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Autore: Maya98    15/07/2014    2 recensioni
"È una dissonanza prodotta tra due voci, o parti, e può avvenire fra due note con lo stesso nome, suonate in successione che siano una naturale e l'altra alterata, ma in parti differenti."
Sherlock capisce che c'è solo un modo per battere Moriarty, e questo modo è fingersi dalla sua parte, con tutte le conseguenze e i sacrifici che questa scelta comporta. Ovviamente, John ne è totalmente all'oscuro.
Note: Johnlock, accenni pesanti di Jary e "Sheriarty" senza sentimento, e qualche cosa di Sherlock&Mary. Cammei vaticani, P.O.V. di Sherlock, Post-HLV.
Avvertimenti: Non è non-con perché è consensuale, ma sicuramente non voluto.
 
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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5. Trio
L. V. Beethoven – Trio per archi e pianoforte op. 1 n. 3
 
Le sistema i capelli e poggia delicatamente il corpo sulla sedia, come se stesse dormendo. Congiunge le sue mani sul ventre, e poi le chiude le palpebre, leggero. Lascia un bacio sulla fronte, come per scusarsi.
Il lavoro è stato pulito. Nessuna prova. Ma Sherlock non ha potuto lasciarla così, con il sangue che le deturpava il volto, pur sorridente fino alla fine. Ha preso uno straccio e le ha ripulito la fronte e il viso, poi ha sistemato il corpo per dargli un briciolo della dignità che merita. In questo si è sporcato: le sue mani ora sono macchiate realmente del sangue di Mary, non solo metaforicamente. E Sherlock non vuole lavarlo via. Per non dimenticare. Per ricordare.
(Avrebbe voluto che non fosse tra le vittime sacrificate. Ma lo è stata. E la ricorderà fino alla fine dei suoi giorni).
-Addio, Mary Watson.-bisbiglia, prima di chiudere la porta dietro di sé, e uscire con passi frettolosi.
L’aria sul suo viso è uno shock: gelida, e così solida. Reale. Tangibile. A ricordargli tutte le conseguenze del suo gesto (fisico, irreparabile).
Mary Morstan-Watson non vive più.
Non respira, non parla, non sorride (il silenzio è un cancro che cresce). E anche la creatura nel suo grembo (Sheridan Amanda Watson, Sherlock. Sheridan Amanda Watson) non ha più davanti un futuro. Se un attimo prima avrebbe potuto voltarsi e parlarle ancora, chiederle consigli, sentirla scherzare e ridere con lei, ora tutta questa realtà non è che un piano nella sua sente. Irreprensibile. Irreparabile.
Riesce quasi ad immaginare l’arrivo di John a casa. Riesce a vedere le sue labbra contratte in una morsa dolorosa, e gli occhi (blu screziati di marrone, bellissimi, ed eternamente disperati), le guance scavate, e tutto nella sua figura curva che urla in un profondo baratro “non di nuovo”.
Gli sale un conato. Se non fosse assolutamente certo dell’impossibilità di ciò, potrebbe quasi dire che gli sembra che i polmoni e il cuore gli stiano schiacciando il fegato così tanto da comprimerlo del tutto. Sente gli organi interni fluttuare gli uni sugli altri, in un ammasso doloroso informe di ossa fratturate che rischiano di perforare qualsiasi tessuto tenue gli si presenti abbastanza vicino.
(Che ossimoro ironico – e stupido –, metaforizzare scientificamente. Dovrebbe smetterla).
La nausea gli arriva e gli stringe la gola, come una mano forte dalle dita agili pronta a soffocarlo. I suoi problemi respiratori si fanno sentire unicamente quando la situazione si fa più grande di quel che lui si sente di poter gestire (alla Caduta, per esempio. Alla caduta gli era sembrato di non poter respirare), e questa è una di quelle volte. È come se avesse il setto nasale deviato, oppure come se si trovasse sott’acqua: non riesce ad inalare, ed è costretto a boccheggiare stupidamente come un pesce. Si ferma per qualche secondo, passandosi la manica sulla fronte e imponendo di calmarsi. Le mani ancora rosse sfiorano i capelli, lasciando dietro di loro scie che sembrano vernice. Non riesce a vedere dove va. La testa gli gira.
Quando, dopo aver chiuso gli occhi, finalmente riesce a sollevare le palpebre e a mettere a fuoco, il mondo si ferma.
John sta uscendo da un taxi, avanzando verso di lui con calma tranquilla, come se fosse l’unica cosa veramente reale in un’illusione spazio-temporale. Un uomo che cammina attraverso milioni di mondi, milioni di realtà, annullandole con un solo passo mentre ci transita attraverso, e che riempie Sherlock di puro panico.
Non sarebbe dovuto tornare così presto. Non avrebbe dovuto trovarlo lì.
Fa per alzarsi, per iniziare a correre via, ma è troppo tardi: John lo ha visto. La postura rigida del soldato si è sciolta, un braccio si è alzato (il sinistro) in segno di saluto, e il suo volto si è aperto in un incredibile sorriso che brilla di luce propria. (Oh, lo ama, lo ama così tanto). È incredibile il cambiamento facciale sul viso di John Watson: è così espressivo, e non se ne accorge neanche. Il suo volto gli parla continuamente, ancor più del suo corpo, e Sherlock è un abile lettore: ormai riconosce ogni occhiata, ogni espressione, ogni sfaccettatura. Potrebbe catalogarle, riempire taccuini di appunti, schizzi, consigli e annotazioni (e stupidi, stupidi commenti personali). Il suo passo si fa sensibilmente più veloce per venirgli incontro, e Sherlock torna bruscamente alla realtà, come una secchiata di acqua gelata. Deve andare via di lì. Andarsene il più velocemente possibile. Senza parlare con John.
Appena lui gli è vicino lo scansa velocemente, aggirandolo, senza guardarlo in volto (ne rimarrebbe ossessionato. Sarebbe l’incidente di percorso che lo farebbe capitolare) e avanza a testa bassa fingendo di non averlo visto, o di averlo ignorato di proposito. Ma John non si arrende, chiama il suo nome, a voce forte e alta:-Sherlock!-e gli corre dietro, e lo prende per un braccio, così irrimediabilmente testardo, così irrimediabilmente John. E Sherlock non vuole che lo veda così, non vuole, non può e soprattutto non deve. John rimane fermo, non realizzando subito. Poi il suo sguardo si abbassa sulle mani di Sherlock ancorate al cappotto, completamente rosse, completamente sporche di sangue, e il suo volto si trasfigura di nuovo, preoccupato. Temendo che sia ferito. (Oh John, così cieco). Sherlock si strattona via, allontanandosi di altri due passi. Orripilato, colpevole, sporco.
John finalmente, realizzando che ci deve essere qualcosa che non va, affretta il passo verso casa, arrivando quasi a correre. Spalanca la porta (dannazione, l’ha lasciata aperta), e si precipita dentro come un disperato.
Sherlock non ha tempo. Questa è l’occasione. Si guarda intorno, per vedere da che parte evadere. Dà una breve occhiata all’orologio, contando che Jim avrebbe già dovuto essere lì – o chi per lui – con l’auto promessa. Ma non ha abbastanza minuti per temporeggiare ad aspettarlo. Eppure qualcosa lo trattiene dal correre via nella prima direzione possibile. Si sente disperato. Si guarda attorno, confuso, come se avesse perso il senso dell’orientamento.
-Sherlock!-urla John dalla porta di casa, affacciatosi con il volto paonazzo, e il respiro affannoso.
Sherlock non si gira, non fa niente. Non vuole guardarlo negli occhi. Non vuole leggergli la disperazione che vi ha immaginato. Sarebbe una pugnalata, lenta e dolorosa, e continua. Sarebbe un suicidio: il suicidio del suo piano, la scomparsa dell’ultima spiaggia di salvezza (per John). E non può permetterlo.
-Sherlock, Mary…-dice di nuovo John, e Sherlock riesce a sentire ogni sfaccettatura di quella voce strozzata, spezzata, e gli echi di un cuore già frantumato che si infrange nuovamente. Riesce a sentire le lacrime dietro a quella voce, le lacrime nascoste alla visuale, cacciate agli angoli degli occhi perché un soldato non si fa mai vedere piangere. Sente il cuore – il suo, però, quello che credeva di non avere – pompargli forte nel petto. E aspetta. Aspetta.
Poi si volta.
Le mani  immobilizzate sui cardini della porta come se li stessero strappando. Si concentra solo su questo. Il peso sulle spalle, il volto sconvolto e già esausto, e la muta preghiera che quegli occhi gli rivolgono. I vestiti sfatti, come se fosse bastata una corsa a dargli quell’aria smessa e consunta. John apre la bocca e manda fuori bruscamente l’aria, senza riuscire a emettere parola. Tutto contratto: un concentrato di dolore e rabbia pura, così sottile, così celato, così dannatamente evidente ai suoi occhi. John. John. John.
-Che è successo?-chiede, esalando a mala pena le parole, mentre lo prega con lo sguardo di dargli un’altra spiegazione. Un’altra motivazione per la pistola nella tasca dei suoi pantaloni e le sue mani sporche di sangue.
Un rumore di ruote e un sottile ronzio del motore comunicano a Sherlock che il suo passaggio è arrivato.
Non riesce a continuare a guardare John negli occhi. L’immagine sua e di Mary si sovrappongono, convergendo in un’unica, gigantesca spirale di sensazioni contrastanti. Odio, rancore, minaccia, dolore, e amore, così tanto amore (troppo. Mycroft ha sempre avuto ragione sull’importarsene: non è vantaggioso).
Si volta di scatto, infilando le mani ree nelle tasche del cappotto, celando così la sua colpa, e comincia a camminare con passo sostenuto verso la classica macchina scura a pochi metri davanti a lui. Jim in persona sul sedile posteriore, il viso curioso sporto dal finestrino aperto.
-SHERLOCK!
È il canto delle sirene. Impossibile resistere alla tentazione di voltarsi: lo fa un’ultima volta. John ha iniziato a correre verso di lui, il volto duro, i muscoli contratti. La porta di casa sua lasciata spalancata dietro di lui.
Si ferma a pochi passi da lui. Sembra così vicino eppure è così distante. Sherlock riesce a contargli le lacrime sulle ciglia, e i solchi profondi sulla fronte scavati dalla rabbia e dalla disperazione. John non capisce. John non ha mai capito: è quella la chiave di tutto. Deve essere proprio un idiota, per essersi circondato di un tale idiota.
-Sherlock, spiegami- Di…dimmi-respira affannosamente, pinzandosi la radice del naso e inclinando la testa, senza aggiungere altro. Le parole che improvvisamente mancano, come il respiro, come la vita. Le stesse reazioni che stanno prosciugando Sherlock ora, come un fiore lasciato senz’acqua troppo a lungo appassisce su sé stesso, accartocciandosi sfiorito.
-Dimmi-dimmi…che è successo?-annaspa, alla ricerca d’ossigeno. Lo guarda negli occhi ed è così vicino quando protende una mano in avanti per fermarlo, così vicino, così pericolosamente vicino che scotta, che Sherlock si ritrae come se fosse fuoco. Scansa la mano, camminando in fretta e furia verso la sua destinazione, la mente un caos, il suo palazzo mentale invaso da un vento prepotente che porta scompiglio. Jim come punto di arrivo: Jim è l’obiettivo per salvare l’uomo che è alle sue spalle.
Ma non è ancora finita. Non è ancora iniziata. John riesce a vedere il volto di chi lo sta aspettando e scatta in avanti, lo afferra per l’avambraccio, lo costringe a guardarlo negli occhi. E Sherlock ci vede il mondo che lo porta alla rovina.
Delusione. Paura. Confusione. Amarezza. Dolore. E così tanta, così tanta straizante incredulità.
L’ha deluso. È capitato, alla fine. Doveva succedere (di nuovo), ma non credeva che sarebbe stato così doloroso. (È più che doloroso, è tremendo). È una lunga crepa che gli parte dal centro della fronte alla bocca dello stomaco. È il castello di carte che vede crollare, spinto dal vento e dalla mano di John.
-No.-dice John, e solo questo, solo questa sillaba, non inframmezzata, ma coincisa, sicura, è la sanzione. La pena, la condanna.  La tortura in sé stessa.
-No, Sherlock.-dice John. Lo tiene così vicino che Sherlock riesce a sentirlo respirare, ma al tempo stesso non potrebbe essere più lontano. È un ossimoro, e Sherlock non sopporta gli ossimori, per questo tira un forte strattone, liberandosi della mano ruvida di John, le dita callose sul suo avambraccio. Il suo ultimo tocco. Mano salvifica e condanna allo stesso tempo.
-Lasciami andare!-esala, disperato.
La fine. Due parole. Due dannate parole scivolategli di bocca troppo tardi per essere fermate. Due parole che ha sempre desiderato dirgli, due parole per cui il cervello ha ingaggiato una vera e propria battaglia per non pronunciarle. Soprattutto non di fronte a quella persona. Lasciami andare. Lasciami andare (lasciamiandarelasciamiandarelasciamiandare). Smetti di attirarmi a te. Smetti di trattenermi con te. Smetti di creare questo legame indissolubile tra noi. Smetti di costringermi a starti vicino (e a rinunciare a te). Lasciami andare. Lasciami andare. Lasciami andare.
John lo guarda, con la bocca aperta, incredulo. Gli occhi supplichevoli, occhi che a Sherlock sono insopportabili (perché così amati. Così tanto amati). Non ha capito il sottotesto (non lo fa mai). John non capisce semplicemente. Non ha mai capito. Non è nelle sue capacità. Ritira la mano e la incrocia con l’altra, senza riuscire a parlare, guardandolo solo con quella fierezza e strenuità dovuta alla volontà di non arrendersi. Non rassegnarsi.
È l’ultima volta in cui lo guarda, Sherlock. L’ultima volta in cui si bea della sua vista.
-Sherlock.-dice solo John, e non riesce ad aggiungere altro.
Sherlock gli volta le spalle, compunto, freddo e lapidario (come la maschera che indossa) e sale in macchina.
 
( Continua )
 
 
 
Note:
Capitolo straziante da scrivere perché non veniva come volevo io. Sono assolutamente insoddisfatta. Troppo dramma alla fine, troppo poco all’inizio. E il lato innamorato di Sherlock è emerso troppo prepotentemente. Uffa. Fallita, mi sento fallita.
Godetevi il Johnlock che sarà duro da riconquistare. Ah sì, parto per altre due settimane. Aggiornamenti ad agosto gente! Grazie a tutti quelli che recensiscono e seguono (siete in venti, wow!)

 
  
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