Le margherite erano ancora bianche; un fatto bizzarro se si
consideravano le altre quattro ciotole colme di un impasto rossastro, molle e
appiccicoso, che era di un solo passaggio in avanti rispetto all'ultimo lavoro
di Sakura.
Lei continuò a staccare petali rossi dalla bella collana di Ino,
ch'era tutta un intreccio abile di gambi robusti, simili a fibre muscolari
ancora troppo giovani per marcire del tempo; erano petali rigonfi di qualcosa
di non visibile all'occhio umano - inutile forzare le pupille o sbattere le
ciglia -, e le dita della piccola Sakura continuavano a saggiare quel tessuto
che tessuto non sarebbe più stato.
Poi, prendendo l'acqua con le mani unite e i lati dei palmi
combacianti - lasciando che i fiori si rinfrescassero un'ultima volta -, iniziò
il suo quinto impasto rosso, perché, com'era solito nelle leggi della scienza
che lei ancora non conosceva, il bianco non sarebbe potuto sopravvivere al
contatto di qualsiasi altro colore: il rosso, poi, uccideva soltanto.
E lei pestava e pestava quei petali grondanti d'acqua, rattrippiti,
piegati su sé stessi una, due, tre volte, strappati da sé stessi in pezzi
sempre più piccoli, in una anti-materia che non sarebbe però scomparsa, dando
vita a qualcos'altro che era mostruoso, terribilmente divertente per una
sciocca bambina.
Sakura però rideva.
E l'impasto si faceva sempre più bianco; e più pestava, più diventava
bianco.
«Sakura!»
La Haruno continuò a ridere, fuori di senno, con gli occhi grandi ad
ammirare il lavoro folle, contro ogni natura. Molto bello.
«...la mia collana! Sakura!»
La voce si trasformò in un gemito, e in due, e in tre.
Non era che un singhiozzo dei polmoni tesi, del corpo scosso e degli
occhi pesanti e bagnati: un'immagine impossibile, e poi non poteva consolarla
visto che era tale.
Ino non piangeva e, se lo faceva, non era di certo così miseramente
brutta.
Sakura continuò a pestare.
Aggiunse molti ingredienti prima di ritenersi soddisfatta del proprio
operato - una melma biancastra, simile a dentifricio sporco, pieno di grumi e
qualcos'altro di indescrivibile -; s'alzò e ignorò le altre quattro ciotole,
allineate come soldatini in fila indiana, senza un orientamento particolare.
Il rosso al loro interno lo fissava come qualcosa che in futuro lei
avrebbe temuto, ma in quel momento non era altro che un miscuglio banale di
fiori banali. Lei, della banalità, non se ne faceva davvero niente.
Corse con il suo vestitino macchiato di rosso, un bel vestitino rosa
con fiocchetti bianchi e una deliziosa decorazione a pois bianchi - ma il
bianco non poteva sporcarsi con sé stesso, figuriamoci con un bianco sporco
poi!, sarebbe stato senz'altro umiliante.
Corse da Sasuke-kun, ovviamente: da chi altri poteva correre? E
Sasuke-kun era lì ad allenarsi come sempre, il personaggio di un film in bianco
e nero con un unico ruolo, un'unica parte, un'unica battuta.
Sakura non aveva il tempo di chiedersi se non fosse mai stanco di
quella parte così sciocca e inutile; d'altro canto, lei stessa non lo era della
sua, perché mai avrebbe dovuto interessarsi degl'altri? Non che Sasuke-kun
facesse parte di quegli "altri" – quell’Uzumaki sì, ad esempio -,
però sarebbe stato contro le ragioni della scienza - e lei, ogni giorno, con
quella sua misera parte, aveva iniziato a credere in essa - non affibbiare i
due nomi e legarli l'uno all'altro.
Il bianco, però, andava contro la scienza.
E Sasuke-kun, per lei, andava contro tutti gli altri, contro la gente,
contro sé stesso; Sasuke-kun, per fortuna, non era rosso.
«...e questo è per te, sì, proprio per te.» Il capo chino andava in
fiamme, le orecchie scottavano, le guance avevano un colorito deliziosamente
maturo, le braccia erano tese in avanti, alla stessa altezza delle orecchie.
Fra le mani, la piccola Sakura teneva una ciotola piena di impasto biancastro,
dall'odore di fiori.
«Vorrei che tu lo mangiassi, Sas'ké-kun, mi farebbe molto piacere...
l'ho fatto per te, Sas'ké-kun, solo per te e per nessun altro.»
Ma Sasuke aveva una sua parte da rispettare; Sasuke aveva le sue
battute da recitare; Sasuke aveva un ruolo da non tradire. Continuò a
conficcare shuriken nel suo obiettivo, con gli occhi concentrati e le gambe in
posizione di attacco.
Sakura lasciò il suo regalo ai piedi dell’Uchiha, dicendosi che,
forse, avrebbe mangiato e ringraziato dopo il suo allenamento. E poi il suo
silenzio non faceva molto male, la rendeva solo molto simile ad Ino, in preda a
quei singhiozzi così violenti.
Che aveva fatto di male, in fondo?
Aveva solo permesso ad Ino di svolgere la sua parte, di piangere e poi
permetterle di vivere lo stesso dolore frivolo e pungente, molto simile ad una
caramella alla menta.
Tutto non era altro che un set cinematografico, solo che non erano che
bambini, e non potevano sapere, non potevano uscire, non potevano vivere.
[ Ma faceva molto, molto, meno male. ]
Sakura continuò a strappare le collane di Ino.
Ino continuò a piangere.
Sasuke continuò ad ignorare le ciotole di Sakura, ben disposte come
soldatini accanto ai suoi piedi in posizione di attacco.
Quando Sakura non guardava, le ciotole cadevano a terra e il loro
contenuto si perdeva fra la sabbia e il terriccio sporco.
Non si sapeva quale fra i due lo fosse di più, un contrasto sul quale
si sarebbe potuto perdere tempo a riflettere; Sasuke lo ignorava, e le ciotole
continuarono a cadere, rotolare, lasciando perdere fatica e lavoro.
Ino non faticò molto per uscire di scena.
Lei non piangeva, dopotutto, però le era stato assegnato quel ruolo e,
benché non le piacesse, non era che il suo e doveva portarlo a termine finché
non fosse stata più grande di esso.
Abbandonò lo sfondo - il cartongesso era così vero, i colori così
vivaci, il cielo così profondo - e lasciò il resto dei personaggi
intrappolati nei loro schemi sempre uguali, ripetuti all'infinito senza la
paura di scordare alcuna battuta.
Uscirono molti altri personaggi: alcuni cambiarono semplicemente
ruolo, altri sparirono di scena e di altri ancora non si seppe che fine ebbero
fatto.
Non rimase che lei, alla fine.
Ripeteva i suoi gesti anche se non c'era nessuna Ino a piangere - la
collana di fiori rossi era abbandonata sul prato e ogni giorno ve n'era una
nuova, sempre più bella -, anche se non c'era nessun Sasuke-kun ad ignorare le
sue ciotole, che ora vedeva sempre allineate di fianco al posto del cortile
prediletto dall'Uchiha.
Presto avrebbe finito lo spazio e allora sarebbe stata costretta a
continuare fuori, fino a tutta Konoha e oltre. Era il suo ruolo, quello, e a
lei piaceva, piaceva molto.
Alla fine, fu costretta ad uscire comunque perché era troppo grande,
troppo adulta, per continuare a giocare alla famiglia.
Cambiò ruolo e ne cambiò ancora altri, finché Sasuke sparì da ogni
scenario, e a lei non rimase che la sua ultima battuta formata da una sola
parola - avrebbe potuto concedergliene di più, era proprio egoista, proprio
tanto; lei ne aveva avuto così bisogno, di quelle parole. [ Arigatou.
]
[ Giorno imprecisato, mese imprecisato, anno
imprecisato.
Ruoli imprecisati. Scenario fuori da ogni
legge. ]
«...e questo è per te, sì, proprio per te.»
Porse quella che era l'immagine delle sue lacrime, un'immagine
nient'affatto commovente, perché quelle due righe umide non erano che malate e
ripetitive, sempre troppo false per sembrare vere.
«Vorrei che tu mi capissi, Sas'ké-kun, mi farebbe molto piacere...
l'ho fatto per te, Sas'ké-kun, solo per te e per nessun altro.»
Piango per te, Sas'ké-kun.
Sasuke alzò una mano e la schiaffeggiò. Per l'esattezza, schiaffeggiò
quell'immagine così finta da non sembrare altro che un ritocco perfetto, sempre
troppo per essere vero.
«...e questo è per te, sì, proprio per te.»
Porse quella che era l'immagine del suo amore, un'immagine molto rosa,
molto più rosa del suo vestitino a pois, che poi era anche bianco, un bianco
pulito, e lei pulita non lo era più da tempo. Era un'immagine dolorosa, e quel
dolore Sasuke lo percepiva appena; era un amore troppo rosa, affiancato da un
dolore troppo infantile per sembrare vero.
«Vorrei che tu mi amassi, Sas'ké-kun, mi farebbe molto piacere... l'ho
fatto per te, Sas'ké-kun, solo per te e per nessun altro.»
Ti amo, Sas'ké-kun.
Sasuke alzò una mano e la schiaffeggiò. Per l'esattezza, schiaffeggiò
l'immagine dell'amore felice che Sakura aveva creato in una maniera molto
simile ad un puzzle finalmente ricomposto; oltre a questo, schiaffeggiò il suo
dolore, che non era che una millesima parte del suo. Tutto troppo perfetto per
essere vero.
«...e questo è per te, sì, proprio per te.»
Porse le sue parole. Tutte quante.
Gliele lasciò in fila indiana come tanti soldatini ordinati, vestiti
rigorosamente di rosso, e solo la parola amore era bianca, perché il rosso
sarebbe stato banale su di lei. Parole dritte, ordinate, precise, senza alcuna
sbavatura, senza alcuno spazio lasciato al caso, eccessivamente perfetto per
sembrare vero.
«Vorrei che tu mi ascoltassi, Sas'ké-kun, mi farebbe molto piacere...
l'ho fatto per te, Sas'ké-kun, solo per te e per nessun altro.»
Vivo per te, Sas'ké-kun.
Sasuke alzò una mano e la schiaffeggiò. Per l'esattezza, schiaffeggiò
l'immagine di tutti quei soldatini rossi, puntini di sangue seccato a terra e
mai ripulito dalla pioggia; soldatini allineati in modo tanto preciso che, in
una visuale piatta, non si sarebbero potuti vedere i successivi al primo: sempre
troppo perf-
Seguì un tempo più o meno lungo in cui i personaggi si guardarono
inerti, in attesa della successiva battuta.
Sfortunatamente erano finite, e nessuno ripeteva più le proprie perché
ciò avrebbe causato troppo dolore.
Sakura attendeva uno schiaffo alla propria guancia, ma lei era troppo
grande, troppo adulta, per essere schiaffeggiata da Sasuke. E poi lei non era
perfetta, non lo era nemmeno un po’.
L'attesa divenne infinita: continuarono a guardarsi, impregnati di
dolore proprio e altrui.
«Sas'ké-kun,» - esclamò poi, sorridendo, con uno sguardo allegro e
malato - «e mentre aspettiamo di crescere [ ancora ] possiamo pensare a
come farlo, no? Tu vuoi fare il Vendicatore... io da grande voglio fare la
bambina.»
Owari.
N/A
Suvvia, non state lì a sbattere le ciglia cercando di capire un senso
che forse non c’è.
Diciamo che l’avevo afferrato solo la prima volta che l’ho stesa, ma
poi l’ho miseramente perso e ora posso affermare con certezza che l’ho
scordato.
Tuttavia, lei è Polpetta. Mi spiace solo di non averla amata
interamente come avrei voluto, ma ci sono cose che cambierei e riscriverei
all’infinito. Be’, Polpetta, su, ti ho lovvato lo stesso, sai? (L)
Dedicata a sé stessa, perché credo che sia egoisticamente polpettosa.
Ovviamente quel "sempre troppo perfetto per essere vero" è
ispirato alle parole di Nana Osaki, in NANA della Yazawa. <3
L-