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Autore: beanazgul    07/01/2005    5 recensioni
di PlasticChevy traduzione di: beanazgul aka Adûnaphel Nota: Questa è la traduzione della storia originale in inglese “The Captain and the King”, scritta da PlasticChevy, un’autrice di fanfiction dotata di grande talento. E' ispirata al mondo del Signore degli Anelli, ma si tratta di un’ AU, cioè una versione alternativa del testo di Tolkien, i cui eventi prendono una strada diversa ad Amon Hen....se vi è sempre dispiaciuto vedere Boromir morire alla fine del primo libro/film, allora questa storia fa per voi! Se avrete la pazienza di avventurarvi in questa miriade di capitoli vi assicuro che non ve ne pentirete: vi lascerà senza fiato! PlasticChevy mi ha gentilmente dato il permesso di tradurla e io ho cercato di fare del mio meglio per rendere giustizia alla sua bravura, anche se è un lavoro molto impegnativo perché la storia è molto complessa e mi rendo conto che una traduzione non è mai all’altezza dell’originale! Disclaimer: Il Signore degli Anelli e tutti i suoi personaggi sono proprietà di J.R.R. Tolkien e dei suoi eredi. Li sto utilizzando solo per divertimento, non per vendita o profitto.
Genere: Drammatico, Azione, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Aragorn, Boromir, Merry, Saruman
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo 2: Le pianure di Rohan

 

Merry sussultò, svegliandosi di soprassalto da un sonno irrequieto, il selvaggio suono di un corno ancora vivido nelle sue orecchie. Si guardò attorno confuso per un attimo, poi capì. Era solo l'eco morente di un sogno. Lentamente, si lasciò ricadere sull'erba e si avvolse più stretto nel mantello.

Era l'ora più buia prima dell'alba. La luna era tramontata da tempo, e la prima promessa del mattino non aveva ancora rischiarato il cielo a oriente. Le stelle erano offuscate da nuvole basse, e le pianure di Rohan si stendevano nella più completa oscurità. Merry si raggomitolò cercando di raccogliere tutto il calore del suo mantello elfico e guardò il cielo, che sapeva essere da qualche parte lassù, sopra la sua testa, anche se non riusciva a vederlo.

Per un doloroso istante si illuse di udire ancora il suono incalzante del corno, portato dalla fresca brezza della notte. Tese l’orecchio per sentirlo ancora, ma tutto ciò che udì fu il fruscio dell'erba alta. Nulla più.

La figura accanto a lui si mosse.

"Sei sveglio, Merry?" mormorò Pipino.

Non ricevendo alcuna risposta, Pipino si girò e si sollevò su un gomito per guardare l’amico.

"Non riesci a dormire?"

"Ci riuscirei", bisbigliò Merry, "ma preferisco non farlo".

"Ti ho sentito gridare nel sonno".

Ancora una volta non ebbe risposta.

"Ho fatto anch'io lo stesso sogno".

Merry rabbrividì e chiuse gli occhi. Fu un errore.

L'oscurità della notte fu sostituita da quella della sua mente, e dietro le sue palpebre ricominciarono a danzare le immagini che lo perseguitavano ormai già da due giorni.

Orchi, orchi dappertutto, che avanzavano tra gli alberi come erompendo dalle rocce, con le zanne scoperte, occhi fiammeggianti, spade che colpivano e distruggevano qualunque cosa si muovesse.

Boromir si ergeva forte e alto, uno scudo vivente tra loro e l’urlante massa di nemici, la sua spada che abbatteva un orco dopo l'altro ad ogni colpo. Eppure continuavano ad arrivare, e ad arrivare, finché anche la sua spada, pur se nelle mani di un tale guerriero, non poté più arginare la marea.

Boromir sollevò il corno per chiamare aiuto, e il suono riecheggiò contro il picco di Amon Hen scatenando il panico tra i nemici.

Gli orchi esitarono, dando loro tempo di ritirarsi tra gli alberi, mentre Boromir teneva gli hobbit dietro di sé proteggendoli con la sua imponente presenza. Ma l'aiuto non arrivava, e gli aggressori ritrovarono il coraggio. Boromir continuava a combattere senza sosta, instancabile.

Fino al momento in cui la prima freccia lo colpì, e Merry vide l'impossibile accadere.

Boromir vacillò.

Rimase in piedi, ma lasciò cadere la sua spada e barcollò, mentre il sangue sgorgava caldo e brillante dalla ferita. Merry afferrò la spada, pronto a gettarsi nella lotta, ma uno sguardo di Boromir lo fermò.


Il ricordo era così vivido che fu come se la freccia avesse colpito lui. La sconfitta nello sguardo di un soldato. Gli occhi di Boromir incontrarono i suoi per un terribile momento, poi l'uomo, con voce potente quanto il suono del suo corno, gridò:


"Fuggite! Fuggite finché potete!"


Merry scosse la testa, rifiutando di obbedire, ma Boromir non lo stava più guardando. Si era rituffato nella battaglia, la sua spada che volteggiava di nuovo spargendo morte tra i nemici.

"Prendi Pipino e fuggi!" aveva gridato di nuovo mentre combatteva.

E così Merry era fuggito. Aveva afferrato Pipino per un braccio, trascinandolo via dalla radura, e insieme avevano corso come se tutti i Nove Spettri fossero alle loro calcagna. Mentre si allontanava dalla battaglia aveva sentito il sibilo di un'altra freccia, il rumore sordo del dardo che andava a segno, e il ringhio di trionfo del capitano degli orchi, ma non si era voltato indietro a guardare. Se lo avesse fatto, non avrebbe più trovato il coraggio di andare avanti, e Boromir gli aveva detto di fuggire. E così era fuggito.

"Non avremmo dovuto andarcene", sussurrò Pipino, come se avesse letto nei pensieri di Merry.

"Cos'altro avremmo potuto fare?"

"Restare e combattere. Non era la prima volta che affrontavamo gli orchi. Perché mi hai costretto a scappare, Merry?"

Merry rabbrividì nuovamente, pieno di paura e di orrore per quello che aveva fatto. Pipino aveva ragione. Sarebbero dovuti restare, anche se avrebbe significato la cattura, o la morte. Il pensiero lo aveva tormentato fin dal momento in cui era ritornato alla radura con Legolas e Gimli, e Boromir non c'era più. Forse se fosse rimasto sarebbe morto. Ma almeno avrebbe potuto forse trafiggere un piede di un orco, ostacolare un colpo, o addirittura uccidere anche un solo orco per guadagnare un po’ di tempo, e permettere a Boromir di resistere fino all'arrivo di Aragorn. Perché Merry era sicuro che insieme, i due uomini avrebbero potuto tenere testa a qualunque esercito.

Invece era fuggito, prendendo con sé Pipino, e Boromir era caduto. Quando Aragorn era arrivato, aveva dovuto affrontare il nemico da solo. Ora entrambi gli uomini erano stati presi, e negli abissi della sua disperazione, Meriadoc Brandybuck incolpava se stesso del loro destino.

"Mi dispiace, Pip", disse piano, con la voce resa aspra dal pianto. "Mi dispiace".

Per alcuni momenti Pipino non rispose nulla, e Merry sentì le lacrime che cominciavano a scorrergli lungo le guance.

"Ah, saremmo riusciti solo a farci ammazzare, comunque. E siamo ancora in tempo, se mai li dovessimo raggiungere", squittì Pipino.

Merry non poté trattenere una risata. Per quanto si sentisse infelice, con Pipino era impossibile restarlo a lungo.

"Non temere" ribatté, "non li raggiungeremo mai, con un lumacone come te che ci fa da zavorra!"

Pipino sbuffò. "Non avrò le gambe lunghe degli elfi, ma sono sempre più veloce di te".

"Si, a correre a tavola, forse".

Merry non era dell'umore giusto per scherzare, e anche quel bonario punzecchiarsi gli suonava forzato, ma lo accettò comunque, come un segno che tutto andava bene tra loro. Rassicurato, si accoccolò di nuovo nell'erba, aspettando che la notte finisse. Non voleva riaddormentarsi di nuovo, non avrebbe sopportato un altro incubo. Avrebbe riposato ugualmente e guardato l'orizzonte a est aspettando di vedere i primi segni del giorno che spuntava.

Ma a dispetto delle sue risoluzioni presto il sonno lo vinse, e quando Legolas venne per svegliarlo gli sembrò che fossero passati soltanto pochi minuti.

"L'alba si avvicina", disse l'elfo, con il suo consueto tono calmo e impenetrabile, "dobbiamo riprendere l'inseguimento. Andiamo, Merry".

Pipino si mise seduto, sbadigliando e stropicciandosi gli occhi. "Che c'è per colazione?"

"Lo stesso che hai mangiato per cena", rispose Legolas.

"Lembas, acqua e male ai piedi", piagnucolò Pipino.

"Proprio così." Legolas gli offrì una mano per alzarsi, poi si rivolse a Gimli, in tono più grave.

"Il mio cuore mi mette in guardia. Ho il presentimento che gli orchi non si siano fermati per riposare, e che si stiano avvicinando sempre più a Fangorn".

"Allora è troppo tardi," ringhiò il nano, con gli occhi che ardevano di sfida, "ma dobbiamo tentare ugualmente".

"Dobbiamo". Legolas si voltò a guardare i due piccoli hobbit infreddoliti e corrugò la fronte.

"Non riusciremo mai a raggiungerli. Dobbiamo trovare il modo di aggirarli".

"E cosa proponi di fare? Assalire le mura di Isengard?"

"Sì, se non abbiamo altra scelta. Non conosco bene Saruman, e senza i consigli di Mithrandir non oso arrischiarmi a prendere il serpente per la coda. Ma di una cosa sono certo. Aragorn figlio di Arathorn non deve cadere nelle mani del nemico. Se dovesse arrivare a Orthanc dobbiamo trovare il modo di liberarlo, anche se questo significa assalire le mura".

Merry aveva ascoltato il dialogo in tetro silenzio fino alle ultime parole di Legolas, poi non poté più trattenersi. "E Boromir?" domandò.

Legolas lo guardò, sorpreso dal suo tono accusatorio. "Boromir? Anche lui è nelle mani degli orchi. Lo troveremo quando troveremo Aragorn".

"Parli come se Saruman fosse un pericolo solo per Aragorn…"

"Lo è, infatti", confermò Gimli.

"Ma cosa sarà di Boromir?"

Legolas lanciò a Merry uno sguardo così penetrante che a Merry sembrò che l'elfo potesse vedere attraverso di lui, leggendo tutta la vergogna e il dolore che erano nel suo cuore.

"Non lo so. Prima dobbiamo trovarli, poi lo scopriremo".

Pipino gettò via una foglia di Mallorn vuota e si scosse le briciole di lembas dalle dita.

"E allora cosa stiamo aspettando?" domandò, con impazienza.

Legolas sorrise, incamminandosi verso la traccia lasciata dagli orchi.

"Aspettavamo solo che gli hobbit finissero la colazione. Andiamo".

E così i quattro compagni ripresero la loro caccia.



*** *** ***


Quando Uglùk ordinò al gruppo di fermarsi Aragorn sospirò di sollievo. Il sole era quasi allo zenit, e avevano viaggiato praticamente senza sosta dal tramonto del giorno precedente. L'intero corpo gli doleva a causa della camminata sobbalzante dell'orco che lo trasportava, la ferita alla gamba bruciava ferocemente, e le costole rotte mandavano fitte di dolore ad ogni respiro. Ma la cosa peggiore di tutte era la sensazione di gelo nelle braccia. Si stava diffondendo, pungente come aghi, dai polsi legati su fino alle spalle, e le sue dita erano fredde e insensibili. Dal momento della cattura Uglùk non aveva permesso che gli fossero slegate le mani se non per i pochi momenti necessari a trangugiare un magro pasto. Durante quel periodo il sangue aveva smesso di arrivare alle sue mani, ed esse erano divenute un peso freddo e inutile contro la sua schiena.

Lugdush si fermò traballando e scaricò Aragorn dalla sua spalla, senza preoccuparsi di come poteva cadere. Aragorn toccò terra con la gamba ferita, e boccheggiando per il dolore, crollò sull'erba calpestata e annerita. Non tentò nemmeno di rialzarsi, ma rimase come era caduto, felice del contatto con la terra immobile sotto di lui, cercando di bandire il dolore dalla sua mente.
Sentendo i passi di un altro orco che si avvicinavano aprì gli occhi. L'orco stringeva in pugno la corda all'estremità della quale era legato Boromir. Quando raggiunse Aragorn l'orco si voltò e raccolse la corda, costringendo Boromir a fermarsi bruscamente stringendo il pugno attorno al cappio alla sua gola. L'orco diede un violento strattone, poi imprecando, spinse Boromir all’indietro di alcuni passi.

"Siediti, soldatino", sbottò l'Orco, "Meglio che ti riposi finché puoi, perché non trascinerò oltre la tua sudicia carcassa, per oggi".

Boromir, che non aveva mostrato nessuna reazione al rude trattamento dell'orco, si lasciò cadere al suolo accanto ad Aragorn. Non si mosse né parlò, nemmeno quando l'orco sfogò nuovamente il suo malumore sferrandogli un calcio nelle costole, ma rimase seduto a testa bassa, con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Aragorn non avrebbe saputo dire se stava aspettando qualcosa, nascondendo il suo viso e i suoi pensieri dagli occhi delle guardie, o se era semplicemente troppo esausto per muoversi. Era del tutto immobile, come chiuso in se stesso in qualche luogo dove né Aragorn né i suoi rapitori potevano raggiungerlo.

Aragorn lo aveva osservato durante la lunga e faticosa marcia dagli Emyn Muil. Boromir aveva percorso la maggior parte del tragitto camminando sulle proprie gambe, anche se gli orchi erano stati costretti a trasportarlo per brevi tratti, quando le forze gli mancavano e Uglùk non permetteva di fermarsi. Stranamente, Uglùk non aveva ritenuto necessario legargli i polsi. Aragorn ne aveva dedotto che gli orchi lo consideravano innocuo, e Boromir, nonostante stesse recuperando un po' delle sue forze grazie alla medicina di Uglùk, faceva il possibile per incoraggiare quell'opinione.

Aragorn non aveva dubbi che buona parte di quella debolezza fosse reale. Boromir aveva subito gravi ferite, che solo da poco erano state medicate e bendate, e aveva ricevuto un violento colpo alla testa che lo aveva lasciato privo di sensi per molte ore. Nel guardare il suo viso, una volta così orgoglioso e bello, Aragorn non poté evitare di rabbrividire, e ripensando al disastro causato dalla lama dell'orco gli salirono le lacrime agli occhi.

Boromir non ne parlava. Non una parola, non un gesto che si riferissero al massacro di carne e ossa frantumate che una volta erano stati il suo zigomo e il suo occhio destro, e alla brutta contusione che gli deturpava l'intera parte destra del viso, o alla benda insanguinata che gli copriva entrambi gli occhi. Aragorn non sapeva esattamente cosa nascondesse la benda, ma aveva visto il colpo che aveva abbattuto il guerriero, e sapeva che solo un miracolo avrebbe potuto salvare qualcosa dalla devastazione della spada di Lurtz.

Aragorn non sapeva che fare. Poteva commiserare l'amico per la sua sfortuna. Poteva chiedersi quali pensieri passassero per la mente di Boromir, mentre sedeva, immobile, sulle pianure di Rohan. Poteva cercare di capire la portata delle sue ferite e il dolore che gli causavano. Ma fino a quando quei pensieri e quel dolore fossero restati chiusi dietro il suo viso impassibile, Aragorn sapeva che non avrebbe avuto il coraggio di avvicinarglisi. Avrebbe aspettato e guardato, sperando che Boromir gli concedesse la fiducia di confidarsi con lui come aveva già fatto in passato.

Il Ramingo stava ancora tentando di stabilire quanto stremato e impaurito fosse in realtà l’amico, e quanto invece fosse uno stratagemma per tentare di liberarsi, quando i suoi pensieri furono interrotti dal ritorno di Lugdush alla testa di una rumorosa truppa di orchi.

"Ve lo dico io, ragazzi!" gridò allegramente Lugdush ai suoi compagni", il Gambelunghe si muoverà abbastanza in fretta, se gli diamo un buon motivo!"

Le guardie addette alla sorveglianza dei prigionieri guardarono dubbiosamente Lugdush, ma questi era il fidato luogotenente di Uglùk, e non osavano interferire con il suo divertimento.
Lugdush afferrò una lancia dalle mani dell'Orco più vicino e gettò un'occhiata ad Aragorn.

"In piedi!"

Aragorn guardò la punta dell'arma e si chiese quanto lontano Uglùk avrebbe lasciato andare la cosa, prima di intervenire. Lentamente, con il corpo che protestava ad ogni movimento, il Ramingo si girò sul lato destro per fare forza sulla gamba sana, e cercò di alzarsi. Lugdush rise forte, poi con una mano lo prese per i capelli e lo trascinò in piedi. Aragorn ricadde seduto appoggiandosi alla gamba destra, la sinistra stesa malamente in avanti, combattendo contro l'improvviso senso di vertigine che lo aveva colto.
Deridendolo, gli orchi applaudirono, pestando i piedi per il divertimento. Lugdush, incoraggiato dalle loro roche grida, cominciò a fintare colpi con la lancia, portandosi sempre più vicino al Ramingo, legato e inerme.

"Ho detto in piedi, pelle-bianca!"

Aragorn si irrigidì al contatto con la lama, ma riuscì a non urlare quando questa lacerò stoffa e pelle facendo scorrere sangue fresco lungo il suo fianco. Lugdush lo guardò, fintò di nuovo con la lancia, poi la spinse violentemente in avanti. Aragorn non poté farci niente. Cercò di schivarla, ma si procurò ugualmente un taglio all'altezza delle costole, quando la lancia scivolò tra il suo braccio e la sua schiena. Indietreggiò, e gli orchi scoppiarono a ridere nel vedere il sangue attraverso i suoi abiti laceri.

Con la lancia incastrata dietro la schiena, Aragorn barcollò e cadde. La punta della lancia si conficcò per terra, impedendo ad Aragorn di spostarsi e costringendolo a stare a faccia in giù nell'erba. Lugdush e Snaga si gettarono in avanti, tra le grida dei loro compagni, e afferrarono ciascuno un'estremità della lancia. Sollevando Aragorn in questo modo, lo costrinsero ad alzarsi in piedi.
Aragorn si sporse in avanti, per alleviare il dolore che lo attraversava dai polsi alle spalle, ma così facendo portò inavvertitamente il suo peso sulla gamba ferita. Il dolore divenne insopportabile, i muscoli si rifiutarono di sorreggerlo, e l'uomo si accasciò con un grido.

Per un momento fu colto dalla nausea, e la sua mente nuotò nell'oscurità, ai limiti dell'incoscienza. Ma poi un altro suono lo raggiunse, al di sopra dei frenetici ululati degli orchi, un suono che lo richiamò alla realtà nonostante l'invitante oblio, e lo costrinse ad aprire gli occhi.

Era Boromir, che gridava agli orchi la sua rabbia e la sua sfida. Sollevando la testa, Aragorn riuscì a mettere a fuoco la vista in tempo per vedere Boromir che si lanciava contro Lugdush, colpendolo al petto con una spallata.

"Fermati!" gridò Aragorn. "Boromir, fermati!"

Me nessuno gli prestò attenzione - né l'uomo né l'orco- e le grida eccitate degli spettatori sovrastarono le sue proteste. Lugdush ruggì infuriato e tentò di afferrare l'uomo tra le sue enormi mani, ma Boromir non gli diede il tempo di stringere la presa. Grazie ai suoi riflessi innati di soldato si abbassò schivando il braccio che tentava di colpirlo e si allontanò, dopo aver trovato e afferrato il pugnale che Lugdush portava in cintura.
Boromir si fermò a pochi passi dall'orco, brandendo con sicurezza il coltello, pronto all'attacco. Nonostante i vestiti laceri e sporchi, il sangue incrostato sul suo viso e la livida benda sugli occhi, Boromir sembrava esattamente quello che era - un guerriero. Feroce, orgoglioso e letale come gli eroi delle leggende.

"Se lo tocchi un'altra volta morirai" ruggì Boromir.

L'orco imprecò e sputò. "Romperò le tue gambe come bastoni e ti trascinerò per i piedi fino a Isengard, soldatino!"

Non aveva ancora finito di parlare che si lanciò contro l'uomo. La sua velocità era sorprendente, e prima che Aragorn avesse il tempo di gridare un avvertimento l'orco fu addosso a Boromir, facendoli finire entrambi a terra in una lotta furibonda. Gli orchi proruppero in un grido di esultanza, ma ammutolirono increduli quando Lugdush improvvisamente rotolò via da sopra Boromir con l'elsa del pugnale che gli sporgeva dal petto.

Gli orchi ulularono di rabbia, e si gettarono su Boromir in una zuffa impazzita e ringhiante che lo nascose completamente alla vista di Aragorn.

Il Ramingo cercò di rialzarsi, ma con la gamba ferita inerte sotto di lui, le braccia intorpidite e inutili, e la lancia che gli impediva il movimento, non poté fare altro che stare a guardare, cercando di vedere qualcosa in mezzo al groviglio formato dalle gambe degli orchi.

Un ruggito più forte degli altri annunciò l'arrivo di Uglùk. Si fece strada a spintoni nella mischia, agitando la frusta e imprecando contro chiunque si trovasse davanti. Gli orchi più piccoli si ritirarono velocemente, facendogli spazio, e Aragorn poté vedere che due orchi stavano bloccando Boromir al suolo e tentavano di tenerlo fermo, mentre l'uomo, con la forza della disperazione, si divincolava minacciando di liberarsi da un momento all'altro. In pochi passi Uglùk fu sopra di loro, dando un calcio alle gambe di Boromir e vibrando un colpo di frusta su tutti e tre i corpi indistintamente. Lo schiocco della frusta riportò il silenzio e l'immobilità.

"Fatelo alzare!" ringhiò Uglùk.

Gli orchi strisciarono velocemente via, preoccupati tanto della frusta del loro capo quanto dal prigioniero. Boromir con prontezza rotolò su un fianco per rialzarsi, appoggiandosi al suo braccio sano, ma Uglùk schioccò nuovamente la frusta, colpendolo sulle spalle, e sebbene gli abiti e la maglia metallica offrissero una qualche protezione, la violenza del colpo lo schiacciò a terra. Rimase così, ansimante, con il viso premuto contro il terreno brullo e l'erba calpestata, accontentandosi per il momento di aspettare.
Il capo degli orchi premette il suo enorme piede sulla spalla ferita di Boromir, bloccandolo efficacemente a terra, e si chinò su di lui sibilando, "Non sei tanto sveglio, eh, soldatino? Sono stato tanto buono da lasciarti le mani libere così che tu non cadessi a faccia in giù ad ogni radice, e tu come mi ripaghi? Infilzando uno dei miei ragazzi".

Uglùk fece un passo all'indietro per avere più spazio, poi lo colpì nuovamente. La frustata cadde di traverso sul viso di Boromir, aprendogli un profondo taglio sulla guancia. Boromir emise un grido soffocato, e si coprì il taglio sanguinante con la mano.

Uglùk rise malignamente.

"Questo è solo un assaggio di quello che ho serbo per te. ‘Portateli vivi’, ha detto, ma non ha specificato tutti interi, oh no. E io farò di te un bravo soldatino, dovessi lasciare pezzi della tua carne da qui fino a Isengard!"

Chinandosi ancora e abbassando la voce a un sussurro, aggiunse, "Prima o poi la Mano Bianca avrà finito con te, e allora tu sarai mio. Capito? Ma certo che non hai capito, razza di stupido, debole pelle-bianca, ma imparerai! Conoscerai il prezzo che si paga per avere ucciso un Uruk-hai".

Rivolgendosi all'orco più vicino ringhiò, "Legatelo! E fate in modo che gli faccia male!"

L'orco obbedì, legando Boromir con le braccia dietro la schiena senza troppe cerimonie, mentre un altro orco gli assicurava le caviglie. Quando ebbero finito, l'uomo era prostrato, immobile. Uglùk lo osservò con sospetto, poi lo prese per il mantello e lo trascinò accanto ad Aragorn. Gettandolo a terra con disprezzo fissò lo sguardo crudele sul Ramingo.

Chinatosi per raccogliere la lancia ancora incastrata tra le braccia di Aragorn, la rigirò portandone la punta davanti agli occhi furenti dell'uomo. "Hai intenzione di creare problemi anche tu?" domandò.
Vedendo che Aragorn non rispondeva, limitandosi a guardare Uglùk in silenzio, l'orco gli sollevò il mento con la lancia, premendo la lama contro la sua gola. Una goccia di sangue colò da sotto la lama, ma Aragorn ancora non tradiva alcuna emozione.

"Vi terrò d'occhio. E aspetto solo l'occasione di farvela pagare. Non crediate che un po' di frustate bastino per la morte di Lugdush, e non aspettatevi che io creda che sia stata solo un'idea del soldatino". Uglùk strinse gli occhi con aria astuta.

"Tu porti guai. Lo sento. Quell'altro uccide, ma anche tu porti guai".

Aspettò un altro po' che Aragorn rispondesse, poi mostrò le zanne gialle in un sorriso terrificante e ringhiò, "Sei troppo furbo, per i miei gusti. E hai gli occhi di un dannato elfo".

Sputò con gesto eloquente nella polvere, poi si allontanò a grandi passi, gridando alle guardie, "Niente cibo per loro! Teneteli legati finché non gli si staccano le mani! E se muovono un muscolo, pestateli!"

Aragorn rimase in silenzio, impassibile, finché Uglùk non fu scomparso in mezzo alla folla di orchi e solo le guardie rimasero a sorvegliarlo. Poi, cautamente, rotolò su un fianco, voltandosi verso la figura inerte di Boromir.

"Sei uscito di senno?" sussurrò con veemenza. Boromir non si mosse, ma Aragorn capì che lo stava ascoltando.

"Avresti potuto farti ammazzare, per un gesto di stupido coraggio".

Quando Boromir rispose, la sua voce era bassa ma piena di rabbia. "Avresti dovuto fuggire quando ne hai avuta la possibilità".

"Tu non hai ucciso quell'orco per permettermi di fuggire". Non era una domanda, ma un'affermazione, piena di incredulità.

"Forse. In parte". Boromir esitò, con un'espressione sinistra in viso, al di sotto della maschera di sangue e lividi, poi ripeté, "Avresti dovuto correre".

"Non posso correre. Non posso nemmeno camminare. E non ti lascerò qui".

Boromir non disse nulla, ma la sua amarezza era quasi palpabile.

"Ci sarà un'altra occasione", insistette Aragorn, sommessamente, "e se non ci sarà, allora affronteremo la morte come abbiamo affrontato la vita, con onore".

"Io non ho onore".

"Ti sbagli. La tua colpa è già stata perdonata da tempo, Boromir. Come posso fartelo capire?"

"Non chiedo il perdono, ma solo la possibilità di riparare almeno in parte al danno che ho commesso".

"E devi morire per farlo?"

"Non desidero morire. Non si tratta di morte, o di onore. È che… " Si interruppe, a Aragorn vide che lottava per trovare le parole giuste per esprimere i suoi pensieri.

Quando finalmente parlò, la sua voce non era che un flebile sussurro, e Aragorn dovette sforzarsi per udirlo.

"Per tutta la vita ho guardato mio padre governare Gondor dal seggio del Sovrintendente, mentre il trono restava vuoto dietro di lui. Per tutta la vita non ho desiderato altro che servire la mia terra, la mia città, il mio popolo, in tutti i modi in cui mi era dato farlo. Ma il trono… il trono resta sempre vuoto, a ricordare che io, mio padre e mio fratello non siamo abbastanza. Noi lottiamo, combattiamo e moriamo affinché gli altri popoli vivano nell'innocenza, al sicuro dalla grande Ombra, eppure non siamo degni di governare come re.

So che la mia nascita non è alta abbastanza da darmi il diritto al trono. Lo so. Ma è soltanto il mio lignaggio che manca, non il mio spirito. E se l'amore per un popolo può fare di un uomo un re, allora Gondor ha un re".

"Gondor ha un grande difensore, che egli porti la corona o no", mormorò Aragorn.

"Non più. Sono finito. Ma anche adesso posso vibrare un colpo per la mia gente. Posso mandare loro il campione di cui hanno bisogno, mandare loro un re! Per nascita, per diritto e per valore, tu sei il Re di Gondor, Aragorn".

Aragorn lo guardò pieno di stupore, meditando sul dono che gli era stato fatto. Non era l'offerta di sacrificare una vita per la sua libertà che lo commuoveva - il suo senso dell'onore e la situazione non avrebbero permesso un tale scambio - ma il dono più grande del rispetto e dell'accettazione di Boromir. Solo quando Boromir lo aveva chiamato Re, Aragorn aveva capito quanto avesse desiderato la sua stima. Ma ora che l'aveva ottenuta, la disperazione che aleggiava nelle sue parole rendeva il trionfo amaro.

"Noi due cavalcheremo verso la Città Bianca insieme", disse Aragorn con fermezza, "e insieme condurremo il nostro esercito contro il Nemico".

"E' il tuo esercito, ora".

"Se devo governare Gondor, avrò bisogno del mio Sovrintendente accanto a me".

"Denethor è il Sovrintendente di Gondor, e Faramir dopo di lui. Io non siederò mai nel seggio di mio padre".

"Allora non avrò alcun Sovrintendente".

Boromir si voltò verso Aragorn, colpito, e fece per parlare, ma Aragorn lo anticipò.

"Un re deve essere circondato da persone di cui si fida, e io non voglio alcun altro alla mia destra per consigliarmi. Io ti giuro, Boromir, sul sangue di Isildur e Elendil che scorre nelle mie vene, e sull'amore che ho per il mio popolo, che ci sarà un solo Sovrintendente a Gondor, fino a che io sarò Re. Tu sarai il mio Sovrintendente, o nessun altro".

Ora fu il turno di Boromir di cadere in un attonito silenzio. Giaceva col viso rivolto verso l'alto, e Aragorn non riusciva a decifrare l'espressione sui suoi lineamenti insanguinati. Solo il suo respiro rapido tradiva l'effetto delle parole di Aragorn su di lui. Infine, con una voce che non riuscì a nascondere la sua emozione mormorò,

"Potresti rimpiangere questo giorno".

"Sì. Rimpiango di non essere fuggito quando ne avevo la possibilità".

Boromir sorrise e fece per rispondere, ma un improvviso tramestio tra gli orchi li distrasse entrambi, e Aragorn si voltò per cercare la causa della confusione.

Diversi orchi stavano correndo per la zona sud del campo, mentre altri si alzavano in piedi e afferravano le loro armi. Un grido si levò dalle sentinelle esterne.

"Pelle-bianca! I cavalieri ci hanno scoperto!"

La potente voce di Uglùk si levò sulle altre, urlando. "Restate fermi, sono solo in due! Aspettate che assaggino le frecce degli invincibili Uruk-hai!"

Una pioggia di frecce si abbatté sui cavalieri che si avvicinavano. Uno cadde di sella, tra le grida di gioia degli orchi, ma l'altro voltò il suo cavallo e si allontanò al galoppo verso sud. Gli orchi scagliarono un'altra inutile scarica di frecce dietro di lui, finché Uglùk li fermò con un grido.

"Basta frecce, maledizione! Se ne è andato! Se non raggiungiamo la foresta prima che quei maledetti ci raggiungano siamo nei guai! In piedi!" Si fece strada tra la massa agitata e ululante di orchi, dando calci a tutti quelli che ancora sedevano sull'erba e colpendoli con la fusta.

"Su, razza di lumache, se ci tenete alla pelle!"

In mezzo al caos e alle grida gli orchi si mossero con velocità frenetica. Si alzarono in piedi, raccolsero le armi e l’equipaggiamento e seguirono gli esploratori di corsa, via dall'accampamento. Mani di ferro afferrarono i due prigionieri e li issarono senza tanti riguardi sulle spalle di due orchi vicini. Poi l'intera massa di orchi si mise in marcia correndo in una fila disordinata verso la lontana ombra della fitta foresta. Tenevano le teste abbassate e le loro possenti gambe si muovevano senza sosta con un ritmo instancabile, brutale, divorando leghe e leghe sotto di loro. Uglùk veniva per ultimo, con la frusta che mordeva i calcagni dei ritardatari e la sua voce che incitava i primi del gruppo.


"Muovetevi, canaglie! Correte! Correte o morirete!"

 

 

 

Continua...

  
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