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Autore: Some kind of sociopath    16/07/2014    2 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Take your time coming home,
Hear the wheels as they roll.
Let your lungs fill up with smoke,
Forgive everyone. […]
I’m just a boy inside a voice,
And if it’s true, if it’s true, if it’s true,
Then what the fuck have I been doing the last six years?
How did I end up here?
– Fun., Take Your Time (Coming Home).
 
 Oh, sì che lo era. Lo era eccome.
– Dio, no! – esclamai con un sospiro lamentoso balzando giù dalla carrozza. – Tutto, ma non questo! Per l’amor di Dio! – Credetemi, almeno voi: in tutta sincerità avrei voluto soltanto risalire, sbattere forte lo sportello e andarmene da lì. Boston, la grande Boston, probabilmente ha più taverne, bordelli e locande che abitazioni vere e proprie. Tra tutte, tutte quelle in cui potevamo alloggiare, gli Assassini avevano scelto quella giusta.
La peggiore. – Anche per me è un piacere, Kenway. – Sentire di nuovo l’insopportabile accento francese di Stephane Chapheau mi fece correre un brivido lungo la schiena. Quanto tempo era passato, eh? Sembrava sempre troppo poco.
Mi bastò lanciare un’occhiata indagatrice a Thomas per capire che entrambi ci aspettavamo di rivedere la porta di massiccio legno verde e la ciondolante insegna familiare del Green Dragon. Illusi. Era stato il nostro covo e rifugio, un seno materno in cui potersi cullare dopo faticose giornate di ricerca, lavoro e caccia. Nonostante io preferissi mille volte quello di Tiio. Thomas si umettò le labbra e abbassò la voce fin quasi a farla diventare un sussurro. – Dimmi che quello non è chi credo sia, capo – mormorò in tono vagamente minaccioso. Sollevai le spalle. Non avevo certo bisogno di scusarmi con lui, io.
Scrutai l’edificio in cui sorgeva la taverna con una smorfia di scherno. Il solito, vecchio palazzo fatiscente, ricoperto in parte dalle muffe e con l’intonaco che cadeva a pezzi grossi come carte giù dalle pareti. L’insegna sopra la porta, cui prima non avevo mai fatto caso, mi fece sorridere. – French – lessi guardando Stephane negli occhi. Grazie a Dio non indossava il completo degli Assassini, altrimenti sarebbe proprio sembrato uno stupido. – William deve averci pensato su parecchio. Dio, originale.
Stephane lanciò un sospiro e s’avvicinò a me, poggiando una mano sul mio braccio. Pareva quasi stesse rivedendo un vecchio amico, o meglio, trascinando un povero idiota su per i gradini del manicomio. Mi lusingava, davvero. – William è morto.
Strabuzzai gli occhi. – Ah. – Non trovai nulla di più intelligente da dire. – Mi… dispiace? – Sentii gli occhi di Chapheau trapassarmi come lame, quindi sollevai di nuovo le spalle, sperando che capisse. Non avevo nessuna voglia di fingermi dispiaciuto per un uomo che a malapena conoscevo. Ero deluso dal comportamento infantile degli Assassini, mi sentivo come tradito un’altra volta. Dovevamo lavorare insieme, invece finivamo sempre per combinare casini. Anche quando le intenzioni erano le migliori. – Potremmo uscire, di tanto in tanto? – chiesi solo per spezzare quel silenzio imbarazzato. Si prospettava un altro bel periodo di attesa. Evviva.
Stephane spalancò la porta, invitandoci a entrare. L’odore intenso della birra mi travolse appena misi piede lì dentro: era come se il bancone, i tavoli e le sedie ne fossero completamente impregnati. Guardai Hickey di sottecchi. Aveva le narici allargate come un cane da caccia e la mano istintivamente corsa al borsellino vuoto. Achille non ci aveva dato un solo penny – ci avrei scommesso – e per quanto riguardava i miei soldi, be’, non li avrei mai spesi per Tom. Non per la schifosissima birra francese di Stephane. – Joe e Chapman resteranno di guardia alla vostra stanza tutto il giorno, in qualsiasi momento – spiegò il francese salendo le scale scricchiolanti. La taverna era buia e intima, ma così piccola da farmi sentire soffocato. Oltretutto era vuota; il sole che filtrava attraverso le finestre era ancora luminoso e proiettava le lunghe ombre di sedie e tavoli sul parquet consumato. Dovevano essere le cinque e mezza, forse un po’ più tardi. Nessuna taverna poteva essere vuota a quell’ora, ci posso giurare. – Se volete uscire, loro vi seguiranno. Non provate a fare qualche casino. – Il piano superiore era una semplice balconata che dava sulle diverse stanze, due per lato. Nessun quadro alle pareti, le porte delle altre stanze aperte e sbatacchianti per gli spifferi. Thomas mi guardò interrogativo. – Eccoci. – Stephane batté la mano su una porta aperta e mi rivolse un sorrisetto beffardo. – Buona permanenza. – E ci lasciò lì.
Hickey infilò il muso nella cornice della porta, guardandosi intorno. Un cubicolo completamente occupato da due letti e un misero tavolino. Lo spazio tra una struttura metallica arrugginita e l’altra era di appena mezzo metro. – A Bridewell c’erano celle migliori – sbraitò sputando sulle assi del pavimento. – Dio! Che schifo. – Stephane ci guardò con tristezza scendendo le scale, quindi Thomas gli fece un gestaccio. – ‘Fanculo! – esclamò stravaccandosi su uno dei due letti. – Hai visto, capo? Ci trattano come appestati. Non possiamo fare un passo senza che questi due rottinculo ci perseguitino – sbottò, incurante della porta aperta. – Che cosa facciamo? – chiese, e sembrava fosse sull’orlo del pianto. Aveva ragione lui, ma non potevo farci niente.
Sospirai lentamente, guardandolo senza compassione né pietà, solo semplice impotenza. Non avevo risposte per lui, e non ne avevo nemmeno per me stesso. Scossi il capo e feci schioccare la lingua. – Chapman – chiamai muovendo un passo verso la balconata – sbaglio o gli affari non sembrano andare poi così bene, da queste parti?
L’enorme Assassino nero – forse più grosso di Connor – mi si parò davanti con le braccia incrociate e una smorfia contrariata in volto, tutto intento a gettare occhiate nervose giù per le scale e al suo collega. Che avessero paura di Stephane? Mi sembrava un po’ fuori luogo. – Questo posto è fallito, Kenway – sibilò a voce così bassa che quasi non lo sentii. – Le giubbe rosse hanno costretto Stephane a chiudere. Sanno qualcosa. Hanno dato fuoco a casa sua e lo hanno picchiato più volte. Si è ridotto alla miseria, quindi ora fa questi lavoretti per gli Assassini, cercando di tirarsene fuori.
Aggrottai la fronte. – Stephane è un Assassino.
– Certo che lo è, buffone – brontolò Joseph nella tipica posa da guardia, gambe appena divaricate e mani unite all’altezza del bacino. – Hai visto quanti anni ha? Prova tu a difenderti da mezza dozzina di spalle sanguinanti armate fino ai denti e a uscirne vivo. – Non scrollai le spalle solo perché l’idea di uno dei giganteschi pugni di Chapman stampato sui denti non mi attirava poi chissà quanto, ma io avevo affrontato di peggio. Molto di peggio. – Le minacce sono diventate sempre più frequenti, finché non ha deciso di averne abbastanza. La causa gli interessa, certo, ma niente ripercussioni personali. Sapevano che questo posto era ritrovo per eccellenza di chiunque volesse andare contro l’Esercito Britannico – Assassini, Figli della Libertà, eccetera – quindi doveva chiudere. – Sospirò. Non l’avevo mai sentito parlare così tanto e con un tale tono compassionevole. – Il problema è che non ha più un posto dove andare, quindi questa è casa sua.
Annuii con lentezza. Una situazione difficile, la sua. – Perché non gli avete dato una mano? – chiesi, spinto dalla curiosità. – I paladini della giustizia che non aiutano un compagno? – Ridacchiai placido, gettando appena la testa indietro.
Chapman strizzò i grandi occhi neri, due fonti di disprezzo. – Lo paghiamo.
– Sai che intendo – brontolai, il sorriso ancora stampato in faccia.
– Sì – fece London a testa bassa. Imbarazzo? Timore? Semplice stanchezza per il viaggio? – Non abbiamo voluto inimicarci ulteriormente i soldati. Sai quanti manifesti abbiamo dovuto strappare in giro per New York, quanti funzionari abbiamo ammazzato e quanti strilloni sono stati corrotti per la vostra bella scenetta a Bridewell? – La sua mascella s’irrigidì, come se quella storia lo avesse ferito.
Gli restituii lo sguardo più duro che mi riuscì. – L’ho fatto anche per Connor. Era lui quello che rischiava di finire all’altro mondo, non io. Né tantomeno Thomas. – Azzardai un passo verso Joseph, trattenendomi dal far scattare la polsiera. – Quindi tieni per te le tue minacce, Assassino. Non agiamo in modo moralmente corretto, ovviamente, ma nessuno di noi lo fa. – Nemmeno tu. – Cerchiamo solo di servire la causa al meglio, per quanto possibile. Giusto?
Gli occhi gelidi e ghiacciati di Joseph London s’infilarono nei miei come scaglie di ghiaccio. – Giusto, Kenway.
– Mi fa piacere. – Rientrai lentamente nella piccola stanza che gli Assassini ci avevano fornito e chiusi la porta, bestemmiando tra me. Thomas, dal suo letto, ridacchiò stancamente e si passò le mani in faccia.
– Immagino che stasera non si esca, giusto, capo? – Il suo tono lasciava benissimo intendere che ne aveva bisogno. Lo sapevo. Anche io avrei preferito passare una nottata all’aria aperta, ma la sorte non era dalla nostra parte.
– Hai proprio ragione – sussurrai, schiacciandomi contro la porta. Con l’orecchio poggiato al legno riuscivo a sentire i lenti respiri di entrambi gli Assassini, lo scricchiolio delle assi a segnalare lo spostamento del loro peso da un piede all’altro. Erano calmi, rilassati e controllati. – Dobbiamo trovare un modo di uscire di qui.
Thomas Hickey mi guardò, sgomento, poi scoppiò in una fragorosa, calda e rumorosa risata. Qualcosa che, certamente, avrebbero udito anche due sordi. Persino se si fossero trovati oltre la porta. – Oh, Dio, parli sul serio? – Allargò le braccia, gli occhi lucidi di lacrime per le risa. – Guarda questo posto, capo. Guarda questo maledetto posto.
Mi passai le mani sulla testa osservando quell’orribile stanzetta. Era come se avessimo firmato la nostra stessa condanna a morte. Ci eravamo consegnati nelle mani del nemico come dei rei confessi, e se Thomas aveva avuto per un solo, misero istante la possibilità di dimenticare i Templari e avere una nuova vita – basata sul denaro contraffatto ma non sull’omicidio, oh, per piacere, non più, che razza di idiota – io gliel’avevo impedito portandolo con me. Strizzai gli occhi e il mio sguardo corse sulle pareti sudice che un tempo dovevano essere di un colore almeno simile al beige, invece avevano assunto una sfumatura marrone, gli spigoli decorati magistralmente dalla muffa, le ragnatele attraversavano la travatura del soffitto come delicate tende di pizzo. Quel posto, se mai avesse avuto uno splendore, l’aveva perduto completamente. Era una topaia. Oltretutto non c’era nessuna finestra sull’esterno, tolto un microscopico lucernario dal quale passava un filo d’aria. L’unico modo per fuggire era liberarsi degli Assassini, scendere e uscire dalla porta principale. Infattibile, se non volevamo dare nell’occhio.
Abbassai lo sguardo e m’infilai le mani in tasca, improvvisamente abbattuto. Ogni possibilità di uscire da quella situazione era sfumata. Sfumavano sempre, ormai ci ero abituato. Mai che qualcosa andasse bene. – Non c’è modo di andarsene – dissi inutilmente. Sentirlo m’abbatté ancor di più. Thomas accompagnò questa mia affermazione con una risatina stridula, da nevrotico figlio di puttana qual era. – Siamo bloccati.
Mi strizzò l’occhio, calandosi il tricorno sul viso ed esponendo solo quel suo irritante ghigno. – Già, capo. Bloccati – cantilenò, come se non gli importasse. – Non possiamo uscire senza portarceli dietro. Non sappiamo niente del vecchio Ben. Siamo fottuti. – Scoppiò a ridere anche se non era una battuta. Rideva per non piangere, o forse era solo l’astinenza da alcool a dargli alla testa.
Sedetti sul mio letto con aria sconsolata, menando un pugno contro il muro sopra la testiera. – Non ho intenzione di aspettare qui con le mani in mano mentre pensano a cosa fare dei miei uomini – ringhiai stringendomi le nocche nell’altra mano. Thomas ridacchiò ancora, estraendo la pipa e il tabacco prima di lanciarmi un’occhiata in tralice.
– Allora che vuoi fare? – Non voleva saperlo davvero. Sapeva benissimo che non potevamo agire in alcun modo, lo sapevo anche io. Però lo divertiva vedermi in quello stato, forse. 
Sbuffai, strofinando le dita sul sopracciglio. – Voglio informazioni, Tom – sibilai nervosamente. Il mio unico informatore era a New York. Dov’era Benjamin? Che cosa voleva? Non sapevamo nemmeno da dove cominciare. Troppe cose da sapere, troppe poche già in  nostro possesso. Le indagini del genere non arrivano da nessuna parte.
Estrasse un fiammifero e lo affondò nel focolaio della pipa, sbuffando volute che ristagnavano nella stanza come fantasmi, per poi scivolare oltre il lucernario. – Che cosa abbiamo?
– Niente – ringhiai dando un calcio alla struttura metallica del letto su cui stava comodamente spaparanzato. – Un maledetto cazzo di niente.
– Non essere così pessimista, capo – esclamò continuando a ridere. – Ti dico che qualcosa lo sappiamo. Sappiamo sempre qualcosa, giusto? Tutto è utile.
Emisi un sonoro sospiro e mi piegai verso di lui. – Che intendi dire?
Mi guardò sollevando le sopracciglia e l’angolo della bocca, con aria cospiratoria. Aspirò un’altra boccata e si tirò a sedere, raddrizzando la schiena mentre soffiava via il fumo dal naso, poi si schiarì la voce e mi fissò dritto negli occhi con quel ghigno divertito. – God save great George our King, long live our noble King, God save the King! Send him victorious, happy and… – Thomas non riuscì nemmeno ad arrivare alla fine della prima strofa senza una risatina isterica che gli impedì di proseguire. Forse il Tom ragionevole che non voleva ammazzare nessuno era un alter ego, un pazzo, e il vero Hickey era quello che mi stava davanti. – Avanti, capo! Ci tieni alla patria o no? – Si mise la mano sul cuore e m’invitò con un cenno a proseguire l’inno. Ma neanche morto. – Che razza di soldato sei? Traditore – biascicò ridacchiando. Non mi pareva che avesse bevuto, a essere onesto. – Send him victorious, happy and glorious, long to rign over us, God save the King! – Terminò battendo addirittura il tacco sinistro a terra, come facevamo nell’esercito.
…Come facevamo nell’esercito.
Dio, era un dannato rito che già dal quarantasei tantissimi colonnelli avevano deciso di adottare. Erano venuti a conoscenza di quella stupida canzone e la facevano cantare ai battaglioni, sull’attenti, uniti con una mano sul petto davanti alla bandiera del Regno di Gran Bretagna. A Edward Braddock, però, come al solito, non bastava. Magari si fosse accontentato di farci cantare. Era un tormento. Quando non c’era niente di meglio da fare che marciare per tutta la repubblica olandese, costeggiando i nostri avamposti nei periodi pacifici e percorrendo i fangosi sentieri fino al fronte della prossima battaglia, il Bulldog amava sentire i suoi uccellini cinguettare in allegria. Con uno zaino da venti chili, o forse più, sulle spalle e il terreno paludoso che sembrava risucchiarti fino alle viscere della terra, magari dopo aver mangiato solo un piatto – piatto, Gesù, che esagerazione – di merdoso stufato al mattino con la prospettiva di miglia e miglia di marcia. Lui sedeva in sella al proprio cavallo, davanti a tutti, e canticchiava come un lirico di professione. I suoi ufficiali percorrevano la colonna con grandi ghigni sul volto e non ci pensavano due volte a spingere nella fanghiglia con il calcio del fucile chi non avesse dimostrato abbastanza impegno. Una delle reclute, forse poco più di diciotto anni, era stato ammazzato davanti ai miei occhi perché non conosceva l’inno. Non giustificherò mai quel gesto. Trapassato da una baionetta come mia sorella. Braddock aveva sorriso, e il corpo del poveraccio era rimasto appeso a un albero in una foresta olandese, completamente nudo e con la scritta traditore della Patria sul petto, rossa di sangue.
Dio salvi il Re, allora, e tutta la fottuta grandiosità e gloria del suo esercito.
Sospirai, scrollando il capo per cancellare quelle immagini. – Non ho bei ricordi di quella canzone, Tom.
Lui sbuffò scocciato, come se fossi un bambino troppo stupido per capire ciò a cui voleva arrivare. – L’Esercito Britannico, capo! – esclamò sventolando le mani davanti alla mia faccia. – Se il buon vecchio Ben vuole salvare il Re e tutti i suoi uomini, da qualche parte dovrà pur cominciare, no?
Osservai di sbieco il suo sorriso. – Pensi che i soldati britannici ci aiuterebbero?
Svuotò a terra la pipa e spinse la cenere sotto il letto con lo stivale. – E perché no? – rispose ghignando. – Dopotutto – le sue labbra si contrassero in una smorfia viscida e scaltra, da mettere i brividi, – siamo o non siamo gli uomini che hanno cercato di uccidere George Washington?
 
Bisogna dare atto a Thomas di una cosa: è intelligente. Era stato in grado di trovare la speranza quando persino io l’avevo persa, quando chiunque altro avrebbe sollevato le mani sopra la testa e si sarebbe arreso, lasciando fare agli Assassini. Lui aveva trovato una soluzione, o qualcosa che vi ci s’avvicinava. – Dobbiamo uscire di qui, prima di tutto – dissi ravviandomi i capelli. – Non possiamo portarceli dietro, Tom.
Spalancò la bocca e si grattò la mascella. L’aria imbambolata di chi non aveva calcolato questo dettaglio. – Cristo, è vero – brontolò lamentoso. – Non li possiamo ammazzare.
Abbottonai la redingote con mezzo sorriso. – Un tempo l’idea ti sarebbe piaciuta, ma devo darti ragione, stavolta. Non possiamo. – Mi morsi le labbra aspettando che un altro colpo di genio lo travolgesse, ma i suoi occhi erano spenti e opachi. Non dovevo aspettarmi più di un’idea intelligente al giorno, da Tom. – Se provassimo a parlargli?
– Sono Assassini – disse storcendo la bocca. – Non lo so.
Sbuffai. – L’unica cosa che vogliamo è infilarci in un forte britannico e chiedere notizie al comandante. Chiariamo subito che siamo amici di Ben e loro ci danno ciò che vogliamo. – Il succo del suo rozzo piano parve rinvigorirlo. Era decisamente fiero del proprio operato al riguardo. – Sarebbe utile agli Assassini, poiché loro non possono avvicinarsi, e noi potremmo trovare Ben.
– Faremmo un favore a tutti. – Aggrottò la fronte. – È un punto a nostro favore. Ma se non funziona?
Sorrisi. – Non essere così pessimista, Tom – gli feci il verso. – Ci sono sempre le maniere forti. Oppure li spingi al suicidio cantando God save our lord the King. Come preferisci.
Scrollò il capo ridendo. – Stronzo – sussurrò prima di seguirmi verso la porta. Se volevamo contrattare, dovevamo agire in fretta. Nel caso in cui gli inglesi avessero già liberato Church, che cosa avremmo fatto? Non volevo saperlo.
Feci per girare il pomello, ma quello neanche si mosse. Sollevai gli occhi al soffitto e mollai un calcio allo stipite. – Che razza di scherzo è questo, London? – ringhiai con la guancia schiacciata contro il legno. – London? Mi hai sentito? – Thomas, alle mie spalle, espirò e lanciò via gli stivali con un calcio. – Abbiamo anche il coprifuoco? Sant’Iddio!
– Sì, Kenway. – Mi rispose Chapman, in tono decisamente pacifico. Certamente non stava dormendo. – London è sotto. E il coprifuoco è a nostra discrezione. Buona notte.
– Fottiti!
Colpii di nuovo il legno con tanta forza da farmi male, quindi imitai Thomas e buttai la redingote ai piedi del letto, insieme con stivali e cappello. – Stasera si va a letto, a quanto pare.
Si era già sdraiato, la camicia gettata a terra in una palla di tessuto e la mano destra nei calzoni. – Già. Sarà per un’altra volta. – Si voltò a guardarmi con noncuranza, soffermandosi sulla smorfia di disprezzo che avevo in faccia. Sorrise. – Ti unisci a me?
Sollevai le mani e mi tolsi la camicia, lasciandolo ai suoi trastulli.
Non era ciò di cui avevo bisogno per sfogarmi. Bastava che concentrassi il mio odio su qualcosa, qualsiasi cosa. Sferrai un pugno al muro, rischiando di spaccarmi le nocche, e m’infilai a letto mentre le molle del letto di Thomas continuavano a cigolare. L’ideale per una sana dormita.
 
– Ho un piano, capo.
Thomas Hickey era fatto così, dovete saperlo. Si comportava come un completo imbecille dedito solamente alla polemica, all’alcool e alle puttane, ma dietro tutta quella nebbia le rotelle del suo cervello lavoravano a pieno regime e, di tanto in tanto, producevano qualcosa d’intelligente. Se non fosse che Tom è nato con lo spirito del mercante e ti fa dannare l’anima per ottenere qualunque cosa, specie se non ti aspetteresti niente del genere da lui. Quindi, quando dichiarava di avere un idea non apriva bocca sui suoi reali propositi. Ti accorgevi di essere parte del suo brillante piano solo quando vi eri dentro fino al collo e la tua vita era completamente nelle mani di Tom.
Non era la fine che avevo intenzione di fare. Non quando mi ero già giocato tutto ciò che avevo. – Stai dicendo che hai alzato il culo dalla branda e sei riuscito a ottenere un… permesso per uscire? – chiesi abbottonandomi la camicia e calzando gli stivali in tutta fretta. Un’altra caratteristica di Thomas era quella di svegliare bruscamente. Mi aveva quasi sfondato un timpano, quella mattina.
Si appoggiò dolcemente contro lo stipite e prese a giocare con una catenina priva di orologio. Chissà per cosa – o chi – lo aveva dato via. – Abbiamo fatto due chiacchiere mentre mi rasavo – disse, intenzionato a rimanere sul vago. Mi era bastato gettare le gambe giù dal letto e vedere il rasoio buttato sul pavimento della camera, appena sporco di sangue, per capire che diavolo aveva combinato.
– Già – bofonchiai mentre scattavo in piedi. – Avrebbero potuto ammazzarti, Tom.
– Non l’hanno fatto. Sanno quello che rischiano. Sorvegliano dei criminali, porca miseria! – Si puntò un dito sul petto, come orgoglioso di quel titolo.
Gli scoccai un’occhiataccia. – Criminali – stabilii annuendo. – Come darti torto? – aggiunsi a voce bassa. Assassini, uomini che impiccavano bambini, congiurati e bastardi di vario genere. Criminali, sì. Sulle nostre teste pendevano taglie e il comandante dell’Esercito Continentale avrebbe smosso mari e monti per vederci dondolare dalla forca, se non ci fossero stati una guerra in atto e gli Assassini di mezzo. – Quindi possiamo uscire liberamente? Non l’hai ammazzato, vero?
Avevo visto London uscire in tutta fretta dalla taverna trascinando Chapman sanguinante per un braccio, alla ricerca di un medico. – Figurati. Era un graffietto. – Si passò le mani sulla benda, un po’ sudicia lungo i bordi, che copriva la ferita sul collo. – Me ne intendo, di solito. Consideralo un riscatto, capo. E muoviti.
– Hai qualcosa da fare, per caso? Una festa? – Scossi il capo, calzando il tricorno. – Per carità divina, Hickey, a che diavolo stai pensando?
Sollevò gli occhi al soffitto, le mani pesantemente calate in tasca. – Penso tu possa immaginarlo. Ora andiamo.
– Perché tanta fretta?
– Perché se ci cacceranno dovremmo sguainare le spade, e preferisco ammazzare prima dell’ora di pranzo. – Deglutì rumorosamente e si grattò le guance rasate di fresco. – Trovo che non faccia bene all’appetito. Per niente.
Feci spallucce, trovandomi necessariamente d’accordo con lui. – Non avevi messo la parola fine alla tua lista degli omicidi?
Guardò l’aria danzare nella luce gettata dal piccolo lucernario e diede una grattata alla propria nuca con un gran sospiro. – Ti spiace evitare di parlarne? Dobbiamo muoverci. – Abbassò gli occhi e si comportò come se non avessi mai posto quella domanda, spostando il peso da un piede all’altro. Era inquieto come un agnello che si getta nella tana del lupo. Eppure non mi sembrava un piano tanto rischioso, non per lui, almeno. Avevano smesso di cercarci, a Boston. Di che cosa aveva paura?
– Thomas…
– Andiamo, capo – grugnì spalancando la porta. – Mi pare che tu sia pronto.
Decisi di non porgli altre domande. Non che mi fidassi di lui, non del tutto, ma pareva davvero troppo turbato. Aveva forse qualche asso nella manica? Mi avrebbe spinto in un vicolo per sbattere la mia testa contro l’acciottolato fino a spaccarla? Avrei combattuto contro di lui, per ucciderlo, magari? O mi sarei arreso, come mi ordinava una parte di me? Ero stritolato tra quei pensieri e l’ansia per il piano che Thomas evidentemente aveva, ma di cui non voleva parlare. E questo mi teneva parecchio sulle spine.
Scese le scale, l’unico suono che occupava il piano inferiore era il gorgoglio del liquore buttato giù da Stephane, accasciato su una sedia a dondolo come un moribondo, il solo movimento quello del suo pomo d’Adamo. Era un’immagine di miseria. Stravaccato in quel modo, lui, che fino a pochi anni prima aveva visto nella causa degli Assassini la propria via di fuga dai soprusi delle giubbe rosse, ora si trovava abbandonato a se stesso mentre il sole, impietoso, lo accecava e lo illuminava come una vecchia reliquia.
Mi mordicchiai le labbra con un briciolo di pena per lui. Tom strinse il mio braccio, invece, e mi trascinò oltre la soglia a testa bassa, serio, teso come non l’avevo mai visto. Sembrava dispiaciuto per Stephane almeno quanto me, ma sapeva che certe volte le cose non andavano bene e ne prendeva atto. Era ciò che avrei dovuto fare anche io, lo so e lo sapevo, ma in quel momento provavo solo una grandissima pietà. Avevo sempre saputo che gli Assassini avevano torto e il loro fallimento era inevitabile, ma vedere l’effetto della sconfitta su quell’uomo mi metteva tristezza. Fui sollevato dal lasciarmelo alle spalle quando ci riversammo nella luce quasi accecante del mattino autunnale di Boston, con il vento che sferzava violentemente i visi e s'infilava sotto i vestiti, come a prenderti in giro per quanto ti fossi vestito pesante. Thomas non sembrava in vena di chiacchiere, quel giorno, e prese la strada dirigendosi a sud a grandi passi. Non potei fare altro che seguirlo, scocciato e un po' ansioso. Perché non poteva mettere le carte in tavola e mostrarmele, parlarmi del suo piano? Stupido ragazzino orgoglioso, ecco cos'era.
Boston di prima mattina era un luogo affascinante, lasciatemelo dire. I bambini che scorrazzavano da una parte all'altra mentre le galline, i cani, i gatti e qualche maiale s'infilavano tra le gambe dei passanti, rischiando più volte di far ammazzare qualcuno, e i soldati si passavano i polpastrelli sulle palpebre, esausti in attesa del cambio di turno. Probabilmente erano lì in piedi a sorvegliare il nulla dalla sera precedente.
Le persone, invece, erano più attive che mai, non sembrava nemmeno fossimo in guerra. I ribelli non escono di casa prima dell'ora di pranzo, diceva Reginald, e in fondo aveva ragione. – Tom – lo richiamai con lo sguardo al cielo opaco, irritato dal suo silenzio. – Tom, dove stiamo andando? Voglio una risposta – sibilai facendo scattare la lama celata. Quel tempo orrendo non rendeva giustizia alla sua lucentezza, no. – E la voglio adesso, se possibile.
– Davvero non ti fidi di me? – fece ghignando e prendendo Ann Street, sempre verso sud. Verso nord non c'era niente, tolta la Christ Church, un sacco di casupole e un'infinita distesa di moli che circondava tutta la città. C'era un forte, giù in città, a quanto ricordavo. Fort Hill, una parte del quale era stata presa dai patrioti all’inizio di quell’anno, verso marzo. Per quanto avessero ordinato ai soldati britannici di allontanarsi dalla città, qualcuno era rimasto lì, per spirito di contraddizione e protesta, quasi. A così poca distanza l'uno dall'altro, la parte britannica di Fort Hill e quella americana si guardavano in cagnesco come due bravi giocatori di carte. Credetemi, non ci fossero state tutte quelle case di mezzo, lì si sarebbe disputata una battaglia senza quartiere. Potevo immaginare le palle di cannone spezzare le pietre, le granate da mortaio affondare ripetutamente nel soffitto del gabinetto e spaccare il raffinato mobilio all'interno, le palle incatenate spezzare l'asta con la bandiera britannica – o delle Colonie, relativamente – e spargere schegge ovunque. Sarebbe stata una battaglia a distanza, di quelle tremende per tutti. Non senti il nemico arrivare da dietro con la baionetta sollevata, confondi gli scoppi del tuo cannone con i loro, l'aria diventa piena di fumo. Non è una battaglia, è l'inizio della fine. Il modo in cui la morte si presentava più spesso agli uomini, in tempo di guerra.
Un brivido mi corse lungo la schiena e giurai a me stesso che, almeno per un po', non avrei pensato a quelle cose. Solo per un po'. M'avrebbe fatto bene, suppongo.
Mi voltai non appena Thomas s'inoltrò nel traffico mattutino di King Street da una stradina laterale, quasi un vicoletto. La prigione torreggiava sulle altre case appena più avanti, oltre il municipio. Gran bello spettacolo, e mi fece tornare in mente Bridewell. Chissà come stavano le famiglie di tutti gli uomini che avevo ucciso. Forse a volte Thomas aveva ragione, avevamo fatto fuori troppa gente per troppo tempo, ma se lui avrebbe potuto comunque ingannare il tempo smerciando denaro falso o nel letto con una prostituta, io, una volta messa la parola fine al mio incarico come sicario, sarei rimasto a crogiolarmi nel letto, travolto dal senso di colpa perché l'uomo che mi aveva violentato per poi uccidere mio padre, mia sorella, mia madre e Tiio, anche se indirettamente, era ancora vivo o, se morto, non ero stato io a porre fine alla sua vita.
Non potevo permettere che un uomo che avesse fatto così tanto male, a me come a chissà quanti altri, Charles compreso, avesse una morte dignitosa. L'avrei considerata un'ingiustizia, la peggiore di tutte le beffe.
Non traggo piacere dall'omicidio, solitamente, ma direi che per Birch faccio un'eccezione. Tutti noi abbiamo almeno un'eccezione alla famosa regola del non ammazzare a sproposito. L'omicidio è un peccato, certo, ma come tutti i peccati, Dio!, quanto da soddisfazione. – Ci siamo quasi – disse finalmente Thomas dopo un quarto d'ora di cammino nel mutismo. – Scusa per la camminata e l'effetto sorpresa, capo, ma penso che ora capirai tutto. – Si appoggiò all'angolo di un palazzo a due piani con nonchalance, stretto nella giacca per il freddo e intento a scrutare l'ampio spiazzo che si apriva dietro l'angolo. E ampio spiazzo poteva significare solo tre cose: prigione, forte o piazza per le impiccagioni. Nessuna che mi andasse poi così a genio, a dire la verità. – Fort Hill – disse con un sorriso nostalgico. Sbaglio o aveva gli occhi lucidi? No, forse era solo il vento. E anche fosse, be', che m'importava? – Andiamo.
– No – sibilai afferrandolo per il gomito. – Tu non vai da nessuna parte se prima non mi spieghi che cosa diamine hai intenzione di fare per filo e per segno. Se è una trappola, Tom, considerati un uomo morto. – Non era impressionato dalle mie minacce, mi scrutava solamente, un maestro severo che valuta l'allievo. – Non hai nessuno che pianga per te. Saresti solo uno dei tanti cadaveri sbudellati in mezzo ai vicoli, non più riconoscibile per quanto i topi ti divoreranno. – Gli diedi un buffetto sulla gota con mezzo sorriso, un sorriso perfido, almeno nell'immagine mentale che avevo di me stesso, e i suoi occhi si abbassarono appena. – Niente mosse azzardate, Hickey. Non ho bisogno di un torturatore professionista per sventrarti come un maiale. Bastano un coltello, tanta pazienza e un po' di forza di stomaco. Dico bene?
Poggiò la mano sul mio polso, invitandomi ad abbassarla con un gesto gentile. – Calmati. Ho un'idea. Dobbiamo solo entrare nel forte – disse indicando con un cenno della testa un punto imprecisato a sud-est, – e chiedere di parlare con il generale Cornwallis.
Trasalii. – Cornwallis? – esclamai, inciampando quasi nelle pietre della strada. – Il marchese, dici?
Thomas sollevò il mento con orgoglio. Che tipo. – Lui. Era un mio vecchio superiore già allora, mi conosce e odia Washington come poche altre persone. Chiediamo solo se sa qualcosa di Church, lo ringraziamo e giriamo i tacchi. – Incrociò le braccia sul petto. – Semplice, ma funzionale. Non trovi?
Passai la lingua tra le labbra cercando di ricordare cosa avesse mai fatto Cornwallis in Inghilterra. Non avevo notizie della madrepatria da troppo tempo, e nell’ultimo periodo che avevo passato lontano dalle Americhe avevo pensato poco alla situazione politica britannica. Avevo una sorella da trovare. Due funerali da organizzare.
Sospirai, strofinandomi due dita alla base del naso. Davvero bastava essere ex militari e odiare Washington per avere delle informazioni su Ben? D'altro canto, se non le avevano i britannici chi poteva averle? Volevo sapere che cosa aveva detto, dove lo tenevano e quando lo avrebbero liberato. Traditore di merda. Doveva essere mio. Conoscendo Reginald, non avrebbe certo fatto i salti mortali per tenerlo in vita, ma la sua morte lo avrebbe indispettito, come minimo. Un suo vecchio allievo, uno di quelli che ha persino tentato di uccidere più volte, che decide della vita e della morte di un membro dell'Ordine mentre lui si dedica a un altro tipo di membri. Un po' disonorevole. Abbastanza da irritarlo e risvegliare in lui la voglia di vedermi morto e, nello stesso tempo, la consapevolezza di non potermi uccidere.
Ma potrebbe torturarmi, in effetti. Che incoraggiamento.
Hickey si sottrasse lentamente alla mia presa, si schiarì la voce, forse per spezzare la tensione, e disse: – Non ti preoccupare, d'accordo? Devi solo avere un po' di fiducia in me. Cornwallis è un brav'uomo, sempre meglio di Gage – commentò sputando a terra. – Stammi alle costole, parla quando vieni interpellato e sempre come se Re Giorgio fosse l’unico fine della tua vita, chiaro?
Roteai gli occhi, dandogli un colpetto sulle spalle proprio mentre Fort Hill appariva davanti ai nostri occhi, maestoso ma un po’ decadente. Proprio come il regno di cui faceva parte.  – Non sono stupido, Tom. Vedi di fotterti.
– Non sai quanto mi piacerebbe – disse prima di scoppiare a ridere tra sé. Poi, lentamente, attraversò lo spiazzo, diretto alle grosse doppie porte in legno del forte, rinforzate dai cardini e dalle borchie metalliche. Forse c'era addirittura del ferro tra i due pezzi di legno, utile anche contro gli arieti, ma chi poteva dirlo?
Era il classico forte britannico, un quadrato in pietra chiara, con le quattro torrette angolari, vista diretta sul mare e un paio di giubbe rosse piazzate davanti alle porte. Questi due, però, sembravano decisamente spaventati. Percorsi il confine del forte con lo sguardo, come per abitudine. Non c’era nemmeno un cannone puntato verso sud, verso la parte presa in custodia – per non dire conquistata con la forza – dai patrioti. Avevano sottratto solo la zona che contava, quella con gli armamenti, permettendo ai soldati di Sua Maestà di restare solo nell’unica parte del forte cui nessuno poteva importare, con il gabinetto, i vari uffici, forse un paio di scuderie e un magazzino. Nient’altro.
Non c’era bisogno di mettere a ferro e fuoco la città, brulicante proprio tra le due costruzioni. Re Giorgio, per il momento, a Boston era già bello che sconfitto. Sorrisi appena: non potevo che trarre una certa soddisfazione da quella notizia. Oltretutto sapevo che, una volta messo piede oltre le porte, sarei dovuto essere il perfetto soldato inglese, fedele alla patria, al Re e tutto il resto. Come se il Regno di Gran Bretagna avesse bisogno di qualche leccaculo in più, ne era già colmo.
Thomas si diresse con sicurezza da uno dei soldati che montavano di guardia, salutandolo con complicità mentre ero rimasto indietro a squadrare Fort Hill. Con la gentaglia amica di Tom volevo averci il meno a che fare possibile. Lo vidi indicarmi un paio di volte, annuire, ridacchiare e passargli qualche sterlina. Eravamo stati soldati, davvero non avevamo il diritto effettivo di entrare lì dentro? Bah.
La guardia accettò il denaro guardandosi intorno con sospetto e aprì appena la porta, dopo aver fatto segno di non muoversi. Thomas, tutto contento, tornò da me quasi saltellando. – Il tempo di avvertire Cornwallis e siamo dentro. – Sbuffai. Conoscendo la burocrazia, anche quella inglese, ci sarebbero voluti almeno dieci minuti prima che il generale potesse congedarsi da ciò che stava facendo solo per parlare con noi. Hickey, invece, non parve affatto turbato dalla prospettiva di aspettare. Chinò il capo con tutta tranquillità e tirò fuori la tabacchiera, infilandosi la pipa tra le labbra. – È bello tornare a casa – disse riempiendosi i polmoni di fumo. – Non è vero, capo?
Sospirai tristemente. – Dipende dai punti di vista. – Battei una pacca sulle pietre squadrate del forte, guardando l’intonaco sgretolarsi sotto le mie dita. Gesù santo, pensai deglutendo. Erano – o eravamo, come un buon soldato di Sua Maestà avrebbe dovuto pensare – davvero messi male.
I forti non erano mai stati casa mia, nessuno di quelli in cui avevo messo piede in tanti anni. Possono essere davvero definiti in milioni di modi, ma sono luoghi accoglienti quanto può esserlo un carcere. Buchi puzzolenti in cui si combatte leccando i piedi nella speranza di ottenere qualche giorno di congedo o un po’ d’alcool in più. Qualche ora di sacrosanto sonno accasciato contro una parete, nel migliore dei casi. Cloache coi muri sporchi di sangue, in cui l’unica legge è la gerarchia e si fa prima a salire di propria volontà sul patibolo che a sfidare un superiore. Il vecchio Bulldog si crogiolava nella libertà assicurata dal suo grado come un maiale nella merda, e le uniche persone in grado di chiamare casa un posto simile erano bastardi, sadici assetati di sangue o ricconi con la possibilità di comprarsi un grado che permettesse la vita facile. Non sto nemmeno a specificare la categoria cui Thomas appartenesse. – Ve la spassavate, da queste parti? – chiesi per spezzare il silenzio che si era creato davanti alle porte. Noi no. In quella schifo di repubblica non se la spassava nessuno, a parte quel figlio di puttana, pace all’anima sua.
Si tolse un pezzo di tabacco rimastogli incastrato tra gli incisivi e sputò a terra un grumo denso di saliva marrone. – Giocavamo un sacco a carte – brontolò con noncuranza. – Ogni tanto c’era qualche idiota che decideva di attaccarci e lo mandavano a ‘fanculo con due cannonate. Durante la guerra, quello sì che è stato un brutto periodo. Bloody Creek. Senza dubbio la peggiore battaglia cui abbia mai preso parte. – Svuotò la pipa a terra e schiacciò il mucchietto di cenere con il piede, come se ce ne fosse bisogno. – Dannati indiani. Senza offesa, eh, capo.
– Tranquillo – mormorai a testa bassa. Thomas non faceva sconti a nessuno, e mi piaceva quel lato di lui. – Che dicevi di Bloody Creek?
Sputò nuovamente sul terreno, la mascella serrata in una smorfia rabbiosa. – Eravamo pochi, forse duecento, forse meno. Uno su dieci di noi è crepato per mano loro. – Sospirò, mi guardò in faccia e fece spallucce. – Potevo essere io. Trapassavano uomini con quelle dannate frecce come demoni dall’inferno. Avresti dovuto vederli.
Sorrisi tristemente. Nonostante la rabbia, c’era un non so che di glorioso nel modo in cui parlava di quel periodo. Sembrava che in fondo si fosse divertito, ma fosse davvero troppo anche per uno come lui ammetterlo. Anche davanti a me, il suo Gran Maestro, l’uomo per cui aveva impiccato un bambino e ucciso chissà quante persone. Il che vuol dire tutto. – Ti manca mai? Questa vita, intendo – dissi indicando il forte con un cenno del mento.
– Certe volte – ammise finalmente. Grazie, Tom. – Mi ricorda che, almeno un tempo, una parte di me valeva qualcosa. Ero parte attiva in un organo più grande, lottavamo tutti per qualcosa. Combattere con uno scopo… – abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe. – Sapevo farlo bene, suppongo. Mio padre mi ha messo un fucile in mano appena sono stato alto abbastanza per farlo. Sparare… uccidere. Non ho mai fatto altro, finché non ho scoperto i Templari.
E anche allora, non che le tue attività siano cambiate chissà quanto. – Hai lasciato questa bella vita per noi? – chiesi, appoggiando un piede contro il forte e ridacchiando.
Thomas sospirò. – Non solo. – Fui travolto dalla voglia di tirargli un cazzotto. Aveva assunto un tono fastidiosamente nostalgico. Se c’è qualcosa da non fare con chi ha un passato oggettivamente triste è paragonarvi il vostro. Con tutto il rispetto per Thomas, la sua triste vita da soldato e i chissà quanto terrificanti avvenimenti vissuti in caserma. Idiota. – Avrebbero dovuto uccidermi. Mi hanno tenuto lì dentro, in congedo per qualche anno, ma ciò che ho fatto… è stato quasi un tradimento. – Colpì il terreno polveroso con il lato interno dello stivale, frustrato, poi inspirò lentamente e con aria meditabonda, fissando un punto nel vuoto verso King Street. Ero tentato da chiedergli se volesse parlarne, ma aprì bocca per primo, umettandosi le labbra prima di dire: – E tutto per una stupida vacca di campagna. – Sembra commovente. Racconta, forza. Alzò lo sguardo su di me e feci del mio meglio per non ridere. – Ho ammazzato un soldato semplice, il fidanzato della figlia di Howe, l’altro generale. Si chiamava Sarah, o qualcosa del genere – aggiunse grattandosi. – Una cagna del cazzo. – Già, Tom, ma doveva essere la tua cagna. Non la sua. Giusto? – Un colpo di moschetto, solo uno. Poteva averlo colpito chiunque, non avevano abbastanza prove. Cornwallis... è stato clemente con me. Nonostante mi avesse visto… – Si fermò, mordendosi le labbra e scattando di nuovo con gli occhi da un angolo all’altro dello spiazzo. Che c’è? Non faccio mica la spia. – Mi ha aiutato. Comunque… dire che mi manca credo sia troppo. A te, capo?
Eccolo lì, lo stronzetto che cambiava discorso. Intelligente. Dopo la storiella strappalacrime, ecco l’inghippo. – A me? – Con un risucchio mi feci risalire del catarro in bocca. Sentire Thomas parlare di guerra, battaglie, di Bloody Creek e del fidanzato della sua donna ammazzato, le mie sanguinarie gesta sembravano ragazzate. Brutto idiota. Non aveva idea di cosa significasse massacrare davvero qualcuno. O forse sì, solo che io non me ne rendevo conto. Dopo aver lasciato morire civili per anni, nel corso di una guerra vera, impiccare un bambino non può essere così grave. Avevo sentito parlare di Bloody Creek. Lottare contro un centinaio di indiani… lasciatemelo dire, non era la stessa cosa. Non lo era affatto.
Sputai a terra. – Nemmeno se fossi morto e tumulato sotto St. James’s Palace. – Come potrebbe? Come potrebbe?
Mentre Thomas tornava a guardarmi con uno strano sorrisetto in faccia, il soldato che era sparito pochi minuti prima fece nuovamente capolino dalla porta, aprendola verso di sé con una gran fatica. Sbuffava nuvolette candide di condensa nell’aria nonostante la spessa sciarpa di lana avvolta attorno al viso scarno. – E dammi una mano, Potter! – strepitò rivolto al compagno d’arme, che nemmeno si diede troppa pena di aiutarlo in fretta. Sollevai gli occhi al cielo bianco e abbagliante, e Thomas ridacchiò tra sé, forse contento di rientrare in quella che considerava, in fondo, casa sua.
Qual era davvero casa mia? Me lo chiesi mentre varcavo la soglia del forte. Quella bruciata in piazza della Regina Anna, il vecchio castello arroccato in Francia, la tenuta di Achille, gli alloggi di una volta a Fort George, la tenda divisa con Tiio, il Green Dragon? Una di queste? Oppure nessuna?
Qual era davvero?
Chiusi gli occhi. Mi tornò in mente mio padre, ma non come l’avevo sempre conosciuto. Riapparve con i capelli scompigliati e gli occhi lucidi per l’ebbrezza, mentre cantava tracannando rum e dicendomi che riusciva a vedere tutti i suoi amici lì, seduti con lui in una taverna di Nassau, persino mia madre e Jenny, il tutto con una bella ragazza rossa di capelli che gli riempiva in continuazione il boccale.
Li riaprii, colpito da una sferzata di vento gelido in pieno viso. Inspirai lentamente, lanciandomi un’occhiata intorno. Fort Hill era solo una distesa di terreno gelato, qualche ufficio ammassato in cima ai magazzini, scale e sentieri che occupavano gran parte dello spazio, soldati infreddoliti ovunque. Che casa può mai essere?, pensai guardando Thomas. Sembrava quasi crogiolarsi in quella visione misera, così triste da apparire oscena. Poggiava gli occhi sulle rastrelliere per i moschetti, ora vuote, con il sorriso che si allargava sul suo viso. Scrollai il capo.
L’unico posto, l’unico in tutta la mia vita, in cui mi ero sentito davvero al sicuro, accettato, protetto, come non era mai accaduto prima, era una taverna in cui mi sarei dovuto ubriacare a forza di rum insieme a mio padre. Casa, per me era l’Old Avery del mio sogno.
– Il gabinetto è da quella parte. Cornwallis vi sta aspettando. – La vocetta da pubertà del soldato che aveva aperto la porta mi distolse dai miei pensieri. Si stava asciugando un velo di sudore freddo dalla fronte madida. – Come se fosse mai in attesa si qualcosa. Sono secoli che qui non succede niente. – Ci squadrò entrambi con un sorrisino. – È meglio di quanto pensassi.
Ridacchiai tra me, Nassau definitivamente fuori dai miei pensieri, rimpiazzata da quel relitto triste, abbandonato a se stesso e semivuoto di forte, e allontanai il ragazzino con una leggera spallata. – Preparati. Il meglio deve ancora venire. – Dalla smorfia terrorizzata con cui mi rispose devo dedurre che colse il mio sarcasmo. Un punto a suo favore.
Mi leccai le labbra gelate mentre Thomas mi sorpassava, prendendo un sentiero che saliva ripido verso l’edificio principale del forte. Mi era venuta un’improvvisa voglia di rum.
 
– Generale Cornwallis. – Non avevo mai visto un gabinetto più buio. Le finestre su tre dei quattro lati erano senza vetri, un miracolo architettonico di ragnatele danzava tra le sbarre metalliche, sospinte dolcemente dal vento freddo. Fosse stata per la gelida luce bianca dell’esterno non saremmo nemmeno riusciti a vedere in faccia il generale, ma con il mozzicone di candela acceso e poggiato sulla scrivania la situazione non migliorava chissà quanto. Era la quintessenza della miseria. – Quanto tempo è passato, eh?
– Meno di quanto avrei voluto, sergente.
William Cornwallis scivolò verso di noi da dietro la scrivania con passo leggero, la giubba abbottonata in tutta fretta e il collo quasi inesistente cinto da una sciarpa candida. I distintivi sul suo petto scintillavano debolmente alla luce della candela, ma i vaporosi e scompigliati capelli bianchi gli conferivano comunque un’aria trasandata, Somigliava al collasso di un generale nonostante i suoi occhi brillassero ancora d’orgoglio, quello che probabilmente aveva conservato dalle sue nobili origini britanniche. Nonostante fosse più giovane di me, aveva l’aria di chi non avrebbe mai avuto la forza di sollevare il moschetto. Non un’altra volta.
È il bello dell’essere generali. Ti comporti come se valessi più di quelli che affondano le baionette quando la tua unica preoccupazione è abbassare il braccio per ordinare agli artiglieri di sparare le salve di cannone. – Credetemi, è un onore. – Thomas strinse con un sorrisetto viscido la mano di Cornwallis tra le sue, infilate in un paio di guanti senza punta che sembravano rubati a un mendicante. – Sarà passato qualche mese, dico bene, generale?
– Più di quattro mesi. – Gli occhi grigi di Cornwallis scintillarono, scattando curiosi da Thomas a me. Incrociò il mio sguardo e inclinò la testa, un bambino davanti a una lucciola chiusa in un barattolo di vetro. – Che cosa siete venuti a fare? – Scostò delicatamente Thomas e mi si piazzò di fronte continuando a studiarmi. – Voi e il vostro… ospite?
Incrociai il suo sguardo. Era un marchese, un rimasuglio dell’alta nobiltà inglese in terra straniera. In fin dei conti, scrutandolo, pensai non fosse a un gradino molto più alto del mio, data la situazione in cui si trovava. Gli avevano sottratto il forte, il peggiore di tutti i disonori, e lui si ostinava a occuparlo come un parassita. – Haytham Kenway – dichiarai tendendogli la mano. Vi abbassò subito lo sguardo, sorpreso. Eh, già. Era la sinistra. Niente di personale. I moncherini fanno ribrezzo a tutti. Specie a chi è nato marchese in una bella casa di Londra. Ti capisco, forse. Gli rivolsi un sorrisetto rigido. O forse no. – Ho passato qualche anno nella repubblica olandese con il tenente colonnello Braddock.
– Ah – fece Cornwallis dipingendosi una smorfia disinvolta in faccia e stringendo le quattro dita con le proprie. Mi parve di percepire un fremito di disgusto nella sua stretta. – Il Bulldog, buon’anima. È stato l’orgoglio del nostro esercito, prima di morire. – Si scostò e mi rivolse un’occhiata compassionevole. – Sono cose che capitano anche ai soldati più valorosi.
Sospirai tristemente. Parole sante. Vostra Maestà, c’è un usurpatore nel bel mezzo delle Colonie. Non parlate in modo così diverso, sapete? – Soprattutto a loro, devo dire. – Thomas, oltre le spalle del generale, mi guardò con soddisfazione. I bravi soldati convincono tutti e sono sempre credibili, specie davanti a uomini come Cornwallis. Mi sembrava di aver già capito con chi avevo a che fare: un vecchio arricchito a suon di frasi fatte, convinto che tutti fossero fedeli alla grande Inghilterra e la sua patria fosse una sorta di paradiso terrestre. Un illuso, un povero stupido che avrebbe fatto la stessa fine di Braddock, se non una più crudele. E non per mano mia, di sicuro.
Trovando la mia risposta abbastanza soddisfacente, si voltò per rivolgere la propria attenzione a Thomas. Non sei qui per farti esaminare da quest’uomo, dissi a me stesso. – Signore – esordì Hickey con calma, dandomi la schiena, – devo dire che mi è dispiaciuto molto per Washington. – La tensione era palpabile. Portandomi al fianco di Thomas, vidi gli occhi del generale che lo squadravano con astio mentre il soldato più giovane, rimasto di guardia davanti alla porta, tendeva le mani tozze verso il moschetto. Respirando piano, cercai di ricordare il momento in cui l’avevo considerata una buona idea, ma non riuscii a riportarlo alla mente. Dannazione. – Soprattutto per aver portato via anche un valido elemento come Lee. Disertori – sibilò sollevando la polvere dal pavimento nudo con un calcio.
Il generale, mani giunte dietro la schiena, prese a camminare avanti e indietro per il gabinetto e rivolse al soldato sottoposto un’occhiata austera, come per metterlo in guardia e al tempo stesso invitarlo a mantenere la calma. – Disertori? – ripeté Cornwallis. – Sbaglio o siete entrato nella guardia del corpo di Washington subito dopo? Detto da voi – inclinò di nuovo il capo, sorridendo, – non mi sembra una parola di grande valore.
Thomas roteò gli occhi. – Siete al corrente del motivo per cui l’ho fatto, io come tutti gli altri. Eravamo d’accordo, generale, non penserete certo che lo dimentichi? – Fece un passo verso il proprio superiore, le dita passate nello spazio tra il cinturone della pistola e i calzoni. – Ho solo obbedito agli ordini. Io non sono un disertore, signore.
– Siete un doppiogiochista, un bastardo e un opportunista, il che è peggio, se mi…
– O-oh! – Thomas sferrò una manata alla scrivania, facendo tremolare la fiammella già sul punto di spegnersi. – Facile dirlo adesso, dopo aver saputo del nostro fallimento! Immagino che fino a qualche mese fa avete rivolto i vostri migliori pensieri a me e agli altri poveri disperati mandati a compiere quella maledetta missione impossibile col vecchio Georgie, non ho ragione?
Cornwallis si umettò le labbra, scoccando un’occhiata omicida a Thomas. – Dovreste ringraziarmi. Se non vi avessi raccomandato a Howe per quell’incarico, a quest’ora sareste cibo per vermi.
– Lo sarei stato in qualsiasi modo – replicò Hickey con stizza. – Se sono vivo lo devo solo a quest’uomo – sbraitò indicandomi con un braccio.
Parve accorgersi in ritardo di quanto aveva appena detto e si passò una mano in faccia mentre lo sguardo di Corwallis passava a scandagliare me, quell’assurdo sguardo gelido, calcolatore e apparentemente gentile che mi aveva rivolto poco prima. Deglutii a vuoto. Quelli non erano gli occhi di un riccone illuso, no. C’era una scintilla di malvagia intelligenza in quelle occhiate. – Perdonatemi, come avete detto di chiamarvi?
Grazie della considerazione, generale. Dovetti trattenermi dall’afferrarlo per il collo della giubba e sbatterlo contro il muro scrostato del gabinetto. Ero pur sempre un soldato. – Haytham Kenway – ribadii, lo sguardo fisso davanti a me. – Ho combattuto per il tenente colonnello Edward…
– Haytham Kenway? – Cornwallis m’interruppe, sollevando una mano e voltandosi improvvisamente verso Thomas. I suoi occhi brillarono e sul suo viso si disegnò un sorrisetto furbo. – Quell’Haytham Kenway? – chiese. Vidi Thomas annuire e mi parve un po’ maleducato che a nessuno dei due fosse minimamente passato per la testa di inserirmi nel discorso, ma un soldato britannico è abituato a cose peggiori. Io stesso ero passato attraverso cose di gran lunga peggiori durante i periodi di leva. Il rispetto dei sottoposti non era certo uno dei valori fondanti l’Esercito Britannico.
Il generale Cornwallis scosse il capo, ridacchiando, e parlò senza più guardare nessuno dei due, quel ghigno da sciacallo ancora sulle labbra. La sua espressione parlava più delle sue labbra. Aveva in mente qualcosa. Un’idea stava prendendo forma nella sua testa nonostante non sapesse nemmeno perché eravamo arrivati fin lì. – In tutta franchezza – domandò a entrambi a quel punto, riprendendo a percorrere la stanza in lungo e in largo, – perché siete qui? Che cosa volete?
Thomas arricciò le labbra nella consueta smorfia, cercando di mantenere comunque un’aria composta, più consona a un soldato britannico. Il suo primo accesso di rabbia poteva già aver compromesso gli esiti della nostra ricerca, e l’idea di essere arrivato fin lì per essere fermato dalla sua maledetta boccaccia mi faceva prudere le mani. Lo guardai attentamente. Più che a un sergente, con quella faccia somigliava a un pedofilo. Solo pensare quella parola mi fece venire i brividi e salire il vomito in gola. – Sono tornato in nome dei vecchi tempi, generale. – S’avvicinò a Cornwallis con fare cospiratorio. – Benjamin Church. Pare abbia passato qualche informazione ai nostri, dico bene?
– Tu non sei più dei nostri da tempo, Hickey – replicò il generale, scuro in viso.
– Che importanza ha? – sbottò nuovamente Tom, affrettandosi a coprire lo scatto d’ira con un sorrisetto. – Sono un sostenitore della patria, generale. Lo faccio solo per il nostro Re. Tutto ciò che ho fatto – si mise un mano sul petto e chinò appena il capo, – tutto ciò che ho cercato di fare, è stato per il Re.
Il generale lo guardò storto. Che attore. – E voi? – fece Cornwallis voltandosi verso di me. – Avete servito l’Esercito Britannico da uomo onorevole? – Cominciò a girarmi attorno come una mosca sulla merda.  Non replicai. – In questo caso, è un peccato che vi accompagnate a tali soggetti.
– Ho dato una mano nella guerra dei sette anni – ripetei per la terza volta, un po’ frustrato. M’irritava il fatto che facesse domande senza essere realmente interessato alle risposte, dato che gli avevo già detto un paio di volte chi ero, da dove venivo e sotto chi avevo prestato servizio. Il classico modo di gestire le cose dei potenti. Strinsi i pugni, già serrati l’uno nell’altro. – Solo contro gli olandesi. Non ho mai servito nelle Americhe, ma speravo di aiutare un vecchio amico e il Re, per quanto possibile. – Pancia in dentro e petto in fuori, Kenway. Sissignore, nossignore, agli ordini, signore. – Church è stato un buon compagno, oltre che un assiduo servitore di Sua Maestà. Se possiamo aiutarlo in qualche modo, in qualunque modo… – Il generale m’interruppe un’altra volta, affondando le dita carnose nella mia spalla.
Lanciai un’occhiata in tralice a Thomas. Che gran generale aveva scelto. Complimenti. Persino Braddock sarebbe stato più utile facendo meno storie. – Ragazzo – brontolò fissandomi. – So quello che hai… che hai tentato di fare a Washington. – Adesso si spiegano un sacco di cose. Quell’Haytham Kenway. Già, Cornwallis, sono io. Sorpreso? Si umettò le labbra, sembrava avesse appena nominato un peccato capitale. – E so anche che Lee ha voluto prenderti in custodia, dopo quel macello. – Sputò un grumo di saliva e catarro a terra, un palmo premuto sul ventre. – Leccaculo – sussurrò raschiando.
Annuii tristemente, il capo chino. – Perché mi state dicendo questo, generale? – La sceneggiata dei soldati fedeli, che non si lamentano nemmeno quando il superiore li interrompe circa ogni tre parole, stava riscuotendo un certo successo, ma se Cornwallis sapeva dell’attentato – il mio attentato – sapeva anche di Braddock? Che l’avevo quasi ammazzato per farlo morire come un cane in un ospedale da campo?
Non che volessi saperlo. Cornwallis s’abbandonò a un sospiro lamentoso. – Non possiamo fare niente per Church. Sappiamo che è vivo e che lo è solo perché ai bastardi serve un medico. Ci ha dato una mano e ha rischiato l’impiccagione, per cui stiamo cercando di ricambiarlo. – Improvvisamente mi rivolse un mezzo sorriso gentile, quasi paterno. Perché quello sguardo? Non sono più solo un soldato semplice? Un fastidioso moscerino venuto a chiedere un favore che non vuoi concedermi? Davvero facciofacciamo la differenza solo perché abbiamo quasi ucciso George Washington?
Lo guardai di sbieco. Sembrava decisamente più vecchio di quanto realmente fosse. Mi chiamava ragazzo, sant’Iddio, ma non era solo per il suo grado. Aveva il viso solcato da rughe profonde, i capelli già radi sulla testa. Sparuti ciuffi di peli gli facevano capolino dalle orecchie. Nonostante tutto, Reginald aveva più classe. – Sembrate un bravo ragazzo – proseguì, continuando a parlare come se fossi un orfanello raccattato per strada – e penso che abbiate avuto una buona influenza sul sergente Hickey, dato che non mi ha ancora bestemmiato contro. – Osservai Thomas, comodamente poggiato alla parete. C’è sempre tempo, generale. – Kenway, non posso darvi Church, non ancora. Niente di personale, davvero, ma lui… Nemmeno noi possiamo prevedere che cosa gli succederà se lo libereranno.
Sollevai lo sguardo. – Quando sarà libero… – dissi cautamente in un sussurro. Avevo il cuore in gola. Quell’uomo mi stava servendo Benjamin su un vassoio d’argento. Pensava fossi un bravo ragazzo. Aveva fiducia in me. E in cambio dovevo solo continuare con quella buffonata.
Lasciatemelo dire, era quanto di più vicino al paradiso avessi conosciuto. In quel periodo le mie aspettative erano calate notevolmente. – Ne parleremo allora, giovane – disse il generale. Sembrava quasi una battuta. Mi si avvicinò ancora. – Nel frattempo, ho qualcosa che penso possa farvi comunque piacere. – Di nuovo, si passò la lingua tra le labbra. Una donnicciola che spettegola su un argomento tabù. – Abbiamo preso Charles Lee. È prigioniero nel forte oltre l’Hudson, vicino New York. Tutto vostro. È il minimo che io possa fare, dopo quanto vi ha fatto e visto il servizio offerto all’Esercito Britannico.
Sbattei le palpebre per lo stupore. Charles? Avevano preso Charles? – Mi state chiedendo di ucciderlo, signore? – chiesi con il cuore che batteva prepotente contro le costole.
– No! – esclamò sbigottito. – Oh, no, no-no-no, mai! State scherzando, spero! – Certo. Nessuno ha mai fatto prigionieri per farli ammazzare dal primo attentatore che passa per strada, eh? Furbacchione. – No, lui ci serve vivo. Pensavamo di organizzare uno scambio, a dire il vero. Lui per Church. Non prima di esserci divertiti un po’, ovviamente. Sto solo dicendo che è lì. E che il buon George Washington se lo riprenderà volentieri anche con un solo orecchio o un paio di dita in meno. – Ruotò elegantemente su se stesso, avvicinandosi alla scrivania per scribacchiare velocemente qualcosa su un foglio di pergamena che piegò e sigillò con la stessa efficienza di un garzone di bottega, poi me la porse tra due dita. – È stato un piacere, ragazzo.
Presi la busta sigillata con tanto di ceralacca lucida e la riposi nella tasca della redingote con sospetto. L’intera situazione puzzava di trappola. – Signor Cornwallis – lo chiamai quando mi aveva già voltato le spalle. Mi rivolse nuovamente quel sorriso gentile. – Non avete davvero niente di più su Church?
Affondò la testa nelle spalle, scuotendola appena. – Niente che possa davvero contare qualcosa. Benjamin non ha più fatto giungere sue notizie da quando è stato arrestato. La nostra unica possibilità è lo scambio con Lee, e speriamo vivamente che quei cani accettino. – Si mordicchiò le labbra e fece nuovamente per voltarsi, ma, una volta tanto, fui io a interromperlo.
– Perché lo state facendo? – chiesi. – Il vero motivo, intendo. Solo per Washington?
Ritornò appena sui suoi passi, la mano nuovamente tesa verso di me e un pezzo di carta consunto tra le dita. Il sorriso era diventato una linea tesa appena sollevata agli angoli, colma di rammarico. Di solito questo è il momento in cui scatta la trappola. Davvero vi tradite in questo modo, generale? Oppure sono io che vedo complotti ovunque? Forse dovrei soltanto arrendermi, rifiutarmi di combattere. Forse mi farebbe bene. Si schiarì la voce, l’aria decisamente seria. – Per nessun motivo particolare. Avete cercato di uccidere un traditore e siete interessato a uno degli uomini più devoti alla patria che abbia conosciuto nella mia vita. Siete stato un militare e non credo abbiate mai causato problemi. – Non mi conoscete, allora. Oppure avete una strana definizione di problema. Agitò la mano per dirmi di accettare ciò che teneva in mano. Uccidere quasi il proprio ufficiale superiore è un problema? Non ero nemmeno più in servizio. – Siete un bravo soldato, e Re Giorgio non ne ha molti dalla sua, di recente. I vostri occhi, poi…
Gli strappai quasi il pezzo di carta di mano e annuii violentemente prima che potesse dire qualsiasi cosa. Mi si leggeva dentro così facilmente? Apparivo davvero tanto disperato? E i miei occhi? Che cosa poteva mai vederci quell’uomo?
Era molto, molto meno stupido di quanto mi fosse sembrato. Battei velocemente le palpebre e guardai il foglietto sgualcito con le mani tremanti.
Era un ritratto, il ritratto di un ragazzo con l’uniforme da militare e l’aria fiera, i tratti del viso confusi, usurati dal tempo e dalle volte in cui il generale doveva averli sfiorati con le dita. Non sapevo dire se mi somigliasse, ma capii che io e Cornwallis avevamo avuto la stessa reciproca impressione. – Era un così bravo ragazzo – sussurrò scrollando il capo. – Un onore per la famiglia, la patria e il Re. – Abbassò gli occhi e strinse la mano sull’elsa della spada fino a farsi diventare le nocche bianche. Incredibile, sembrava che per quell’uomo non contasse nient’altro. Mi morsi il labbro, facendo attenzione a non guardarlo negli occhi. Non volevo che stesse peggio. – Washington, quel maledetto figlio di puttana, ha preso il suo reggimento e li ha catturati, fucilati tutti, dal primo all’ultimo. Non ho mai riavuto il corpo. Sua madre non gli ha mai potuto dire addio. – Allungò lentamente le dita e si riprese in ritratto, riponendolo sotto la giubba rossa, contro il petto. – Non chiedete perché lo faccio. Solo i mediocri agiscono per un fine, ricordatevelo. – Mi diede un’altra pacca sulla schiena. – Gli uomini… quelli veri, intendo, quelli che di solito muoiono, agiscono per le persone.
Cornwallis diede le spalle a entrambi, puntando lo sguardo oltre la propria scrivania, contro il muro sudicio del gabinetto. Thomas m’afferrò per la spalla, trascinandomi verso la porta. – Siete stato molto generoso, generale – disse, spingendo il legno cigolante. – Grazie mille.
– Grazie, generale – fu l’unica cosa che riuscii a dire, la lingua secca come un pezzo di legno in bocca. Uscimmo dal forte passando inosservati, quasi come quand’eravamo entrati. Per quanto riguarda Cornwallis, non lo rividi mai più. Ma suppongo di doverlo ringraziare. Non solo mi aveva consegnato Charles, ma aveva fatto di meglio.
Mi aveva dato un altro motivo per odiare Washington. 


Note dell'autrice :3
Okay, okay, tre cosette veloci e mi tolgo dai piedi.
Uno: quando finirò all'inferno Thomas Hickey mi farà un culo grosso come una casa perché l'ho fatto cantare, lol.
Due: la prossima settimana balzo, D: sarò in vacanza, ma potrei anche aggiornare di sabato e poi mercoledì, devo decidere, e.e
Terzo e ultimo: la versione dell'inno britannico nel capitolo è vera, così come esisteva davvero il generale Cornwallis. Mi sono inventata il grado di Haytham e il fatto che Cornwallis fosse un vecchio superiore di Tom, :3.
Dopodiché, be', ancora grazie a chi legge, chi recensisce e chi riesce a sistemare i bug del sito in tempo per farmi pubblicare, ;)
  
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