rassegnato: «Oh, no, di nuovo…»
Lo
sapeva, ormai, c’era un solo modo per risolvere la situazione senza che nessuno
ci rimettesse. Prese un profondo respiro e urlò la frase risolutrice.
«MAMMA!!!
ZIO EUGENE È PARTITO DI NUOVO!!!»
Una
voce femminile si avvicinò con tono rassegnato: «Eccomi, eccomi…»
Una
mano s’infilò fra il fogliame, fino a trovare l’interruttore che stava
cercando, e a farlo scattare. In un attimo sparì tutto, alberi, foresta, abiti
degli esploratori... nella stanza rimasero solo un bambino un po’ perplesso e
un uomo che trafelato si guardava intorno ancora alla ricerca del fantomatico
Graal.
«Eh?»
La
donna brandì un mestolo molto arrabbiata: «EUGENE PHOTOMAS!!! PER QUANTO TEMPO
ANCORA VUOI CREDERTI UN ESPLORATORE INVECE CHE ANDARE A LAVORARE? IL TUO
SEGRETARIO HA GIÀ CHIAMATO TRE VOLTE!!!»
L’Avvocato
rimase un attimo confuso a guardare la scena. Di fronte a lui c’erano una donna
che gli somigliava parecchio, con i capelli biondi a boccoli e con il classico
vestito da casalinga tipico del ventitreesimo secolo, e un bambino di sette
anni, con i capelli castani e l’inconfondibile aria di famiglia. Solo a quel
punto Eugene si ricordò esattamente chi fosse
e cosa stesse facendo.
«Su,
Kathrine,non fare così… mi
ero solo un po’… distratto! E poi sai che mi piace giocare con Tommy…»
Kathrine Photomas
alzò gli occhi al cielo, non potendo fare altro che sospirare: «Lo so, lo so… »
Eugene
sorrise imbarazzato, mentre si rivestiva per andare al lavoro. Era abituato
alle ramanzine di sua sorella, quella cara sorellina brontolona tutta casa e
famiglia, da sempre. Nessuno avrebbe mai detto che era lui il fratello
maggiore. Kathrine era tutto ciò che lui non era:
ordinata, in grado di tenere tutto e tutti sotto controllo e, soprattutto, in
grado di ricordare tutto di tutti, anche a distanza di mesi. Aveva fatto allenamento con lui fin da
quando erano piccoli, e, anche ora che aveva una famiglia, non aveva smesso di
fargli un po’ da balia, soprattutto adesso che veniva così spesso a giocare con
l’adorato nipotino Tommy.
L’avvocato
si risistemò la bombetta, pronto per andare al lavoro. La sorella, rassegnata,
gli sventolò davanti agli occhi la valigetta ventiquattrore che stava
puntualmente dimenticando. L’uomo continuò imperterrito il discorso che stava
facendo.
«È
che a volte perdo il senso del tempo…»
«Magari
perdessi solo quello, Eugene…»
L’avvocato
diede un bacio sulla fronte al nipote: «Fai il bravo, Tommy!»
«Anche
tu, zio Eugene. E ricordati di tornare alla casa giusta!»
«È
successo solo una volta! E quei signori che mi hanno ospitato erano davvero
molto gentili!»
Kathrine alzò gli occhi al cielo,
aprendogli la porta: «E molto pazienti, ancora non capisco come abbiano fatto a
ospitare per tutta la notte un perfetto estraneo convinto di essere a casa
propria...»
Eugene
sorrise. Non si arrabbiava mai per i commenti della sorella. Purtroppo erano
veri e lui lo sapeva. Poteva solo ringraziare di essere circondato da persone
così pazienti e...
Un
familiare urlo dal balcone lo fece fermare: «La tua auto è quella a destra!»
L’avvocato
alzò gli occhi verso Kathrine: «Non so cosa farei
senza di te, sorellina!»
La
donna lo guardò, appoggiata al balcone: «Credimi, me lo chiedo spesso anch’io…»
L’uomo
salì a bordo dell’autovettura e si rilassò mentre questa usciva dal parcheggio
e s’immetteva in strada. Ora gli bastava impostare la destinazione e...
«ASPETTA
UN ATTIMO!»
L’auto
inchiodò di scatto, in quello che per poco non si trasformò in un tamponamento
a catena.
«Ma
dove dovevo andare?»
Una spia
luminosa si accese sul cruscotto, e una voce si diffuse nell’abitacolo: «Avvocato,
sono James Flower, il vostro segretario. Vi sto
aspettando nel vostro ufficio, la macchina è già impostata per arrivarci automaticamente… vi aspetto, allora!»
Ah, già,
James! Gran bravo ragazzo, si disse l’avvocato. Gliel’avevano presentato come
tirocinante, ma poi, resosi conto di non avere la parlantina sufficiente per
poter svolgere al meglio il mestiere, aveva ripiegato per essere il suo
segretario. Che fosse per la buona paga o perché avesse pietà del suo datore di
lavoro non era dato saperlo, ma il coraggioso ragazzo si era assunto l’arduo
compito di fare in modo che l’avvocato Photomas si
ricordasse di preparare l’accusa o la difesa di ogni suo cliente. E,
soprattutto, che si presentasse al processo.
L’auto
rallentò fino a fermarsi e prontamente qualcuno aprì la portiera. Un papero
poco meno che trentenne, con gli occhi scuri e con i capelli biondi che
cercavano disperatamente di essere tenuti in ordine da una copiosa quantità di
gel, aprì la portiera: «Finalmente, Avvocato! Sapete che ore sono?»
Photomas scese
dalla macchina: «Temo di essermi scordato a casa l’orologio...»
James
sospirò mentre il suo datore di lavoro si avviava verso l’ufficio. Era
incredibile la bassa statura del suo capo, gli arrivava sì e no alla vita.
«Sono
quasi le dieci, e voi alle dieci e un quarto avete un appuntamento con la
Evans!»
«Con
chi?»
Il
segretario fece appello a tutta la sua pazienza: «Jane Evans, il pubblico
ministero... quella che vi odia a morte perché vi dimenticate sempre di
presentarsi quando vi convoca...»
Photomas si passò
una mano sugli occhi: «Oh, vi ringrazio per le informazioni, signor...»
Rassegnato,
il papero non rispose più. Si limitò a tirare fuori una fotografia e a
mostrarla al suo capo.
«Eh? Ah,
sì, scusa Flower!»
Ancora
doveva capire come potesse la sorella dell’avvocato più svampito del mondo
avere quel superpotere. Pareva infatti che fosse sufficiente che Kathrine Photomas fulminasse con
lo sguardo il fratello per fargli tornare alla memoria tutto quello che gli
serviva. Purtroppo l’effetto era temporaneo, e con la fotografia era meno
efficace. In caso di crisi mnemonica acuta James poteva ancora tentare l’arma
della telefonata a casa e chiedere alla signora di fare una sfuriata al
fratello. E purtroppo era costretto a
ricorrerci cinque/sei volte al giorno, al punto che ormai lui e la signora Kathrine erano diventati amici. L’aveva anche invitato a
cena qualche volta, ormai considerava anche lui uno di famiglia. Ma la signora Photomas, evidentemente, era disposta ad adottare nel
nucleo familiare chiunque riuscisse a
sopportare ed aiutare il fratello.
«Ok,
allora io vado!»
«Avvocato!»
«Sì?»
«Vi
ricordate l’indirizzo?»
Eugene
sorrise imbarazzato: «In tutta sincerità?»
James
salì a bordo dell’autovettura: «Meglio che venga anch’io, allora.»
«EUGENE
PHOTOMAS!!!»
«Presente,
non c’è bisogno che urliate a quella maniera, signorina!»
La
papera si accasciò sulla scrivania: «Voi un giorno mi dovrete spiegare come
facciate ad avere ancora la laurea di avvocato... avrebbero dovuto ritirarvela
il giorno in cui ve l’hanno data!»
«Non
capisco quale sia il problema...»
Il
pubblico ministero si spostò un ciuffo di capelli neri, nervosa: «Il vostro
cliente... era da difendere. Voi
avete preparato una accusa perfetta!»
«Ops...»
«Eh,
ops! Meno male che siete riuscito a improvvisare
qualcosa, Avvocato! Sono convinta che voi mi prendiate in giro, non è
umanamente possibile soffrire di così tante amnesie ed essere ancora abbastanza
sani di mente da poter fare gli avvocati!»
Photomas si chiuse in un imbarazzato
silenzio e attese la fine della sfuriata. Era ben consapevole di essere un gran
distratto e uno smemorato da record, tutti non facevano che ricordaglielo, come
se potesse dimenticarsi anche quello. Tuttavia nessuno, salvo forse Kathrine, poteva immaginare che Eugene non era sempre stato
così. Non sapeva spiegarselo neanche lui, ma i suoi ricordi fino ai dieci,
undici anni al massimo, li aveva tutti ben chiari e scolpiti nella memoria.
Poi, però, un giorno, aveva iniziato a dimenticare. E non si era più fermato.
L’avvocato
se lo chiedeva spesso cosa fosse successo, cosa fosse cambiato. L’unica che lo
conosceva a quell’età, sua sorella, non aveva saputo dargli risposte. Era solo
riuscita a imparare a riprodurre perfettamente lo sguardo tipico della loro
madre, quello che lo faceva sempre sentire in colpa e che quasi magicamente
riportava ogni ricordo a galla, ma non c’era stato modo di risolvere il
problema, neanche con ripetute e approfondite visite mediche. Solo nell’aula di
tribunale sembrava sbloccarsi: un paio di frasi arrancate e poi, come se
qualcuno avesse tolto i freni alla lingua, cominciava a parlare, senza riuscire
a fermarsi, con quella appagante sensazione di vuoto mentale da cui però tirava
fuori codici, casi, nomi e date con precisione assoluta. Era la magia dei
processi, una magia che forse solo lui e le persone che lo circondavano
potevano cogliere.
Tuttavia
Photomas non poteva fare a meno di chiedersi cosa non
andasse nella sua memoria. Dopo tanti anni aveva quasi perso le speranze di
ottenere una risposta alla sua domanda. Fino a un pomeriggio di pioggia.
Tommy
alzò in aria una spada: «Avanti, cavalieri! All’assalto del castello!»
Eugene
saltò giù dal cavallo olografico: «Tranquillo, mio re! Libereremo la
principessa!»
Il
bambino, con una corona più grossa di lui sulla testa, seguì il fido cavaliere:
«Dicono ci sia un drago a difendere la fortezza...»
«Draghi,
orchi o faine non ci fermeranno!»
Tommy
lo guardò dubbioso: «Faine? In un castello medievale?»
Photomas alzò le spalle: «Perché no?»
Il
bambino sorrise: «Giusto.»
Kathrine entrò nella stanza e sorrise.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma adorava quando i due suoi bambini giocavano insieme. Il padre di Tommy era un
addetto della Pivù e spesso era fuori casa. Invece
grazie allo zio il suo bambino aveva spesso qualcuno con cui giocare. E
indubbiamente suo fratello era perfetto per i giochi di ruolo: chi sapeva
immedesimarsi meglio di lui? Sopirò per un attimo. Poteva darsi al cinema,
invece che alla carriera giuridica...
Improvvisamente
il programma di ologrammi fece apparire il drago di cui aveva parlato poco
prima Tommy. Il bambino, però, non se ne accorse. Completamente immerso nel
ruolo di cavaliere protettore del suo sovrano, Eugene balzò verso il nipote e
si mise a fargli da scudo.
«Scappa...»
«Scappa!»
«Eugene,
chi è? Cosa vuole da te?»
«Non ha
importanza! Scappa, ti ho detto!»
«Ma...»
«SCAPPA,
SORELLINA! ME LA VEDO IO CON QUESTA, CORRI!»
«Zio
Eugene?»
L’uomo
era rimasto immobile, con gli occhi sbarrati.
Tommy,
preoccupato, iniziò a scuoterlo: «Zio Eugene? Cos’hai?»
Lo
zio non dava segni di reazione e il bambino iniziò ad avere paura: «Mamma!
Mamma! Zio Eugene sta male, corri!»
Corri...
...corri...
...corri...
Photomas all’ultima parola sembrò tornare
in sé.
«Cosa...»
Katrine si avvicinò al fratello,
preoccupata: «Eugene, che succede?»
«Io...
io ho ricordato...»
«Eh?»
«Katrine, ho ricordato qualcosa... anche se non so ancora
cosa...»
La
sorella lo guardò preoccupata e Eugene continuò: «Parlavo con te... forse
eravamo piccoli... e ti dicevo di scappare...»
Kathrine sbiancò per un istante, ma
l’avvocato non lo notò: «Tu ricordi un episodio del genere?»
La
donna non lo guardò in faccia, mentre rispondeva: «No... non mi pare...»
Photomas si alzò: «Vabbè,
dai, prima o poi capirò! Ora però devo andare o Flowers
si preoccuperà di nuovo. Ciao Tommy!»
La
donna lo guardò allontanarsi dalla sua casa, pensierosa, stingendosi fra le
braccia. Cosa doveva fare? Era giusto quello che le era stato chiesto? Quanto
aveva sperato che quel giorno non arrivasse mai, che non fosse mai stata
costretta a prendere quella decisione.
Ma alla fine la prese.
Eugene
nella sua automobile non smetteva di ripensare a quel flash. Da cos’era che Kathrine aveva dovuto scappare? Da cosa la stava
difendendo? Purtroppo riusciva a ricordare solo delle voci e nulla più...
L’avvocato
scosse la testa. Non era un buon momento per pensarci, Flowers
lo stava aspettando davanti al tribunale per quel caso di rapina e...
Photomas inchiodò di colpo.
«Io...
io ricordo cosa devo fare!»
Strinse
le mani intorno al volante con tutta la sua forza. Sapeva dove doveva andare, cosa
doveva fare e chi doveva
incontrare... era incredibile. Da quanto non gli capitava? Mesi? Anni? Non
sapeva dirlo.
«Cosa
mi sta succedendo?»
Dopo
un attimo di riflessione, l’uomo ripartì. Non aveva tempo di soffermarcisi ora,
il processo non lo avrebbe aspettato. Un dubbio lo assalì: era possibile che
ora che ricordava tutto, potesse scordare i codici? Sorrise, cercando di
calmarsi. No, adesso non doveva esagerare, era solo...
Due
auto gli si avvicinarono, una da un lato e una dall’altro.
«Ehi,
e questi che fanno? Non sapete il codice della strada?»
Di
tutta risposta le vetture di avvicinarono ulteriormente, stringendolo in una
morsa.
«Oh,
ma che...»
Photomas vide solo più una pistola, e poi
tutto fu nero.
«Eugene!»
Il bambino corse verso le rovine,
senza fermarsi. Kathrine lo chiamò di nuovo.
«Eugene! La mamma ha detto che
non dobbiamo andare là!»
Il bambino sorrise alla
sorellina: «Ci metto un attimo! Prendo la palla e torno, tranquilla.»
Kathrine continuò a sgolarsi, invano. Quando suo
fratello si metteva in testa qualcosa, non c’era modo di riportarlo indietro.
Ma in fondo Eugene non era cattivo, solo, anche se era piccolo, non aveva paura
di niente, neanche delle rovine, di ciò che rimaneva della Paperopoli
di un tempo. Dicevano che lì ci fosse stata una torre molto alta, ma Eugene non
ne era convinto. Troppi pochi detriti per una torre che doveva essere più alta
di settecento piani, per superare quelli che lo circondavano. La mamma gli
diceva sempre di stare lontano da lì, ma in fondo al bambino piaceva andare da
quelle parti e immaginare cosa ci fosse prima che tutto venisse abbattuto.
Quanti ricordi perduti...
Finalmente Eugene vide la sua
palla. Era rotolata sotto un pezzo di cemento. Un adulto non sarebbe riuscito a
prenderla così facilmente, ma lui era sempre stato più piccolo della media. In
certi casi era vantaggioso!
Un rumore lo fece trasalire e si
nascose. Sapeva che se lo avessero trovato lì avrebbe passato un bel guaio, la
mamma non glielo avrebbe perdonato facilmente, e quella che aveva sentito era
una voce femminile. Ma non era quella della mamma. Era una donna alta, con i
capelli in una strana pettinatura. Con lei c’erano altri due paperi, uno alto e
magro, l’altro con delle grosse spalle, di cui non poté vedere il volto. Eugene
vide solo lei: era bella, ma con uno sguardo tagliente e severo, un po’ come la
oloinsegnante.
«Lo sai, vero? Da qui non si
torna più indietro.»
La donna annuì, seria.
«Abbiamo provveduto a far sparire
ogni traccia della tua esistenza da ogni database esistente. Ora nessuno sa il
tuo nome, a parte te.»
«Abbiamo annullato la tua
identità. Per il mondo non sei mai esistita. L’unica a sapere il tuo nome sei
tu.»
«Sei disposta a rinunciarci, in
nome dell’Organizzazione?»
La donna rispose fiera: «Sì.»
Le venne porto uno strano
apparecchio: «È rimasta solo una cosa da fare. La più semplice e la più
difficile insieme. Noi ora ci allontaneremo. Pronuncia un’ultima volta il tuo
nome all’interno di questo apparecchio e questo sarà cancellato definitivamente
dalla Storia.»
«Nessuno l’avrà mai avuto.
Nessuno l’avrà mai. Nessuna omonimia sarà possibile o anche solo contemplata.
Non esisterà.»
«Perché noi non dobbiamo
esistere. Noi siamo solo figure, capi, organizzatori. Nulla di più.»
«Anche noi l’abbiamo fatto quando
abbiamo preso questo ruolo. Nessuno, forse nemmeno più noi, sa chi eravamo
prima di diventare ciò che ora siamo.»
«Il dispositivo farà in modo che la
tua storia e la tua identità siano cancellate, e che la tempolizia
non possa mai risalire a te, in nessun tempo, in nessun luogo. Allo stesso
modo, il tuo nome diventerà un codice di sicurezza. Essendo solo tu a
conoscerlo, se lo pronuncerai ad alta voce, ovunque ti troverai, disattiverai
tutto. Il tuo nome e la tua storia torneranno ad esistere. E molto
probabilmente verrai immediatamente arrestata.»
«Ti lasciamo da sola, futura
collega. Fai quel che devi o rinuncia finché sei in tempo.»
I due paperi si allontanarono e la
donna rimase lì, con l’apparecchio in mano. Eugene sperava solo che se ne
andasse in fretta, così da poter uscire, ma sembrava che la sconosciuta volesse
prendersela comoda. Si sedette su un detrito, alzò gli occhi alla porzione di
cielo visibile fra i grattacieli e sospirò. Poi pronunciò il nome, convinta di
stare cancellandolo dalla Storia.
Dalla Storia, ma non dalla
memoria di un bambino nascosto.
L’uomo
sbatté le palpebre, più volte. Si trovava in una piccola stanza completamente
vuota.
«Dove...
sono?»
«Siete
nelle mie stanze private, Eugene Photomas.»
L’uomo
si voltò e quel volto sbloccò una parte di ricordi perduti.
«Voi...
siete...»
La
donna dal lungo abito viola si sedette su una poltrona, apparsa dal nulla: «Io
sono quel che sono, Eugene Photomas. Come voi, del
resto.»
«Non...
non siete cambiata di una virgola in tutti questi anni...»
La
donna fece un mezzo sorriso: «Succede, quando si ha il controllo del tempo.»
L’avvocato
scosse la testa, mentre la donna continuava il suo discorso: «È passato molto
tempo. Sono successe molte cose. Ma vi ho sempre tenuto nel mio cuore, sapete?
Quasi non riesco a credere che quel tenero bambino con il pallone sia cresciuto
così tanto...»
I
ricordi tornarono, uno dopo l’altro, come qualcuno avesse premuto un bottone
per accendere la luce. Tasselli del puzzle della sua vita tornarono a posto
magicamente e in pochi secondi tutto fu chiaro.
«Voi
mi avete rovinato l’esistenza!»
La
donna scosse la testa: «No. Io solo ho creato l’Eugene Photomas
che ora tutti conoscono. Ho solo cercato di mettere al sicuro la mia vita da
una stupida serie di coincidenze senza che un bambino ci finisse di mezzo.»
«Che
cosa mi avete fatto? L’ultima cosa che ricordo di quel giorno è che voi mi
scoprivate e che mi puntavate contro qualcosa... e da quel punto in poi non ho
più ricordato nulla.»
La
donna sorrise, mentre gli lanciava una vecchia palla rossa: «State ricordando,
ma il processo evidentemente non si è ancora concluso. Altrimenti potreste
intuirlo, non siete affatto stupido, Eugene Photomas...
ora come allora...»
Maledizione, pensarono contemporaneamente la donna e il
bambino. Eugene aveva provato ad approfittare della sua statura per scivolare
sotto una maceria e allontanarsi, certo di aver ascoltato qualcosa di troppo.
Ma la palla gli era scivolata ancora, e lei l’aveva notato. In un secondo fu
subito su di lui.
«L’hai sentito?»
Eugene deglutì: «Di cosa...»
Gli occhi della donna divennero
di brace, mentre lo sollevava di peso, con una sola mano: «L’hai
sentito?»
Lo sguardo di panico del bambino
le diede la risposta che voleva. Eugene strinse gli occhi. Aveva maledettamente
paura, ma non avrebbe pianto. Lui era coraggioso. Poteva affrontarla.
Dopotutto, aveva lui il coltello dalla parte del manico.
Inaspettatamente, la donna lo
posò sospirando: «Non volevo andasse così. Non volevo che la mia nuova carriera
cominciasse con l’eliminazione di un bambino.»
Eugene deglutì, ma rispose con
voce ferma: «Non lo farete. Mi basta un secondo per annullare tutto il vostro
lavoro. Dirò quel nome più in fretta che potrò, se mi attaccherete, e voi
sarete arrestata. Lasciatemi andare e io manterrò il segreto.»
La donna sorrise, quasi
intenerita: «Sei coraggioso, piccolo.»
«Non bisogna essere grandi per
esserlo.»
«E hai una buona parlantina.»
«Me lo dicono spesso.»
«Verresti a lavorare per me?»
Eugene accennò un mezzo sorriso:
«Non sono un po’ troppo piccolo?»
«Il tempo per me non è più un
problema, ora.»
Una voce cristallina rimbombò fra
le macerie.
«Eugene!»
Il bambino trasalì, mentre una
testolina bionda faceva capolino: «Eugene?»
Il bambino si parò davanti alla
sorellina, cercando d’impedirle di vedere la donna.
«Kathrine,
vai via. Ora.»
«Ma...»
Il bambino si voltò verso la
piccola e le gridò: «Scappa!»
Solo a quel punto Kathrine notò una figura alle spalle del fratello: «Eugene,
chi è? Cosa vuole da te?»
Eugene era disperato: «Non ha
importanza! Scappa, ti ho detto!»
La bimba era combattuta, si
vedeva da come si stropicciava il vestito: «Ma...»
«SCAPPA, SORELLINA! ME LA VEDO IO
CON QUESTA, CORRI!»
La bambina si voltò e corse. Non
era uno scherzo, ora le era chiaro.
La donna gli sorrise beffarda:
«Oh, ma che bravo fratellino che sei, Eugene...»
Il bambino le restituì uno
sguardo di puro odio: «Lasciala andare o urlo il tuo nome. Sono disposto a
urlarlo davanti a un tribunale se serve a fermarti. Lo faccio, non ho paura.»
«Lo so. E per questo devo farlo.»
«Eh?»
Un attimo e il bambino era steso
a terra, svenuto. La donna misteriosa aveva approfittato dell’attimo di
distrazione offertole dalla bambina per trafficare un po’ con il dispositivo
che le avevano dato. In fondo, era stato creato per cancellare dati, e lei era
brava con la meccanica... voleva solo cancellare il suo nome anche dalla
memoria di quel Eugene, nulla di più. Ma aveva fatto in fretta, troppo,
probabilmente aveva causato qualche danno. Secondo i suoi calcoli il bambino
non sarebbe dovuto svenire, era un brutto segno. Controllò il suo battito
cardiaco, era regolare. Per lo meno non lo aveva ucciso. Ma forse non sarebbe
stato più quello di prima.
La donna si alzò: «Esci fuori, Kathrine. Ti ho vista.»
La bambina tremò e non si mosse.
Fu la donna a raggiungerla.
«Troppi testimoni scomodi, troppi
bambini oggi. Spero che tu sia più ragionevole di tuo fratello.»
La bambina non rispose,
terrorizzata, e la donna continuò: «Sono sicura che sei una bambina
intelligente, piccola, e quindi ti spiegherò cosa è successo. Eugene ha sentito
qualcosa che non doveva sentire, qualcosa con cui poteva ricattarmi. Gli
bastava un attimo, ma ha perso l’occasione per coprirti.
Per salvarti. E io ho dovuto cancellargli
la memoria. Ma non so se basterà, non so nemmeno se dopo quel trattamento
ricorderà ancora il suo nome. Ha messo in gioco tutto per proteggerti, Kathrine, ora tocca a te ricambiare.»
La vocina della bambina uscì come
uno squittio: «Come?»
La donna le premette una spalla e
la bambina urlò dal dolore.
«Ti sto incidendo un numero sulla
pelle, Kathrine, così che tu non possa perderlo. Se
tuo fratello iniziasse mai a ricordare ciò che è successo oggi, dovrai solo
chiamarmi, così che io possa cancellargli di nuovo la memoria. Fallo,
ragazzina, fallo o la prossima volta tuo fratello non tornerà a casa. Io saprò
se lui ricorderà. E se non mi avvertirai tu per prima, morirà. Questo è il mio
ultimo atto di carità.»
La bambina pianse, in silenzio,
mentre la donna si allontanava. Rimase lì, ferma, a piangere per il dolore e
per la paura. Poi suo fratello si mosse.
«Eugene?»
Il bambino si alzò con aria
confusa e la guardò.
«E tu chi sei?»
La bambina spalancò gli occhi,
inorridita. Non ebbe il tempo di fare nulla, però. La mamma stava arrivando.
«Cosa ci fate qui? Vi avevo detto
di non venire, che è pericoloso!»
Eugene guardò la donna smarrito.
Dovrebbe conoscerla? Gli era familiare ma non riusciva a identificarla appieno. Poi lei lo guardò
con occhi di brace. Occhi che aveva già visto. Occhi che lo avevano condannato
nella sua nuova esistenza.
Sapeva che doveva ricordare
qualcosa, qualcosa d’importante.
E l’essenziale gli tornò in mente.
«Scusa mamma.»
Non era la nozione giusta, ma era
già qualcosa. Aveva ricordato delle cose importanti, ma non quelle che aveva
l’impressione fossero più urgenti, più vitali, ma non aveva importanza. Prima o
poi quello che doveva ricordare sarebbe tornato. Avrebbe ricordato perché quegli
occhi lo avevano guardato in quel modo. Ne era certo.
Photomas afferrò al volo la palla. Ora
gli era tornato tutto in mente.
Ecco
perché uno sguardo particolarmente arrabbiato gli faceva sempre tornare in
mente tutto. Non erano sensi di colpa. Era un disperato tentativo inconscio di
ricordare.
La
donna lo guardò seria: «La vostra cara sorellina ha mantenuto il patto. Le sono
grata di questo.»
«Quale
patto? Che c’entra Kathrine?»
«Non
potete ricordare, eravate svenuto, ma vostra sorella era tornata indietro e mi
ha visto mentre vi cancellavo la memoria. Per cui ho fatto un patto con lei.»
Eugene
scosse la testa: «Non l’avrebbe mai fatto.»
«Era
una bambina, una bambina spaventata. Vi faccio una domanda, Eugene Photomas: avete mai visto la signora Kathrine
con una canotta, un abito o con qualunque indumento che le lasciasse scoperte
le spalle?»
«E
questo cosa...»
La
donna sorrise: «Rispondetemi. Ora la memoria non dovrebbe più difettarvi...»
No,
adesso i ricordi erano nitidi e perfetti. L’avvocato cercò di ricordare le gite
al mare e i pomeriggi in piscina... in effetti aveva sempre almeno una maglia a
mezze maniche...
«Io
le ho inciso su una spalla il modo per contattarmi non appena voi aveste
iniziato a ricordare. Io le ho insinuato il sospetto che sia stato a causa sua
se voi non potevate più ricordare...»
Il
mondo sembrò crollare addosso a Photomas. Kathrine, la sua sorellina perfetta... l’aveva assistito in
quel modo... per i sensi di colpa?
«Ma
lei non c’entrava nulla!»
«Noi
lo sappiamo... lei no.»
Eugene
iniziò a sentire una gran rabbia montargli dentro, una rabbia repressa
inconsciamente per anni: «E Kathrine...»
«Vostra
sorella ha semplicemente scelto fra un fratello smemorato e uno morto... potete
forse darle torto per la sua decisione?»
Photomas fece appello a tutta la sua
calma, perché una vocina dentro di lui, forse appartenente a quello sfortunato
bambino che cercava la sua palla, gli suggeriva insistentemente di andare a
tirare un pugno sul naso a quella donna che aveva rovinato la vita sua e di sua
sorella. Strinse forte il pallone rosso. Non doveva perdere né la calma né la
razionalità. Tanto per cominciare, come ci arrivava al suo naso, vista la
differenza di statura? No, le mani non erano una soluzione. Doveva usare le sue
armi migliori, coltivate in anni e anni di processi e appelli.
«Ora
sono qui. Cosa volete da me?»
La
donna prese una sorta di strana pistola: «Capirete anche voi che questa
situazione non può rimanere così. Voi non avevate colpa dell’accaduto, lo
riconosco ora come lo riconobbi allora, ed è per questo che siete ancora vivo.
Ma gli anni sono passati, voi non siete più un bambino indifeso, e io non sono
la stessa persona di allora. Vi offro tre possibilità, Eugene Photomas. Sarete voi a scegliere il vostro destino.»
L’uomo
non disse una parola, e la donna continuò a parlare: «La prima proposta è
quella che vi feci allora: venite a lavorare per me. Siete un valente avvocato,
adesso, avete un’ottima parlantina e ora che non soffrite più di amnesie sareste
un valido aiuto. Senza contare che la vostra fama di... pasticcione, se mi permettete, sarebbe un’ottima copertura per i
nostri affari.»
Visto
che l’avvocato continuava a fissarla in silenzio, senza cambiare minimamente
espressione, la signora continuò: «La seconda opzione è quella che ho in mano.
Vi cancellerò nuovamente la memoria, questa volta limitandomi all’episodio del
nostro incontro. Nulla sarà accaduto, voi continuerete la vostra vita normale e
al massimo continuerete a chiedervi perché improvvisamente la vostra memoria
abbia deciso di riprendere le sue normali funzioni.»
Photomas continuò a guardarla
impassibile: «E la terza?»
«Se
ogni mediazione vi risulta inaccettabile, vi uccido. Qui, seduta stante. Ora
sta a voi, Eugene Photomas. Pensateci pure, io ho
tutto il tempo del mondo.»
Già,
era vero, ora poteva capirlo. Anni prima gli aveva dato tutti gli indizi, ma
non lui era troppo piccolo per avere tutti i dati che gli avrebbero consentito
d’identificare chi aveva davanti. Perché adesso gli era chiaro, aveva davanti
uno dei capi dell’Organizzazione di pirati temporali. Aveva partecipato a
parecchi processi in cui erano più o meno direttamente coinvolti, non ultimo
quello dell’androide 5y denominato Lyla Lay. Era un pezzo grosso, e lui era l’unico a poter dare le
prove per poterla condannare definitivamente. Gli bastava pronunciare quel
nome, quel nome che gli bruciava inconsciamente sulla punta della lingua da più
di trent’anni. Sarebbe stato giusto, la sua deontologia d’avvocato, il suo senso
di giustizia e, perché no, un pizzico di sana vendetta personale gli
suggerivano di tentare l’azzardo.
Ma se avesse fallito? Chi
rischiava di finirci di mezzo erano Kathrine e la sua
famiglia. Dopotutto quello che aveva fatto per lui la sua sorellina, sarebbe
stato anche egoista non pensarci.
Che
fare?
Dopo
un lungo silenzio, l’avvocato prese un profondo respiro: «Non mi avete messo in
una situazione semplice, sapete?»
«Neanche
voi.»
«Indubbiamente
lavorare per voi avrebbe i suoi vantaggi... immagino che lo stipendio sia
buono, qui, e che potrei avere una non indifferente spinta per fare carriera.»
«Immaginate
bene.»
«Essere
dalla vostra parte metterebbe anche al sicuro me e la mia famiglia.»
«Non
ne avevo fatto cenno, ma sapevo che siete una persona intelligente e ci sareste
arrivato da solo.»
«D’altra
parte, si metta nei miei panni... significherebbe voltare le spalle a più di
vent’anni di onorata carriera. Sono pur sempre un avvocato, amo il mio lavoro e
ciò che comporta. Se accettassi questo suo patto diabolico dovrei letteralmente
buttare via gli ultimi trent’anni della mia vita... non è un sacrificio
indifferente.»
La
donna sorrise beffarda: «Fino a stamattina non avreste ricordato un granché di
quello che ora avete paura di perdere.»
«Ma
ora ricordo. E ora ha senso che abbia questo timore. Non rinnego quello che ho
detto prima, il vostro maldestro intervento mi ha effettivamente rovinato la
vita... ma mi ha anche offerto tante occasioni che altrimenti non avrei avuto.
Di scoprire lati di me che probabilmente non avrei esplorato.»
«Del
tipo?»
Photomas sorrise, girandosi la palla fra
le mani: «Sapete che sono bravo nei giochi di ruolo? Il mio nipotino mi adora
per questo, mi chiede sempre di giocare a qualcosa. Mi viene naturale. Avendo
sempre dei dubbi sulla mia identità, delle piccole amnesie, mi risulta più
facile rispetto alle altre parsone identificarmi in un ruolo che non sia il
mio. Abbiamo giocato a un sacco di cose, mi sono ritrovato a interpretare e a
identificarmi in una miriade di ruoli: esploratore, cavaliere, supereroe,
gelataio...»
«Non
capisco dove vogliate arrivare.»
Eugene
sorrise: «Da ognuno di questi ruoli ho imparato qualcosa che altrimenti non
avrei potuto apprendere. Oh, fino a stamattina avrei avuto qualche problema ad
applicarlo, vero... sapete a cosa abbiamo giocato l’altro ieri?»
In
un attimo l’uomo lanciò la palla e le diede un fortissimo calcio: «CALCIATORI
AL MONDIALE!»
Il
piano era semplice: farle saltare di mano la pistola e urlare il suo nome
nell’attimo di distrazione. Ma evidentemente quella palla doveva essere
maledetta, perché sì, colpì il suo obiettivo, ma causò una serie di eventi
imprevedibili.
Fu
un attimo.
L’apparecchio
cadde e partì un colpo, che prese in pieno la donna, ma non completamente. Una
piccola parte del raggio rimbalzò sulla palla ancora in volo e colpì Photomas prendendolo completamente di sorpresa e prima che
riuscisse a dire il nome.
Entrambi
i contendenti si ritrovarono a terra, confusi.
La
donna si rialzò per prima: «Ma cosa...»
Si
guardò intorno, perplessa. Era nelle sue stanze, ma...
«E
voi chi siete?»
L’uomo
si guardò intorno, confuso quanto lei, raccogliendo un pallone rosso rotolato
al suo fianco: «Io... non lo so... credo di essere venuto a recuperare la
palla...»
Lei
lo guardò scandalizzata: «Qui dentro?»
«Credo...»
La
donna aprì la porta di scatto: «Sicurezza! Portate via subito quest’uomo! E
portatemi un cachet, ho un mal di testa...»
Senza
poter dire di più, l’uomo venne trascinato via dalla scorta. La donna si
accasciò sulla poltrona, esausta. Solo allora vide a terra l’attrezzo per
cancellare la memoria. Che ci faceva lì? Cosa poteva aver cancellato?
Si
sarebbe resa conto solo dopo un bel po’ di tempo di non ricordare il suo nome,
ma non se ne sarebbe dispiaciuta. La sua carriera, adesso, era definitivamente
al sicuro.
Photomas riaprì gli occhi. Era di nuovo
davanti al tribunale, solo. Non aveva idea di come ci fosse arrivato, ma Flowers, solerte, lo aspettava sulla porta e lo condusse
dentro di peso, prima di potersi chiarire le idee.
In
un attimo fu scaraventato in aula, nel bel mezzo di un processo, di fronte a un
giudice che gli chiedeva insistentemente perché il suo cliente fosse innocente.
E lì, come sempre, iniziò a parlare, chiaro, limpido, con tutti i dati al suo
posto. Nessuno disse nulla, nemmeno il suo segretario, troppo preso a preparare
gli incartamenti per gli interventi successivi. Alla fine del suo intervento, l’avvocato
si sedette e rimase ad ascoltare il resto del dibattimento. Solo un occhio
attento poteva notare, però, che invece della sua solita aria svampita, Photomas sfoggiava uno sguardo serio, attento e
determinato, uno sguardo mai sfoderato prima.
Alla
fine dell’udienza, all’avvocato e al suo segretario si avvicinò la Evans.
«Buongiorno,
Photomas.»
L’avvocato
alzò la bombetta: «Buongiorno, signora Evans.»
La
papera alzò un sopracciglio, sorpresa: «Vi posso chiedere cosa vi succede
oggi?»
«Perché?»
«Tanto
per cominciare, avete ricordato il mio nome.»
A
James prese un colpo: «Oh cavolo, è vero!»
Prontamente
il segretario mise una mano sulla fronte dell’avvocato: «Vi sentite bene? Avete
la febbre?»
Sospirando,
Eugene rispose: «Non credo, sarà un caso. Ma ora che è finito il processo
magari è meglio che vada a casa... mi accompagnate, signor... come avete detto
di chiamarvi?»
James
sorrise, trascinando il suo datore di lavoro verso la macchina: «Flowers. E no, direi che è tutto come al solito.
Arrivederci, signora Evans!»
La
donna rispose al saluto distrattamente. In realtà quello che aveva attirato
maggiormente la sua attenzione, più che il suo nome, era stato quello sguardo
tanto diverso dal suo solito.
«Eugene
Photomas... ma ci siete o ci fate? Cosa nascondete? Un
giorno o l’altro lo scoprirò...»
«Zio
Eugene, zio Eugene!»
L’avvocato
abbracciò il nipotino: «Tommy!»
Flowers, dopo aver chiesto permesso,
entrò in casa della signora Kathrine e posò la
ventiquattrore sul tavolo: «Buongiorno, signora Photomas.
Scusate l’improvvisata.»
La
donna sorrise: «Quante volte vi ho detto di chiamarmi Kathrine
e di darmi del tu? Siete smemorato quasi quanto mio fratello...»
James
sorrise: «Forse mi sta contagiando. Ma a questo punto mi dovresti dare del tu a
tua volta.»
La
donna gli prese la giacca: «Si può fare. Su, entra, la cena è quasi pronta!»
Mentre
Kathrine riponeva il soprabito e il segretario andava
a salutare il bambino, Eugene le si avvicinò, silenzioso, e rimase a guardarla.
Poi, all’improvviso, le mise le mani sulle spalle.
La
donna si ritrasse subito, spaventatissima: «Eugene! Mi hai fatto spaventare!»
Photomas osservò le mani della sua
sorellina sfregarsi le spalle, quasi come se dovesse scaldarsele. Poi sorrise,
un po’ malinconico.
«Scusami.
Volevo solo chiederti una cosa.»
«Certo,
dimmi pure.»
«Potresti
custodire una cosa per me? Sai, con la mia memoria...»
Kathrine sorrise, materna: «... se non te
la tengo io la perdi per sempre, lo so. Di che si tratta?»
Eugene
armeggiò un attimo nella ventiquattrore che aveva con sé, poi tirò fuori una
palla rossa: «Questa. Puoi evitare che Tommy ci metta le mani?»
Kathrine la prese con la stessa
delicatezza con lo stesso sguardo terrorizzato che avrebbe avuto se avesse
dovuto maneggiare una bomba: «Eugene... questa... questa...»
«Qualcosa
non va?»
«Dove
l’hai presa?»
L’avvocato
alzò le spalle, ritornando nell’altra sala: «Non me lo ricordo.»
La
donna rimase lì, immobile, con il giocattolo in mano.
Cos’era successo?
Chi
aveva davanti?
Il suo fratellino smemorato da
seguire passo passo, o...
Photomas raggiunse la camera del nipote
con molta calma, godendosi il tragitto passo dopo passo.
Glielo
aveva fatto capire Flowers, poco prima, in tribunale.
Non poteva più tornare indietro.
Non poteva smettere di essere l’avvocato smemorato.
Forse,
se quella storia si fosse risolta qualche anno prima, le cose sarebbero andate
diversamente. Ma ormai, non c’era più molto da fare. Le persone che lo
circondavano e che gli volevano bene, in fondo, erano affezionate all’omino
smemorato, lui lo sapeva. Come avrebbero reagito nello scoprire di trovarsi
davanti una persona piuttosto diversa, più sicura di sé, più determinata ora
che non era più ostacolata dal dubbio continuo di aver dimenticato qualcosa
d’importante? Con sospetto, con incredulità, se andava bene, ma anche se prima
o poi si fossero abituati, non sarebbe stato più come prima, l’avvocato se ne
rendeva ben conto. E dopotutto non aveva scelto lui di essere smemorato, come
non aveva scelto di farsi tornare in mente tutto. Era capitato, e non poteva
farci niente.
Sì,
ora ricordava tutto. Tutto tranne l’unica cosa che quel raggio evidentemente
gli aveva fatto scordare. Quel nome, quel nome maledetto proprio non riusciva
più a identificarlo. Era straniero, sì, forse dell’est Europa, ma per quanto si
sforzasse, non gli veniva.
Photomas alzò le spalle sospirando. Non
era nient’altro che l’ennesima amnesia, e chi meglio di lui sapeva cosa fare in
quei casi? Non c’era altro da fare che aspettare, prima o poi la memoria
sarebbe tornata, come sempre, ora lo sapeva. E quel giorno, non appena avesse
ricordato, avrebbe urlato quel nome, con tutta la sua voce, ovunque si fosse
trovato, a costo di sembrare un pazzo. Lei sarebbe stata arrestata e lui
sarebbe stato lì, in quel tribunale, a confezionarle l’accusa perfetta. In quel
caso sì, avrebbe mandato all’aria la sua copertura di eterno smemorato, pur di
vederla dietro le sbarre. Sì, quel giorno ne sarebbe valsa la pena.
Ma
per il momento, si sarebbe accontentato di una ritrovata sicurezza di sé,
dell’affetto della sua sorellina Kathrine, della
pazienza del suo segretario James e del sorriso sincero del suo adorato
nipotino, pronto a giocare con lui all’ennesimo gioco di ruolo.
Un
segreto custodito con pazienza e sacrificio.
Questo
era ora Eugene Photomas.
Sono un tipino strano, lo so. Di solito al
compleanno uno li riceve i regali, non li fa. E invece io ne faccio uno a voi,
donandovi questa storia dalla vicenda un po’ complessa: nata come fan fiction,
adattata per un fumetto purtroppo non completato e ritornato ad essere una fan
fiction arricchita di personaggi in più che era un peccato buttare via...
Mi è sempre piaciuto Photomas. Un peccato
che sia stato usato così poco, ma ho provato, per una volta, a dargli un po’ di
spazio...
Spero vi sia piaciuta, alla prossima!
CIAO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Hinata 92