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Autore: La neve di aprile    02/09/2008    3 recensioni
Ricordo la prima volta che ti vidi, Izzy.
È una scena che si è stampata nella mia memoria, un marchio che non vuole saperne di sbiadire.
Pioveva da giorni, non c’era stato un attimo di tregua. Nemmeno il più piccolo spiraglio di sole.
Il cielo continuava a vomitare pioggia sulla città, che scintillava.
Le luci dei lampioni, le vetrine, i grattaceli: si rifletteva tutto nelle strade coperte di pozzanghere.
E adesso che gli anni sono passati, che le cose sono cambiate, mi rendo conto che forse la mia vita, la tua vita, sarebbe stata diversa se le cose avessero preso una piega diversa.
Forse ci saremmo risparmiati tante cose, forse saremmo stati persone diversi.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
REVISIONE IN CORSO.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hand in glove'
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HAND IN GLOVE
# 12 THE END OF AN ERA

PARLA ROXANNE:
Le cose cambiano.
A volte ci mettono una vita intera, altre volte basta molto meno.
Si cambia, ecco tutto.
Nel carattere, nelle idee, nelle opinioni.
È un processo automatico che qualcuno ha cercato di imbrigliare in una legge che cerca spiegare come le cose cambino per adattarsi meglio al mondo.
Tuttavia non si può mai sapere quando ci sarà, un cambiamento.
È l’incognita che non si può determinare, il salto nel vuoto che non si può prevedere e che si rivela solo come assenza di terreno sotto i piedi: tempo che te ne accorgi ed è già finito.
I cambiamenti puoi solo sentirli nell’aria.
Sono impalpabili, niente più di una presenza che ci fa stare all’erta, con i nervi a fior di pelle e i sensi tesi a captare il momento esatto in cui la scintilla esploderà, restando sospesa nel vuoto giusto per dar tempo all’adrenalina di scorrerci nelle vene e elettrizzarci.
Il cambiamento è tutto.
Non c’è modo di sfuggirgli, o ci si adatta o si rimane indietro.
Il tuo errore fu quello di adeguarti subito.
Il mio, quello di restare indietro.
Mentre la corrente degli eventi ti portava via, io scelsi di restare nella mia piccola oasi di felicità in attesa della scintilla che avrebbe convinto anche me.
Peccato che, quando arrivò, era ormai troppo tardi per correrti dietro.


 

I know nobody knows
where it comes and where it goes
I know it's everybody's sin
you got to lose to know how to win.

 

Aerosmith, Dream on.



LOS ANGELES, febbraio 1990
Steven imprecò.
“Che cazzo è?” ringhiò, voltandosi di scatto verso la porta contro cui qualcuno continuava a bussare, insistentemente, da almeno cinque minuti.
La voce che risposto lo colse alla sprovvista.
“Roxy,” rispose, “E
efammi il favore di aprire questa fottuta porta.”
Nulla, nel tono che lei aveva usato, faceva presagire una visita di cortesia.
Sentendo un brivido scivolare lungo la schiena, il batterista si mise a sedere e, combattendo una feroce emicrania, barcollò fino alla porta della suite dove si era rintanato. Inspirò a fondo, stampandosi un sorriso sulla faccia prima di aprire la porta.
“Ciao Roxy, cosa..”
Non ebbe tempo di finire la frase che la ragazza lo investì, precipitandosi nella camera senza aprire bocca.
“…ci fai qui.” Concluse, fissando il corridoio deserto.
“Sono venuta a strozzarti.” sibilò lei, aggirandosi tra i cumuli di vestiti abbandonati sul pavimento e le bottiglie vuote con estrema cautela.
Ah ecco, pensò il biondo, ci siamo.
Senza replicare, tornò ad accasciarsi sul letto sfatto, guardandola da sotto i folti riccioli dorati.
Roxanne sembrava non trovare pace, muovendosi tra quelle quattro ampie mura come una bestia in gabbia.
“Roxanne, siediti, mi fai girare la testa.” mormorò, prendendosi la testa tra le mani.
Tremavano.
“Oh, non credo che quello sia causa mia.” replicò scontrosa, andando però a sedersi accanto a lui.
Rimase in silenzio per qualche attimo, prima inspirare a fondo e voltarsi verso di lui.
Quello che vide, però, la fece desistere.
Il volto di Steven era quello di un teschio: la pelle tirata sugli zigomi, gli occhi azzurri spenti e infossati, circondati da scure occhiaie violacee, le labbra piegate in una smorfia. Sentì gli occhi pizzicare e si morse le labbra, allungando una mano per accarezzargli una guancia.
“Stevie,” sussurrò, “cosa ti è successo? Cosa hai fatto per ridurti così?”
Il batterista non rispose, scrollando le spalle. Lei proseguì.
“Non puoi andare avanti così, ti stai uccidendo,” sentiva le parole ingarbugliarsi tra loro, nel profondo della gola, e salire stentatamente, come se non fosse capace di pronunciarle.
“Roxanne, io..”
Lei scosse il capo, incapace di proseguire.
Il nodo era risalito, privandola di ogni capacità di comunicare.
Senza poter fare altro, si allungò verso il ragazzo, abbracciandolo.
“Stevie, non farlo. Non lasciare che vinca, non…”
Il batterista trattenne il respiro, cercando di dominare il tremore alle mani per ricambiare l’abbraccio.
Ma era talmente fatto da non rendersi conto che non erano solo quelle ad agitarsi, come impazzite: tutto il suo corpo era assolutamente incapace di starsene fermo.
La cocaina non gli dava tregua, constatò vergognandosi come un cane.
Era ormai un mese che Izzy era tornato dal rehab, pulito come se gli avessero fatto fare un ciclo ad alta temperatura in lavatrice; da settimane Slash stava tentando di tirarsene fuori e, sebbene a fatica, riusciva ad essere lucido almeno per suonare.
E lo stesso dicasi per Duff. Solo lui era in completa balia delle sue dipendenze, incapace di staccarsene.
“Roxanne, io non ce la faccio,” singhiozzò, affondando la faccia tra i capelli scuri della ragazza, che lo strinse più forte.
“Non dirlo nemmeno per scherzo,” sibilò, sforzandosi per trattenere le lacrime, “devi ficcarti in questa tua testa annebbiata che non esiste, che tu puoi e devi”.
Non ho intenzione di perdere anche te. Non ho più intenzione di perdere nessuno, pensò, aggrappandosi disperatamente alla schiena magra del batterista.
Sentiva le costole premere contro la pelle, le scapole sporgere come ali mutilate.
Si scostò, incapace di sopportare oltre. Sin da quando lo aveva conosciuto, aveva rivisto in Stevie il fratello che non aveva mai avuto.
Somiglianza fisica a parte, scorgeva nel batterista lo stesso animo gentile di Matthew, lo stesso animo che le droghe avevano cancellato, sradicato e fatto dimenticare.
Stupidamente il suo inconscio aveva fatto si che all’immagine di Steven Adler si sovrapponesse quella di Matthew May al punto che non c’era più confine tra le due, al punto che si erano fuse l’una con l’altra trasformandosi in un qualcosa di inscindibile.
Roxanne inspirò a fondo, scacciando parte dei brutti pensieri e lottando per recuperare un po’ di lucidità.
Non era da lei. Non era per questo che aveva attraversato la città, rinunciando al suo unico pomeriggio libero.
“Steven, seriamente,” riprese, “non puoi andare avanti così”.
“Lo so,” replicò lui, fissando il pavimento, “ma non ho scelta”.
“C’è sempre una scelta,” lo corresse lei, inflessibile.
“Ma io sto bene!” protestò, senza troppa convinzione.
“Oh si, certo,” roteò gli occhi, sentendo le lacrime bruciare di nuovo, “non è certo ignorandoli, che i problemi si risolvono”.
“E chi ti dice che io abbia un problema?” l’aggredì lui, prima di potersi trattenere.
Come se le avesse tirato uno schiaffo, Roxanne si ritrasse.
“Sai chi diceva sempre così?” sussurrò, abbassando lo sguardo sulle sue mani e curvando le spalle.
Si sentiva stanca. Vecchia e stanca.
Steven scosse il capo, ma trattenne il respiro.
“Izzy diceva così. E poi guarda tu come è finito, nella merda fino al collo e anche sopra. Matty diceva così, e adesso riposa sotto terra. Nessuno di loro era disposto ad ammettere di avere un problema, sono stati i problemi a trovare loro. E credimi, non hanno avuto scelta. Izzy è stato fortunato, non passa giorno senza che ringrazi il cielo per avermelo lasciato qui, Matty no. Io non.. io non voglio che tu faccia la fine di Matty. Non posso perdere un’altra persona, non così. Capisci, Steven? Capisci cosa intendo dire?”
Il batterista si morse le labbra, preso in trappola.
Ovvio che capiva.
Ovvio che sapeva che lei aveva dannatamente ragione.
Ovvio che non voleva finire nei guai né tanto meno morire.
Però.
Però sapeva di essere debole.
Sapeva che era stupido, ma non ne aveva voglia.
Soffrire per cosa? Per poi ricaderci?
Perché era così che sarebbe finita, ne era certo.
Sarebbe rimasto pulito per una settimana, due al massimo.
E poi paf! Ricaduta assicurata.
Con il genere di vita che facevano, erano inevitabile, e non era sicuramente forte come Izzy.
Non aveva nessuno a cui appigliarsi, la sua ultima ragazza risaliva a mesi prima e da allora si era limitato a scappatelle di una notte.
A questo si era ridotto. Droga e sesso facile.
“Non posso, Roxanne,” mormorò, senza trovare il coraggio di guardarla in faccia. La sentì ritrarsi, come se l’avesse colpita, ma non disse nulla.
“Steven, no. No, non lo accetto. Mai. Non esiste, non sta né in cielo né in terra. Non ci sto, no!” sbottò, tutto d’un colpo, prendendogli il volto tra le mani e guardandolo fisso negli occhi.
Lui ricambiò lo sguardo, vacuo.
Roxanne si morse le labbra, inspirando a fondo.
Sapeva che sarebbe stato difficile, sapeva che non sarebbe stata una passeggiata e Izzy era stato fin troppo parsimonioso nel descrivere lo stato in cui Steven si trovava, ma faceva ugualmente fatica ad accettarlo.
Non era il suo amico, lo spettro che aveva sotto gli occhi.
“Stevie,” ripese, parlando sottovoce, “perderai tutto. Ogni cosa. Tutto ciò che più ami, ti verrà strappato via,” scandì lentamente, senza mai distogliere lo sguardo dall’azzurro spento del batterista, “gli amici, la voglia di ridere, le uscite. La musica.”
“La musica no!” esclamò lui, le parole strozzate dal terrore.
“E invece si. Sta già succedendo, la stai già perdendo, possibile che non te ne renda conto? Tremi al punto da non riuscire a tenere le bacchette in mano, come speri di poter suonare?”
Non ottenne risposta.
Una coltre di silenzio scivolò tra di loro e lì rimase, senza permettere ai loro troppo deboli pensieri di spezzare le più tenaci barriere umane, orgoglio e caparbietà.
Roxanne sospirò, inghiottendo il nodo che le serrava la gola.
Aveva come l’impressione che quel silenzio mascherasse qualcosa di molto più grande, che riusciva ad identificare solo come allontanamento.
Lasciò il batterista con il vago presentimento che niente sarebbe stato più come prima, tra loro due.


 

Fools said I you do not know,
silence like a cancer grows,
hear my words that I might teach you
take my arms that I might reach you
but my words, like silent raindrops fell
and echoed the will of silence.

Simon & Gurfunkel, Sound of silence.


 

LOS ANGELES, febbraio 1990.
Axl sbuffò.
Era la terza volta nel giro di dieci secondi, tutti sapevano che qualcosa non andava.
“Steven,” sospirò il cantante, massaggiandosi le tempie, “cosa non ti è chiaro, di preciso?”
Il biondo sollevò il capo, sentendosi chiamare in causa.
“Eh?”
“Ti ho chiesto cosa non hai capito, di preciso, perché sono ore che ti ripeto sempre la stessa identica cosa e tu continui a sbagliare”.
Duff sfilò la tracolla del basso, posandolo contro una parete, e si sedette accanto ad Izzy, su un tavolo di plastica nera.
Questi lo guardò, prima di tornare a pizzicare delicatamente le corde della sua chitarra; sentiva tensione nell’aria e non aveva intenzione di aprir bocca e accendere inavvertitamente la miccia che li avrebbe fatti saltare per aria.
“Uno, due, tre. Un-due. Uno, due, tre!” sbraitò Axl, battendo le mani per scandire il ritmo delle parole “Non è difficile, cazzo!”
“E non urlare!” si lamentò Steven “Non sono stupido!”
“Ah no? Io invece credo di si, perché continui a dire che hai capito e a fare l’esatto opposto,” velenoso, il rosso si sporse in avanti, minaccioso.
“Axl, datti una calmata,” intervenne Slash, facendosi avanti, “non c’è bisogno di fare gli stronzi”.
“Hudson, stanne fuori,” sibilò il front-man, “non sono cose che ti riguardano”
“Oh si che mi riguardano, invece,” ribatté l’altro, “fino a prova contraria faccio ancora parte di questa band”.
“Ragazzi, non c’è bisogno di discutere,” intervenne Duff, saltando a terra.
Izzy lo seguì con lo sguardo, senza muoversi.
“Piuttosto rimettiamoci al lavoro, non abbiamo tempo da buttare”.
“E invece si, è proprio ora di discutere un po’, perché il tempo lo stiamo allegramente mandando a farsi fottere,” ringhiò Axl, voltandosi verso il bassista, “non possiamo andare avanti così, non è possibile!”
“Non urlare,” lo ammonì Slash.
“Io faccio quel cazzo che mi pare!”
Izzy chiuse gli occhi, frugando nelle tasche dei pantaloni alla ricerca di una sigaretta.
Era in momenti come quelli che rimpiangeva amaramente l’oblio regalatogli dalle droghe in passato, rimpianto che mitigava con massicce dosi di nicotina.
L’accendino scattò, la fiamma guizzò rapida e subito dopo l’acre sapore del fumo inondò i suoi polmoni.
Rilassò le dita della mano attorno alla chitarra, sentendole crocchiare dolorosamente.
La lucidità gli aveva regalato una subdola e più acuta percezione della realtà, che comprendeva tutta una serie di piccoli dolori di cui prima ignorava allegramente l’esistenza. Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire da dove sbucassero fuori.
Scosse il capo, riavviandosi i capelli corvini e balzando a terra a sua volta.
Mentre Axl, Slash e Duff continuavano a discutere animatamente, Steven si limitava a fissare le bacchette, abbandonate tra le mani, con le spalle curvate sotto il peso di qualcosa che ancora non riusciva ad identificare.
Izzy si sentì stringere il cuore, provando compassione per lo stato in cui l’amico si era ridotto.
C’era ben poco da fare, per lui.
Nemmeno Roxanne era riuscita a smuoverlo dall’apatia più totale in cui era scivolare; cosa potevano sperare di fare loro?
Sin da quando aveva conosciuto la ragazza, all’Underpass, tra i due era nato un innegabile feeling che li aveva avvicinati come fratello e sorella, sentimento di cui il chitarrista era stato geloso: se persino lei aveva fallito, cosa potevano sperare di combinare loro?
Nulla riusciva a scalfire il bozzolo di stordimento attorno al batterista.
“Ragazzi,” esordì il moro, “non parlate di Steven come se non fosse qui”.
“Ma lui non è qui,” osservò tristemente Duff.
“Duff..” Slash gli scoccò un’occhiataccia, incrociando le braccia al petto.
“Guardalo, Isbell,” Axl puntò un dito contro il ragazzo biondo, “è fatto come una merda, non riesce nemmeno a tenere in mano quelle cazzo di bacchette! Come puoi pretendere che suoni?”
“Cosa vorresti dire?” si inalberò il bassista “Che dobbiamo cacciarlo?”
“E’ un’ipotesi da prendere in considerazione,” sibilò il cantante, iroso, “abbiamo una tourneé da fare, non posso permettere che un drogato del cazzo la mandi a puttane”.
Izzy soffiò fuori una boccata di fumo, con deliberata lentezza.
“Come dire che se non si ripulisce, se ne deve andare,” osservò, guardando dritto negli occhi l’amico.
Amico.
Poteva poi davvero considerarlo come tale? Del ragazzino con cui marinava la scuola per fumare e suonare c’era rimasto ben poco, oramai.
Condividevano cosa? Soldi, fama, gloria.
Ma quand’era stata l’ultima volta che avevano seriamente parlato, loro due?
Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare.
“Esattamente,” il rosso annuì, prima di voltarsi verso il batterista e afferrarlo per il bavero della maglietta sdrucita che indossava, “mi hai capito, Adler? Se non ti ripulisci, e alla svelta, se fuori. Fine dei giochi. Per sempre”.
Il batterista non fiatò, fissando il cantante senza realmente vederlo.
Svuotato. Un guscio senza più anima.
“Non sei nemmeno in grado di difendere la tua musica,” gli alitò addosso Axl, carico di disprezzo, prima di girare sui tacchi e lasciare il piccolo studio, sbattendo la porta.
Izzy spense la sigaretta, prima di guardare gli altri ragazzi presenti.
Ma nessuno sembrava più avere nulla da dire.

 

The girl can't help it, she really can't help it now
It's like a highschool, highschool confidential
Teenage brandos stalk her in the halls
They tease her with cat calls

Alphaville, Highschool Confidential.

 

“Coglione,” soffiò Roxanne, “stronzo e coglione”
Izzy allungò le braccia, prendendola per i fianchi e costringendola a restare ferma.
Era da dieci minuti buoni che continuava ad andare su e giù per la stanza, senza fermarsi un attimo.
Esattamente da quando lui aveva terminato di raccontarle cosa era successo allo studio, nel pomeriggio.
“Amore,” cercò di rabbonirla, “fermati un secondo, ti prego”.
“Non posso!” protestò lei “Dio, quanto mi fa incazzare quel supponente uomo del cazzo!” sbottò, stringendo le mani a pugno fino a far sbiancare le nocche.
“Ti ha sempre fatta incazzare,” le ricordò.
“Beh, questa volta ha passato il limite. Ma chi cazzo si crede di essere per poter trattare Stevie così? Manco fosse un estraneo, qui si parla di un suo amico!”
Raramente Izzy aveva visto la sua ragazza così indignata e furibonda al punto da ripetere la parola ‘cazzo’ almeno una volta per frase.
Affondò le dita tra i suoi capelli, accarezzandole il collo: immediatamente lei si immobilizzò, rabbrividendo appena, per poi scartare via.
“E non ci provare nemmeno, tu!” lo accusò “Non ti azzardare a corrompermi con la promessa di un po’ di sesso solo per farmi stare buona, sono troppo arrabbiata!”
Il chitarrista si alzò in piedi, raggiungendola.
“Roxanne” disse “Steven deve ripulirsi. Lo sai anche tu, questo, lo sai meglio di me. Ma non vuole ascoltare nessuno, non vuole sentire ragioni! Lo hai visto tu stessa, no?”
La ragazza annuì, suo malgrado, accendendosi una sigaretta con un gesto nervoso.
“Non è una buona ragione per ricattarlo!”
“Non venire a fare la moralista, adesso,” la rimproverò Izzy, “da quando in qua ti preoccupi del mezzo e non del fine? Le buone fino ad adesso non hanno funzionato, per il bene di Steven dobbiamo tentare con le cattive. Sarà immorale, sarà scorretto da parte Axl fare quello che fa, ma se questo vuol dire fargli aprire gli occhi seriamente, allora ben venga. Sono il primo che rivuole indietro l’amico di un tempo, quello con cui si poteva fare a botte quando si divertiva a farmi ingelosire. Hai notato che non lo fa più? Non si accorge nemmeno di chi gli è vicino, l’altro giorno ha scambiato una puttanella da due soldi per Adriana. Adriana, ti rendi conto? Quella che sembrava essere l’amore della sua vita!”
Roxanne abbassò lo sguardo, soffiando fuori una boccata di fumo.
Ma la nicotina non la stava affatto aiutando, anzi. Il fumo entrava e usciva dai suoi polmoni senza che nemmeno se ne accorgesse.
Si lasciò cadere sulla sua vecchia poltrona, rannicchiandosi contro lo schienale imbottito.
Izzy la raggiunse, sedendosi su un bracciolo.
“Tesoro, non fare così,” si chinò a baciarle la fronte, “dono d’accordo con te nel dire che Axl l’ha sparata grossa e l’ha fatto con un tono che non è piaciuto a nessuno, ma ha ragione. Togli il batterista e i Guns perdono l’anima. Abbiamo bisogno di lui per essere quello che siamo, abbiamo bisogno di lui perché non possiamo farne a meno, e allo stesso modo lui ha bisogno di noi. Di me. Di te. Non credere che non lo sappia, lui dipende da noi esattamente come noi dipendiamo da lui. E non si tratta solamente di una questione di affari e musica, no. È qualcosa che va al di là; dopo tanti anni passati assieme siamo uno parte dell’altro. Steven si sta uccidendo e così facendo uccide parte di noi”.
Roxanne si morse le labbra, trattenendo un singhiozzo.
“Axl vuole che torni il vecchio Steven e lo dice nell’unico modo in cui sa dirlo, ecco tutto,” concluse Izzy.
La ragazza alzò lo sguardo, cercando conferma negli occhi verdi del chitarrista, che si impose di sorriderle.
Non era sicuro che le cose stessero effettivamente così, non era sicuro di nulla.
Ma aveva bisogno di crederci, così come aveva bisogno di credere che era solo un momento di crisi, un acquazzone estivo che presto si sarebbe esaurito lasciando spazio al nuovo sole.
Effettivamente, erano tante le cose in cui aveva bisogno di credere, forse troppe.
Che fine avevano fatto tutte le sue certezze?
Da quando le sue fondamenta di cemento si erano rivelate fatte di polistirolo?
“E’ tutto nelle mani di Steven,” sospirò dopo qualche attimo, accogliendola in un abbraccio, “non puoi aiutarlo, adesso”.


 

Yes, 'n' how many times can a man turn his head,
Pretending he just doesn't see?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.

Bob Dylan, Blowin’ in the wind.


 

INDIANAPOLIS, 7 aprile 1990
Steven era nervoso.
Camminava inquieto nel minuscolo camerino, tormentandosi le mani pallide e magre.
I tendini erano tesi sotto la pelle , le unghie mangiucchiate; ma ciò che più spiccava era l’inquietante magrezza del volto, così scavato da sembrare un vero e proprio teschio incorniciato da una soffice nuvola di capelli biondi.
Ironia della sorte, si era trasformato nello Steven che troneggiava sulla copertina di Appetite for Destruction, titolo che si era rivelato profetico per la maggior parte di loro.
Slash sbirciò il batterista da sotto la tesa del cilindro nero, mordendosi le labbra piene, gesto che esprimeva tutta la sua preoccupazione.
Non era da Steven essere così teso per un concerto, non più almeno.
La sua incapacità di rimanere fermo era data da qualcos’altro, qualcosa che non era difficile intuire.
Izzy si fece portavoce dei pensieri degli altri membri della band, afferrò un braccio al biondo e lo sbatté contro una parete.
Nessuno parve stupirsi del gesto iroso, nessuno aprì bocca per commentare. Steven compreso.
“Di che ti sei fatto?” gli alitò in faccia, irato.
“Che?” fece finta di non capire l’altro, evitando il suo sguardo.
Ma Izzy non era dell’umore adatto per far finta di niente a sua volta, stavano per salire su un palco importante e per suonare una nuova canzone, non potevano permettersi una perfomance mediocre.
“Eroina?” insistette “Anfetamine? Cocaina?”
Un lieve sussulto, all’ultima parola. Il moro lo lasciò andare, con un gesto che esprimeva tutta la sua stizza e delusione.
“Avevi detto che ci avresti dato un taglio!” sbottò dopo qualche istante, dandogli le spalle.
“L’ho fatto!” protestò il batterista, portando una mano alla fronte e premendovela contro con forza, tra riccioli sbiaditi “L’ho fatto, cazzo!”
Duff, che fino a quel momento si era dedicato interamente a ripulire le punte dei suoi stivali bianchi da minuscole macchioline, alzò gli occhi per scambiarsi un’occhiata angosciata con Slash: il chitarrista strinse le labbra in una linea stretta, senza fiatare, ma si voltò a guardare Axl.
Il cantante era seduto su una sedia, la caviglia destra abbandonata sul ginocchio sinistro e le braccia conserte al petto.
Impossibile dire cosa stesse guardando, gli di occhiali con lenti a specchio che indossava si limitavano a riflettere cheti lo stanzino in cui erano costretti ad aspettare.
Izzy fremette, impercettibilmente, e si trattenne dal colpire il batterista con un pugno diretto al centro di quel visino che faceva ancora impazzire migliaia di fan nonostante l’aspetto tutto fuorché sano.
“Steven,” intervenne Slash, alzandosi per andare a fermare l’amico da rompere il naso al biondo, “quanta roba?”
“Io non mi sono fatto, cazzo!” urlò questi in risposta, spalancando le braccia esasperato.
“Stevie…” mormorò Duff, preoccupato dall’eccessivo silenzio di Axl.
Dopo mesi passati ad ascoltare le sue urla e le sue minacce, dopo aver visto Steven alternare tra la lucidità e l’oblio più totale, si rendeva conto più di tutti dell’equilibrio precario su cui erano in stallo.
Sarebbe bastato un niente e sarebbero potuti precipitare nel nulla.
Guardò di sottecchi il rosso, ancora immobile, e raggiunse il batterista, posandogli le mani sulle spalle.
“Stai calmo, non fa niente,” lo rassicurò, con un sorriso nervoso, “va tutto bene, non succede nulla se per una volta..” s’interruppe, sentendo l’amico crollare in avanti e posare la fonte contro la sua spalla. Non svenuto, ma libero da un peso che non poteva comprendere.
“Ci sto provando, davvero,” biascicò, masticando parola dopo parola a fatica, “giuro, io ci provo, ci provo, ci provo e sembra sempre che ci stia riuscendo, ma poi succede sempre che vedo qualcuno o penso che potrei farmi e…”
Duff rimase immobile per qualche attimo, prima di posare una mano sui capelli di Steven, che sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
Izzy si sentì improvvisamente più vecchi di vent’anni e desiderò ardentemente che Roxanne fosse li con loro, in quel momento, e non assieme ad Erin e ai loro tecnici, dietro al palco.
Nessuno di loro era pronto ad affrontare – né tantomeno arginare - la crisi in cui Steven stava lentamente sprofondando, risucchiato verso il fondo di un baratro da cui era sempre più difficile risalire.
“Io non ho un problema, davvero,” continuò Steven, aggrappandosi a Duff come se fosse l’unica cosa che lo tenesse ancorato alla realtà, “è solo che non so cosa fare, cosa dire quando…”
“Quanto,” ripeté, pacifico, Slash, la voce decisamente più morbida e confortante.
“Una striscia, solo una,” confessò il batterista, scostandosi dal bassista e guardandoli uno per uno in faccia, “io non ho un problema, davvero, ce la sto facendo, una striscia non ha mai ucciso nessuno e non cambia niente”.
Izzy abbassò lo sguardo, incapace di sopportare gli occhi azzurri dell’amico colmi di paura e al tempo stesso luminosi della speranza di chi spera perché sa che non può fare altro. La stessa luce che illuminava i suoi, un tempo, la sua stessa colpa.
“Izzy, ti giuro, è solo una striscia, solo per stasera e poi basta!” abbozzò un sorriso, simile a un bambino che si rialza dopo una caduta e ride con gli occhi ancora colmi di lacrime. “Izzy, vecchio mio, tu lo sai quanto è difficile!”
“Oh, se lo so…” sussurrò il chitarrista, le spalle curve e un’espressione amara dipinta sul viso pallido.
Era difficile dire di no a una striscia di coca così come al più banale degli spinelli.
Era difficile dire di no all’alcol quando uscivano, era difficile fare finta di non sapere cosa succedesse in bagno quando a gruppi di due vedeva conoscenti rinchiudercisi dentro. Sentirsi piccolo, fragile, debole.
“Non è mai facile,” riprese, “ma non è un buon motivo per gettare la spugna, Steven”.
Se non fosse stato impossibile, avrebbe giurato di vedere il labbro inferiore dell’amico tremare, mentre chinava il capo.
Ma probabilmente era stato lo sfarfallio di una lampadina, l’ombra di un ricciolo inquieto.
Perché lo sguardo di Steven si fece vacuo, remoto, e un sorriso gli si stiracchiò sulle labbra, lentamente.
“Hai ragione, scusami. Scusatemi,” si passò una mano tra i capelli, prima di stringersi nelle spalle, “è stata l’ultima volta. Non lo farò più”.
Slash infilò le mani nelle tasche dei jeans, annuendo pensoso; Duff gli sorrise e gli strinse una mano sulla spalla con fare comprensivo.
Izzy rimase immobile per qualche attimo, prima di voltarsi e sospirare silenziosamente.
“Lo spero bene,” commentò semplicemente.
Axl non fece né disse nulla.
Si limitò a contemplare qualcosa che nessuno di loro poteva intuire o immaginare, perso nei suoi pensieri, fino a quando non si alzò in piedi e camminò fino alla porta, aprendola.
“E’ ora,” annunciò alla fine, senza guardarli, “muovetevi”.
E senza aspettare risposta, uscì dallo stanzino e si chiuse la porta alle spalle.

 

This is the end
Beautiful friend
This is the end
My only friend, the end.

The Doors, The end.

 

LOS ANGELES, 11 luglio 1990
Il vento caldo investì il volto dei due ragazzi non appena misero piede fuori dallo studio di registrazione e fu solo un caso se il cilindro di Slash non volò via, nel cielo gravido di nubi candide.
Duff si accese una sigaretta, incapace di commentare quanto era accaduto qualche minuti prima, all’interno di quello che sembrava un edificio come tanti altri nel cuore di Los Angeles.
“Ti tremano le mani,” osservò Slash, inarcando le sopracciglia.
Al sicuro tra le sue labbra, una Malboro disperdeva una rete di fumo acre nell’aria.
“Cristo santissimo!” fu tutto ciò che il bassista riuscì a dire, accasciandosi su un gradino e affondando la fronte nei palmi delle mani.
“Puoi ben dirlo.”
Il volto del chitarrista era completamente nascosto dai folti riccioli scuri e dall’ombra della tesa del cilindro, ma la sfumatura amara delle sue parole non lascia dubbi sul suo reale stato d’animo.
La svolta che tutti loro avevano fiutato e temuto, rifiutandola con tutte le loro forze, era piombata su di loro senza che potessero fare nulla per evitarla.
Dopo mesi di silenzio, Axl aveva finalmente parlato.
Si era alzato dal suo sgabello, all’ennesima interruzione, si era tolto le cuffie e le aveva posate sul leggio; poi, con una calma agghiacciante, si era avvicinato a Steven e gli aveva preso le bacchette di mano.
Basta, si era limitato a dire, sei fuori.
Tredici lettere.
Tre parole.
Tre misere parole che avevano avuto il potere si svuotarli completamente, privarli della loro linfa vitale e della capacità di parlare, perché mentre Axl decideva di cacciare l’anima del gruppo loro non erano stati capaci di fare altro che guardare.
Steven si era alzato, sotto i loro occhi, aveva biascicato qualcosa di assolutamente incomprensibile e se ne era andato.
Senza dire niente.
Troppo fatto per capire, troppo fatto per protestare.
“Ne è uscito sconfitto su tutta la linea,” sussurrò Duff.
Slash inalò una profonda boccata, rigirandosi poi la sigaretta tra le dita.
“E noi con lui,” soffiò alla fine, mescolando fumo e parole.

 

Of our elaborate plans, the end
Of everything that stands, the end
No safety or surprise, the end.

The Doors, The end.

 

“Tu sei pazzo,” ringhiò Izzy, alzandosi in piedi di scatto, “tu ti sei fottuto il cervello, ecco cosa è successo”.
Axl aprì gli occhi con calma, piantandoli in quelli del chitarrista.
Verde muschio e verde foglia si sfidarono, silenziosamente, si combatterono fin quando il sipario non si serrò su quelli più chiari.
Axl spense la sigaretta che stava fumando nel posacenere, si alzò in piedi e se ne accese un’altra.
“Sei tu quello che è fatto, sei un cattivo trip per caso? Che ti sei calato, acidi?” chiese sprezzante il moro, incapace di rimanere zitto.
Aveva l’assurda speranza che forse, sommergendo il vocalist di parole, questi avrebbe cambiato idea e avrebbe richiamato Steven.
“Hai finito?” il rosso lo guardò di nuovo, la sigaretta pigramente abbandonata tra le labbra mentre si sistemava la bandana attorno alla fronte.
Ciocche di capelli rossastri gli ricadevano scomposte ai lati del viso, indurito in una smorfia severa.
“Perché sai, non possiamo permetterci di perdere altro tempo. Dobbiamo sostituire Steven in fretta”.
“Sostituire…” Izzy boccheggiò, incredulo.
La sedia di Steven era ancora calda e già parlava di piazzarci sopra qualcun altro.
“Stai scherzando, spero”.
“Assolutamente no,” candido, il cantante si alzò in piedi e gli si piazzò davanti, guardandolo dritto negli occhi.
“Axl,” gli posò le mani sulle spalle, cercando di rimanere il più calmo possibile, “non puoi essere serio”.
“Izzy, smettila di blaterare stronzate, connetti quel poco di cervello che ti è rimasto e prova a riflettere un attimo. Abbiamo scelta, forse?”
“Certo che si!” esplose il moro “Rimandiamo la tourneé fino a quando Steven non sarà pronto a raggiungerci”.
“No”.
“Perché?”
“Ci sono troppe cose in ballo, è una cosa troppo importante,” Axl scelse con cura le parole, ma Izzy non ebbe difficoltà ad interpretarle.
“Troppi soldi, vorrai dire,” commentò amaramente, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Beh, si,” ammise l’altro, “che ci vuoi fare, io non faccio musica per gloria, come Slash, o per amore, come te. Io ci penso, ai soldi. Ci si fanno tante belle cose, cose che altrimenti non potremmo nemmeno sognare la notte, non ci vedo nulla di male in questo, se permetti”.
Axl incrociò le braccia al petto, senza mai distogliere lo sguardo, e Izzy si chiese dove fosse finito il suo vecchio amico, quello con cui aveva condiviso gioie e dolori.
Ma soprattutto.
Da quanto tempo portava avanti questi ragionamenti?
Una domanda gli premeva sulla punta della lingua, ma la risposta che avrebbe ricevuto lo terrorizzava al punto da gelargli il sangue nelle vene.
Eppure doveva sapere.
“William,” chiamò piano, “avresti rimpiazzato anche me, vero? Se non fossi tornato per tempo, avresti rimpiazzato anche me”.
Il cantante si irrigidì, per un attimo, e gli diede le spalle.
“Abbi almeno il coraggio di guardarmi negli mentre lo dici,” lo rimproverò, la voce carica di gelido disprezzo.
Ma sotto quello, la delusione era un oceano di lava che ribolliva inquieto, incontrollabile.
Il rosso di voltò, lentamente, e fece quello che gli era stato chiesto.
“Si Jeff,” rispose “Avrei sostituito anche te”.
Izzy accusò il colpo senza darlo a vedere.
Continuò a guardare il volto che aveva davanti, un volto che non riconosceva più, trasfigurato dagli anni sulla cresta dell’onda.
Un volto a cui doveva tutto e che gli doveva tutto, che era stato la sua ancora e che adesso aveva reciso la corda e lo lasciava andare a fondo, in un baratro che gli si era aperto sotto i piedi.
Lo vide vacillare impercettibilmente, combattuto tra il desiderio di parlare e quello di non dire nulla.
Non aveva dubbi sul fatto che lo strappo era netto, a questo punto.
“Hai scordato tante cose, William,” sorrise amaramente, muovendo qualche passo verso l’uscita, “forse faresti meglio a ricordarle, se non vuoi perdere tutto”.
“Io non ho perso nulla, ho solo allontanato un pessimo batterista,” ribatté il rosso, orgogliosamente.
“No, fidati,” gli scivolò accanto, fermandosi con la mano stretta attorno alla maniglia, “avrai allontanato un pessimo musicista, ma hai perso due amici”.
“Jeff…” Axl provò a trattenerlo, ma il chitarrista lo bloccò prima che potesse aggiungere altro.
“No, Axl. Jeff non esiste più, ormai,” oltrepassò la soglia e, prima di chiudersi la porta alle spalle, aggiunse, “non per te”.

 

Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strain)
Ch-ch-Changes
Oh, look out you rock 'n rollers
Ch-ch-ch-ch-Changes
(Turn and face the strain)

David Bowie, Changes.

 

Roxanne canticchiava, lavando i piatti nel suo minuscolo cucinino.
Affondava le mani di buona lena nella schiuma al profumo di limone, ondeggiando a ritmo con la musica che una piccola radioline suonava dal suo angolo.
“Lady Madonna lying on the bed, listen to the music playing in your head!” intonò sottovoce, strizzando la spugnetta per poi passarla su un piatto “Tuesday afternoon is never ending, wedn'sday morning papers didn't come”.
Era di buon umore.
Izzy sarebbe arrivato a minuti e poi sarebbero andati a fare un giro in macchina, approfittando della bella giornata estiva.
Non stava più nella pelle, erano giorni che aspettava di poter passare un intero pomeriggio con lui, che era sempre più spesso impegnato nella registrazione di nuovi brani con gli altri ragazzi.
Si gettò di buona lena di una pentola incrostata, dimenticata da giorni assieme al mucchio di stoviglie che aveva deciso di ripulire una buona volta.
“Thursday night your stockings needed mending: see how they'll run.”
Le cose sembravano essere finalmente stabilizzate e sebbene fosse fermamente convinta che era un equilibrio estremamente delicate, sembrava durare più del previsto.
Ormai erano passati mesi da quando Axl aveva minacciato Steven di cacciarlo se non si fosse ripulito, e sebbene il batterista alternava periodi di ludicità a tremente ricadute, il cantante non aveva mai detto nulla.
Izzy le aveva confidato di interpretare l’assenza di commenti come un segnale positivo, conosceva troppo bene Axl per sapere che quando diceva una cosa, era quella e basta e Roxanne aveva dovuto dargli ragione.
Il campanello suonò, distogliendola dai suoi pensieri.
Lanciò la spugnetta nell’acqua, si asciugò le mani su un vecchio canovaccio azzurro e si avviò alla porta, continuando a canticchiare assieme ai Beatles.
“Lady Madonna children at your feet,” senza chiedere chi fosse – era quasi certa fosse Izzy -, spalancò la porta e cantò l’ultimo verso, con un gran sorriso stampato sulla faccia “Wonder how you manage to make ends meet”.
Il sorriso si congelò all’istante quando, dopo aver riconosciuto il suo ragazzo, si accorse della presenza di un’altra persona.
Steven era in piedi accanto al chitarrista, le mani affondate in un paio di vecchi jeans e il viso nascosto da una cascata di riccioli biondi.
L’occhiata che le rivolse non aveva bisogno di commenti.
“Cazzo,” commentò solamente, facendosi da parte per far entrare i due.
“Ciao amore,” Izzy si sforzò di sorriderle e si chinò a darle un rapido bacio.
Lei gli sfiorò il volto con una carezza, tornando immediatamente su Steven, chi fissava il pavimento.
Sentì gli occhi bruciare, intuendo cosa fosse successo: l’equilibrio si era rotto. Axl aveva calato le sue carte, alla fine, e la mano del batterista era stata sfortunata.
Represse le lacrime che già premevano per uscire e abbracciò l’amico, senza parlare.
Il tempo delle parole, oramai, era finito.


 

PARLA ROXANNE:
Quei giorni sono rimasti impressi in noi come cicatrici, una fitta mappa stradale di vecchie ferite che percorre il nostro corpo e il nostro spirito tracciando le linee della nostra storia, di ciò che siamo.
Sono vivide, dolorose, mai del tutto scomparse.
Il cambiamento era inevitabile, ma all’epoca nessuno di noi era pronto ad accettarlo.
Troppo acerbi, troppo saldi nelle nostre convinzioni, vivevamo all’ombra di una speranza che non esisteva.
Le ferite di allora non si sono mai del tutto richiuse.
Sono rimaste lì, in attesa, vecchi fantasmi di un mondo che ha smesso di esistere.
Ma cosa è peggio?
Una nuova, sanguinante ferita, o il dolore di una che non è mai guarita?
Forse c’è un motivo se rimangono.
Forse sono lì, monito di vecchi errori per stronzate future.
Eppure non basta mai.
Ci sono lezioni che vanno imparate di nuovo, ancora e ancora e ancora.
Lezioni che per quanto terribili possano essere, sono necessarie.
Ci sono mattine in cui un dolore acuto al petto mi sveglia prima dell’alba e mi lascia lì, a guardare il sole che sorge, e a pensare alla più grande delle mie cicatrici.
È profonda, dolorosa, orribile.
Porta il tuo inconfondibile marchio, l’incapacità di scomparire del tutto; fa riaffiorare parti di me che tengo costantemente imbrigliate e sepolte sotto cumoli di oblio.
È una melodia a cui è stato privato il finale, un accordo talmente triste da far spuntare le lacrime.
È in quelle mattina che penso a te.
Dove sei, adesso, Izzy?

   
 
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