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Autore: fakeasmileandcarryon    15/07/2014    2 recensioni
Lei ha perso se stessa.
Lui aveva riposto la sua anima in lei.
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«Io non mi ci riconosco in tutto questo, io non so cosa sono diventata in quest’ultimo anno. [...] Mi sono risvegliata e non ricordavo più come fossi finita lì. Perciò non venitemi a dire che sto bene, che passerà, che ho perso solo un anno di un’intera vita. Non voglio sentire niente. Io sto male.»
[...]
Chi sono? Che fine ha fatto la Amberlee Walker che ero un anno fa?
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2
There’s no place
 
like home
 
Gennaio, oggi.
POV Luke
Appena metto piede fuori dall’aeroporto mi sento di nuovo a casa. Di nuovo a Sydney.
È passato un anno dall’ultima volta che sono stato a casa.
Quel giorno di dicembre l’estate era appena iniziata e lasciare la città era stata dura. Lasciare delle persone lo era stato ancora di più.
Ma non si poteva non partire. Da un po’ di tempo mi divertivo con i miei migliori amici a suonare e scrivere canzoni. L’anno scorso le cose erano iniziate a girare per il verso giusto e ci avevano voluto per un anno a Londra, per trasformare una passione in un vero e proprio lavoro. Ora non siamo più semplicemente Luke, Mikey, Calum e Ash, quattro ragazzi che si divertono e basta: ora siamo i 5 seconds of summer.
Resto per un po’ imbambolato, trolley in mano e naso all’insù. L’aria di Sydney è diversa da quella delle altre città, ha qualcosa di speciale. Forse perché non c’è nessun posto come casa.
Vedo che Calum mi imita, in quest’anno frenetico passato dall’altra parte del mondo non potevamo ammettere, e nemmeno capire, quanto ci mancasse questo posto.
Mi giro, osservo Ashton farsi il primo selfie australiano dopo una vita e sbrigarsi a postarlo su Instagram. Non si smentisce mai. Michael, con i suoi capelli momentaneamente verdi, invece, si guarda intorno, sta aspettando che noi siamo pronti per andare e nel frattempo ne approfitta per accogliere a casa il suo inseparabile peluche ‘Daniel the lion’.
Mi chiedo cosa pensi la gente che ci passa accanto. Dobbiamo sembrare quattro ritardati. E a volte lo siamo veramente. Ma pazienza, questi tre sono i miei fratelli e, ritardati o no, gli voglio un bene indescrivibile. In momenti come questo mi viene da chiedermi se non avessimo dovuto scegliere un altro nome per la band. Bromance ad esempio.
«Ragazzi – Ashton infila il cellulare in tasca e ci guarda uno per uno – che dite, andiamo?»
Tutti e tre mostriamo il nostro consenso. Ci accordiamo per cenare insieme nell’appartamento preso all’inizio della nostra avventura, se così si può chiamare.
Ora è il momento di tornare a casa, dalle nostre famiglie.
Infilo gli occhiali da sole mentre mi dirigo verso uno dei tanti taxi posteggiati nel parcheggio dell’aeroporto, per non rimanere accecato dal sole.
Mentre il tassista mi porta a destinazione, mi viene da ripensare al temporale estivo che si era abbattuto sulla città la sera della nostra partenza. La quantità di pioggia di quella sera non si era mai vista. E invece oggi il sole fa evaporare ogni cosa. Con non poco egocentrismo mi ritrovo a pensare al cielo come ad un amplificatore dei mie stati d’animo. Ancora ricordo quel peso sul petto che sembrava portarmi a fondo mentre l’aereo decollava. E il dolore era continuato per un intero anno, ogni volta che ripensavo a quelle lacrime nascoste dietro una felpa sul volo diretto a Londra.
Ma ora non c’è più motivo di piangere e stare male. Sono tornato e questo significa riappropriarmi di tutto quello che mi era mancato. E ho il sole dalla mia parte.
Pago la corsa al tassista, lasciandogli una mancia alquanto generosa. Dovrebbe ringraziare il mio buon umore di oggi.
Percorro a grandi falcate il vialetto di casa e, invece di recuperare la chiave di scorta sotto il vaso di rose lì accanto, preferisco suonare il campanello per farmi venire ad aprire da mia madre, che si aspetta il mio rientro per la prossima settimana.
Resto impassibile con le mani dietro la schiena, mentre vedo la porta aprirsi. Intravedo la divisa da giardinaggio di mia madre e un secondo dopo, la porta è spalancata.
Mia madre si porta le mani alla bocca, la frangetta bionda si solleva con le sopracciglia per l’espressione di sorpresa, mentre gli occhi si riempiono di lacrime.
Non perdo tempo un attimo per abbracciarla. La cingo con le mie braccia, stringendola al petto e lasciandole un bacio sulla nuca. La sento singhiozzare di gioia mentre mi stringe più forte che può. Sono passati un anno e due settimane dall’ultima volta che aveva potuto abbracciarmi.
«Il mio piccolo, sei diventato un uomo.» sussurra.
«Un uomo che ama la sua mamma» le rispondo accarezzandola, leggermente in imbarazzo, come ogni volta che mi ritrovo a parlare di sentimenti.
La sento sorridere. Quel suono ricomincia a riempirmi il cuore, svuotato, col tempo, dalla nostalgia di casa.
Un secondo dopo si è già messa all’opera per prepararmi qualcosa da mangiare. Mi appoggio sullo stipite della porta della cucina e assaporo per un po’ il profumo del cibo che cuoce in pentola, il profumo di casa.
«Perché non vai a riposarti un po’? La tua camera è intatta, l’ho tenuta sempre pronta per il tuo ritorno.»
«Grazie mamma. – dico sorridendole – Ma mi riposerò più tardi, adesso vorrei andare da qualcun altro.»
Ho bisogno di cancellare del tutto la nostalgia e andare da colei che avrebbe colmato ogni vuoto con uno sguardo.
Vedo mia madre, china sui fornelli, irrigidirsi e lasciar cadere il mestolo con un colpo secco.
Si volta e mi osserva. Nel suo sguardo noto della tensione.
«Non è il caso che tu vada da lei.»
Cosa? La confusione si impossessa del mio volto. «Che vorresti dire?» dico scrutandola.
«Dico che le cose non sono più come le hai lasciate. L’hai più sentita durante questo anno?»
«No, ma erano i nostri accordi. – ribatto secco – Sarebbe stato più facile per lei starmi lontano, meno doloroso.»
Vedo mia madre scuotere la testa, è in difficoltà, lei non sa cosa dire così parlo io.
«Ha.. ha un altro?» dico con la voce che si spezza. Istintivamente chiudo gli occhi, serrando i pugni.
«No, almeno non credo»
Mi rilasso, anche se non del tutto. «Allora cosa?»
Apro gli occhi e la vedo annaspare in cerca delle parole adatte.
«Lei è.. cambiata.»
«Di cosa stai parlando?»
«Non è più la ragazza che conoscevamo noi.»
Sento il cuore perdere un battito. Afferro una sedia in cucina e mi ci siedo, poggiando i gomiti sui ginocchi mentre cerco di far chiarezza nella mia testa.
Mia madre resta immobile, chiaramente preoccupata.
«Spiegati» la imploro.
«Ecco.. – sospira e, finalmente, si decide a darmi qualche spiegazione – dopo la tua partenza non l’ho sentita per un bel po’, ho pensato avesse trovato un appartamento e fosse impegnata nel trasloco. Aveva detto che voleva andarsene di casa, ricordi?»
Annuisco debolmente, senza alzare lo sguardo, impaurito da come poteva continuare quel discorso.
Mia madre riprende a parlare, cauta.
«E invece sono venuta a sapere che è rimasta dai suoi e che era felice con la sua famiglia»
A queste parole alzo la testa di scatto. «Lei odia i suoi genitori e sua sorella, odia la sua intera famiglia, non può essere vero, ti sbagli.»
«Vorrei tanto sbagliarmi, tesoro mio» Si avvicina lentamente e posa la sua mano sulla mia spalla, stringendo forte. «Ho provato ad andare a trovarla un paio di volte, – continua – ma  non mi hanno lasciata entrare. Lasciala stare, non farti più male di così». Pronuncia le ultime parole in un debole soffio, nella speranza materna di vedere il proprio figlio soffrire il meno possibile.
NO. Io non posso lasciare stare. E non voglio.
Mi alzo di scatto ed esco di casa. Sento mia madre richiamarmi, ma sa benissimo anche lei che non posso restare fermo mentre mi sfilano dalle mani la persona più importante della mia vita.
Recupero il mio amato skateboard dal garage e parto, alla velocità massima che il mio mezzo di trasporto mi offre.
Per tutto il tragitto continuo a pensare all’assurdità del racconto di mia madre. Anche se fosse veramente rimasta dai suoi non può essere felice. Conoscendola – e nessuno la conosce meglio di me – si sentirà in trappola, chissà con quale ricatto l’hanno costretta a rimanere. Non può essere diversamente.
Inizio ad ideare una decina di possibili piani d’azione per fuggire insieme.
Non lascerò  che quei mostri dei suoi genitori ci separino. Avevano provato a farlo per un intero anno, quando eravamo al college, senza mai riuscirci. Forse la mia partenza era stato un punto a loro favore, forse lei non era riuscita a trovare la forza di affrontarli da sola, ma ora che sono tornato l’aiuterò, a qualsiasi costo.
Mi accorgo di essere quasi arrivato al suo quartiere.
Per un attimo accantono il problema e inizio ad assaporare il momento in cui l’avrei avuta finalmente di fronte a me. Finalmente stavo per stringerla nuovamente: l’avrei stretta al mio petto, senza più lasciarla andare, accarezzandole i suoi capelli castani e, fissando i miei occhi oceano nei suoi cioccolato, le avrei sussurrato quanto l’amassi: la mia piccola Amberlee.






Eccomi di nuovo qui.
Questo capitolo è stato duro da scrivere,
devo ammetterlo, soprattutto
perchè scritto dal punto di vista maschile.
Mi rendo conto anche che questi primi capitoli
possono essere un po' noiosi e difficili, ma siamo solo
all'inizio e la storia si sta pian piano delineando.
Grazie a chi ha letto e recensito il primo capitolo,
spero di sapere i vostri pareri anche su questo capitolo.
A presto, Arianna.

  
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