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Autore: Alaska__    18/07/2014    10 recensioni
Rivolse la sua attenzione agli schermi posti sul muro, dove venivano proiettate le immagini dei ventiquattro tributi che salivano nell’Arena. Osservò i loro volti, Seneca, uno ad uno. C’era chi era sicuro di sé, chi un po’ meno, chi del tutto terrorizzato. Una cosa in comune, però, l’avevano: sarebbero tutti caduti, uno dopo l’altro, come dei soldatini. E anche il vincitore non sarebbe mai stato libero, ma semplicemente un giocattolo in mano alla Capitale, per sempre.
«Prima di iniziare, volevo dirvi: buon lavoro», esclamò Seneca. «E che i settantaduesimi Hunger Games abbiano inizio».

I settantaduesimi Hunger Games sono ormai alle porte. Tutto è pronto. Capitol City è in fermento, gli Strateghi sono seduti ai loro monitor, pronti a cominciare il loro lavoro. Mancano solo i ventiquattro tributi e toccherà a voi scegliere chi saranno.
Genere: Drammatico, Guerra, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovi Tributi, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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O1 ~ La parola più difficile da dire è “addio” – parte 1


 

 
 I. Luxury
 
 Durante le Mietiture, al Distretto 1 risplendeva sempre il sole, quasi l’estrazione dei tributi fosse una festa. D’altronde, era il momento più atteso da tutti, quello. I giovani si preparavano per offrirsi volontari, i mentori erano pronti a far vincere i loro protetti – cosa che capitava spesso, in un Distretto Favorito come quello.
Cashmere accavallò le gambe, sistemandosi la gonna del suo nuovo vestitino che si era fatta recapitare personalmente da Capitol City. Lo aveva disegnato la sua ormai ex-stilista, che da sempre creava degli abiti meravigliosi per mettere in risalto le qualità della Vincitrice.
Sorrise, scrutando le facce quasi contente di tutti i ragazzi stipati sotto il palco. C’era stata anche lei lì sotto, nemmeno dieci prima. Comprendeva benissimo i sentimenti di quei giovani: lei aveva smaniato pur di offrirsi volontaria, come tutte le ragazze della prima fila, le quali apparivano pronte a scattare quando Lucille avrebbe fatto la fatidica domanda.
Suo fratello Gloss le posò una mano sulla coscia, avvicinando il volto al suo orecchio. «Ti diverti, sorellina?» chiese, alludendo al sorriso che ostentava la Vincitrice. Cashmere annuì, sistemandosi i riccioli biondi.
«Sono molto incuriosita, a dire il vero» rispose, attorcigliando una ciocca di capelli intorno al dito. «Voglio proprio vedere chi si offrirà volontario quest’anno».
Gloss rivolse uno sguardo carico di attesa agli aspiranti tributi, osservando attentamente chi era posizionato sotto il palco. Di solito, erano quelli delle prime file – ovvero i diciottenni e i diciassettenni – ad offrirsi volontari.
«Spero qualcuno di competente» ribatté l’uomo, inarcando un sopracciglio. «Non abbiamo avuto molta fortuna, in questi ultimi anni» fu il suo amaro commento. In effetti, dopo Cashmere non vi erano più stati vincitori, al Distretto 1. Al contrario, il Distretto 4 era riuscito a trionfare ben tre anni e questo era considerato una specie di vergogna. Erano orgogliosi, gli abitanti del primo Distretto.
«Forse è meglio concentrarsi sulla Mietitura» suggerì Cashmere, indicando Lucille, la quale aveva appena estratto il bigliettino riportante il nome del tributo femminile. Gloss si appoggiò allo schienale della sedia, non prima di rivolgere un sorrisetto alla sorellina.
Cashmere si concentrò sui movimenti di Lucille, che, nel frattempo, si era avvicinata al microfono con aria contenta.
«Un nome bello lungo» commentò, dopo aver dato un’occhiata all’identità del tributo. Si schiarì la voce, prima di leggere il nome: «Uriel Rhaenys Ingrid Elyse Lanair». L’escort alzò lo sguardo verso il pubblico, inarcando le sopracciglia come a voler chiedere conferma di aver letto correttamente.
Cashmere posò una mano sul braccio del fratello, lanciandogli uno sguardo interrogativo. Aveva già sentito parlare di una certa Lanair. A dire il vero, tutto il Distretto 1 conosceva lei e la sua tremenda storia.
La famiglia Lanair era una delle più ricche del Distretto, prima di venire praticamente sterminata. La causa del devasto era proprio lei: Uriel. Si diceva che avesse ammazzato le sue due sorelle e  suo fratello, nonché sua madre, morta nel darla alla luce. Suo padre l’aveva abbandonata nella loro villa, prima di compiere l’ultimo atto: il suicidio.
Cashmere ricordava vagamente la casa dei Lanair: un tempo doveva essere stata una splendida abitazione, ma gli anni e il fatto che fosse quasi disabitata l’avevano resa ormai decadente.
Uriel si avvicinò al palco a pugni stretti, con un’espressione arrabbiata in volto. Era di certo una ragazza che non passava inosservata – il che non aveva fatto altro che aumentare le dicerie sul suo conto. Già i suoi capelli erano strani: li portava lunghi solo dal lato sinistro, mentre quello destro presentava una corta peluria nera. E non era finita lì: se sul lato destro i capelli erano neri, su quello sinistro erano bianchi, candidi come la neve che cadeva ogni inverno al Distretto 1. Anche questa strana peculiarità aveva fatto sì che Uriel avesse un soprannome: Bianca. Era conosciuta da tutti così, un po’ per i suoi capelli, un po’ perché era considerata come l’Anticristo – il che si ricollegava ad alcune storie religiose, tramandate di generazione in generazione, secondo le quali era esistito, un tempo, un cavaliere, detto appunto Cavaliere Bianco e considerato da tutti come colui che si opponeva al Salvatore.
«Benvenuta, Uriel!» la accolse Lucille con il suo consueto sorriso, che la ragazza non ricambiò. «Vorrei solo chiederti se ho letto il tuo nome nella maniera giusta».
Uriel le lanciò uno sguardo arrabbiato e i suoi occhi grigi parvero trapassare la capitolina da parte a parte. «Non vuoi davvero conoscere il mio nome» rispose, lasciando Lucille di stucco.
«D’accordo… credo», l’escort scosse la testa, prima di rivolgersi nuovamente al pubblico. «Allora, c’è qualche volontario?»
Un grave silenzio cadde sulla piazza. Coloro che erano già pronti ad offrirsi volontari non alzarono la mano, osservando il palco con aria quasi strafottente. Gli uomini che avevano scommesso, come ogni anno, rimasero zitti, con i loro fogli in mano.
«Suppongo che non ci sia nessuno» commentò Lucille, abbassando notevolmente il tono di voce. «Quindi, credo sia ora di estrarre il nostro cavaliere, giusto?»
Andò verso la boccia contenente i nomi dei maschi, per tornare dopo pochi secondi. Aprì il foglietto quasi di fretta, prima di leggere il nome del maschio: «Edric Peasley!»
Il ragazzo appena estratto sembrava più normale, rispetto ad Uriel. I suoi corti capelli biondi parevano quasi rilucere sotto i raggi del sole, mentre si avviava al palco in modo composto e con un sorrisino stampato in volto. Appariva più bendisposto di Uriel, ma Cashmere vide qualcosa di ambiguo nel suo comportamento, forse nel sorriso, che era piuttosto tirato.
«Benvenuto, Edric!» lo salutò Lucille, posandogli una mano sulla spalla, non appena il ragazzo si posizionò accanto a lei.
«La ringrazio per il cortese benvenuto, Lucille» disse Edric.
«Abbiamo un vero cavaliere, qui!» esclamò la donna, sorridendo a trentadue denti. «E dunque vi chiedo: c’è qualche coraggioso ragazzo che vuole offrirsi vol-». Lucille fu bruscamente interrotta da Edric, che portò una mano dinnanzi al microfono, per non farla parlare. Un gruppo di ragazzi abbassò la mano, vedendo il cambiamento improvviso della Mietitura.
«Ringrazio tutti voi per la gentile offerta, ma nessuno si sacrificherà al mio posto, quest’anno» disse Edric, posizionandosi davanti al microfono. Lucille riprese il possesso dell’oggetto, spostando il ragazzo con una mano.
«Ti vedo ben deciso, Edric. Vuoi dire qualcosa al pubblico?» chiese l’escort. Il ragazzo scosse la testa con aria indifferente.
«Avrei molti argomenti da esporre a Capitol City, ma mi limiterò a dire che trovo ridicoli gli Hunger Games. Poteva fare di meglio, presidente Snow» esclamò Edric, con un mezzo sorriso sarcastico, sotto gli occhi attoniti di Lucille, la quale si sbrigò a porre fine a quella Mietitura. Nessun volontario per il Distretto 1 equivaleva ad una vera umiliazione.
«Signore e signori, i tributi del Distretto 1: Uriel Rhaenys Ingrid Elyse Lanair e Edric Peasley!»


 
 
Uriel
 
Uriel tamburellò nervosamente con le dita sul davanzale della finestra, che dava proprio sulla piazza del Distretto 1. Era un bel posto, quello: grande, circondato da palazzi molto eleganti e da botteghe dalle vetrine allettanti, che parevano proprio invitare i visitatori ad entrare. La diciottenne c’era stata poche volte, in vita sua – o almeno, negli ultimi sette anni, poiché vi era andata solamente per partecipare alle Mietiture.
Un sorrisetto sarcastico si formò sul suo volto, nel ripensare a pochi minuti prima.
Se lo aspettava. Sapeva che nessuno si sarebbe mai offerto per lei, la reietta del Distretto 1. Tutti la volevano vedere morta e Uriel era conscia di tutto ciò.
Anche in un Distretto come il primo, dove li addestravano anni per vincere gli Hunger Games, la giustizia era una cosa importante. Sembrava proprio che quel giorno, gli abitanti si fossero messi d’accordo per porre fine a tutta quella storia.
I Lanair erano ormai andati, morti, perduti. Tutti a parte una: Uriel Rhaenys Ingrid Elyse, la figlia più piccola, quella nata per errore – o per miracolo come sosteneva suo padre nei primi tempi. Tuttavia, anche lui aveva abbandonato il piccolo miracolo, svuotando la sua elegante villa di tutto: inservienti, animali, lui stesso.
Uriel osservò attentamente il suo riflesso nel vetro della finestra e toccò la parte destra del cranio, coperta da una peluria nera. La accarezzò piano, sentendo che i capelli iniziavano già a ricrescere. Una volta giunta a Capitol City, avrebbe dovuto farli tagliare. Non voleva che quella sua parte oscura la tormentasse ancora di più. Avrebbe dovuto sopprimerla per l’ennesima volta, lasciando lunghi solo i suoi capelli bianchi – la sua parte buona.
La porta che dava nella stanza si aprì in maniera quasi brusca, obbligando Uriel a voltarsi.
«Vieni» ordinò secco un Pacificatore, facendole cenno di uscire. La diciottenne si avviò verso il soldato, con un sospiro.
Nessuno era andato a trovarla.
 


 
Edric
 
Accarezzò la copertina di un libro quasi dolcemente, beandosi della sensazione donatagli da quel semplice tocco. Era una cosa che gli accadeva spesso, quando stringeva un libro tra le mani. Amava avere un volume con sé – fosse esso un grosso tomo o un libriccino di piccole dimensioni.
Edric – da tutti detto Ric – aveva provato una strana felicità, nell’entrare nella stanza designatagli al Palazzo di Giustizia. Tutte le pareti erano coperte da mobili alti fino al soffitto, colmi di libri. Curioso e desideroso di distrarsi, Ric ne aveva preso uno, dando una breve lettura alla prima pagina. Non era nulla di nuovo: il solito libro sulla creazione di gioielli. Il Distretto  1 era pieno di volumi del genere e – dopo gli anni passati a sentire quelle cose a scuola – Edric ne aveva fin sopra i capelli. Oltretutto, suo padre e suo fratello lavoravano in una ditta che si occupava della creazione di monili preziosi per Capitol City.
Il biondo si affrettò a rimettere il volume a posto, sentendo delle voci fuori dalla stanza. Fece appena in tempo, poiché la porta si spalancò subito e i suoi famigliari fecero il loro ingresso. In testa c’era David Peasley, suo padre. A vederli, nessuno avrebbe mai detto che fossero padre e figlio. Erano molto diversi fisicamente, loro due. David era moro e aveva profondi occhi scuri, mentre Ric aveva una folta capigliatura bionda e occhi verdi, leggermente a mandorla.
Nel vedere il figlio, David lo strinse a sé, senza dire neanche una parola. Edric ricambiò la stretta, cercando di non piangere – cosa che stava facendo invece suo padre, come vide dopo che il loro abbraccio fu sciolto.
«Mi dispiace tanto, Ric» mormorò l’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. «Fa’ di tutto per tornare. Non posso perdere anche te» continuò, e nell’ultima parte della frase la sua voce si abbassò notevolmente. Edric chinò il capo. Sua madre era morta ormai da tempo, ma il suo ricordo era vivo più che mai, all’interno della famiglia Peasley.
«Ci proverò, papà» promise il ragazzo, sforzandosi di mostrare un atteggiamento sicuro di sé.
David lasciò il posto a Edwyn, il fratello maggiore di Edric. Anche lui non assomigliava molto al tributo. Aveva fortuna, lui. Invece, Ric era stato appena scelto per partecipare agli Hunger Games. Ecco perché Edwyn era chiamato da tutti Win vincere.
Inaspettatamente, il ragazzo abbracciò Edric. Il biondo ne rimase piacevolmente sorpreso e strinse suo fratello con ancora più vigore. Edwyn era sempre stato un duro, uno che non abbracciava quasi mai i suoi famigliari. Nemmeno quando erano piccoli lo aveva mai stretto, a parte una volta: al funerale della madre.
Edric ricordava tutto di quel giorno, ogni particolare. Pioveva, o meglio, diluviava, e il ticchettio prodotto dalle gocce di pioggia che cadevano sul legno della bara era quasi fastidioso. Edwyn lo teneva per le spalle, mentre la cassa veniva calata nella terra. Abigail – la sua sorellina – era appena nata e sua madre era morta proprio nel darla alla luce. L’infante piangeva, stretta tra le braccia del padre. Anche Edric piangeva, proprio come lei, suo padre e suo fratello. La pioggia non aveva mai cessato per tutto il giorno, né per quello seguente. Aveva smesso di piovere solo una settimana dopo, quando suo padre aveva ricominciato – anche se forzatamente – a sorridere, contagiando Ric e Edwyn. Quello era stato anche il giorno in cui Abigail aveva fatto per la prima volta un verso simile ad una risatina.
Ricordava tutto, Edric. Ogni cosa.
Suo fratello sciolse l’abbraccio in silenzio, lasciando però le mani sulle spalle di Edric – proprio come durante il funerale. «Vinci, Ric. Sei un geniaccio, ce la puoi fare» sussurrò, avvicinando il volto a quello del fratello, prima di andarsene e lasciare che Abigail lo abbracciasse.
La piccola appariva molto confusa e si guardava in giro con aria disorientata.
«Che succede, Ric?» chiese, e la sua vocetta tremava per lo spavento. Edric le carezzò i capelli castani, dolcemente.
«Il tuo fratellone parte, Abigail. Partirò per un viaggio di molti giorni, ma tornerò» spiegò, abbassando sempre di più il tono di voce. «Tornerò» ripeté, come a volersi convincere di quell’eventualità.
«E me lo porti un regalino?» chiese la piccola, allargando le braccia. Edric rise, prendendola in braccio e roteando su se stesso. Abigail si divertiva sempre, quando faceva così.
«Ti porterò un meraviglioso dono» promise Edric, mettendola di nuovo a terra.
«Me lo prometti, Ric?»
Il ragazzo fece un respiro profondo. Non poteva promettere certe cose, ma guardando il volto di Abigail, decise che ne valeva la pena.
«Te lo prometto». Allungò il mignolo della mano destra, mostrandolo alla sorellina. La piccola ridacchiò, facendo lo stesso. Lo avvicinò al dito del fratello, stringendolo. Era un gesto che facevano sempre, quando Edric doveva prometterle qualcosa di importante.
Forse – pensò Ric, vedendo il sorriso di Abigail – ne valeva davvero la pena.



 
 
 
II. Masonry
 
Al suo fianco, Enobaria continuava a chiacchierare amabilmente con Brutus, sfoderando, di tanto in tanto, il suo spaventoso sorriso dai denti appuntiti. Era un anno importante per lei, quello: il decimo anniversario della sua vittoria. Lyme era sicura che la sua collega avrebbe fatto di tutto pur di vincere. Era dalla sessantaduesima edizione che un tributo del Distretto 2 non vinceva e i cittadini iniziavano a sentirsi poco appagati. Era ciò che ci si aspettava da un Distretto Favorito: vittorie costanti.
La bionda vincitrice dei sessantunesimi Hunger Games si sistemò meglio sulla sedia, slacciandosi il primo bottone della sua camicia bianca e facendosi aria con una mano. Faceva veramente caldo, quel giorno, nonostante l’aria di montagna mitigasse decisamente tutta quella calura.
«Io e Brutus stiamo scommettendo su chi si offrirà quest’anno». Enobaria aveva avvicinato il volto a quello di Lyme, sussurrando queste parole. La bionda sorrise, lanciando un’occhiata al pubblico.
«E dunque chi pensate saranno i nostri tributi?» chiese, allungandosi un po’ per guardare in faccia anche Brutus.
«Sicuramente non il figlio di Nick King» rispose Enobaria, indicando con il capo il vincitore dei quarantesimi Hunger Games. «Ma per come gli è andata l’ultima volta, direi che sarebbe meglio non mandare anche il suo secondogenito». Sorrise di nuovo, sfoderando i suoi denti chirurgicamente modificati a Capitol City. Quell’anno li avrebbe di sicuro messi in bella mostra.
Brutus aveva iniziato a sghignazzare e anche Lyme si costrinse a fare un sorrisetto. Si girò verso Nick, che stava chiacchierando con uno dei consiglieri distrettuali. Quell’uomo aveva costretto il proprio figlio ad offrirsi volontario, alcuni anni prima, ma questi era morto e nel momento in cui nessuno si aspettava l’omicidio di un Favorito: durante il Bagno di Sangue. Il ragazzo del Distretto 7 gli aveva mozzato la testa in meno di un minuto.
«Spero per lui che gli vada meglio con il secondo figlio» sospirò Lyme, tornando a rivolgersi ad Enobaria.
«Anche se perdesse, non mi dispiacerebbe» mormorò quest’ultima, prima di essere interrotta dalla voce di Zoe, l’accompagnatrice del Distretto 2.
«Questo è ormai il quinto anno che sono l’accompagnatrice di questo Distretto e sono fiera di dirvi quanti tributi valorosi ho incontrato, durante il mio lavoro. Certo, sono morti tutti, ma avevano coraggio da vendere, per questo sono fiera di lavorare al Distretto 2» disse la escort, gesticolando in maniera quasi compulsiva. Era un vizio di Zoe che Lyme non sopportava: muoveva sempre, ossessivamente, le mani, quando parlava. Inoltre, i suoi capelli erano legati in tante treccine nelle quali erano infilate delle campanelle, quindi, il suo arrivo era sempre annunciato da un fastidio scampanellio.
«Come sempre, prima le signore!» annunciò la capitolina, prima di pescare un foglietto. «Lauren Colfer!» chiamò.
Dalla fila delle diciassettenni uscì una ragazza, con un largo sorriso soddisfatto in volto. Tuttavia, esso si spense subito non appena arrivò al palco e vide una mano svettare verso l’alto, più veloce delle altre.
«Sembra proprio che abbiamo una volontaria! Vieni pure, tesoro». Dalla medesima fila si levò una ragazzina. A differenza di Lauren, quest’ultima era decisamente bassa e minuta. Aveva un viso piccolo, incorniciato da lunghi e lisci capelli biondi. Non era di certo il genere di volontaria che ci si aspettava, a giudicare dal suo aspetto fisico così fanciullesco.
«Come ti chiami?» domandò Zoe, porgendole il microfono.
«Petra Kill» rispose quest’ultima, e il suo tono di voce tradiva tutta la sua determinazione.
«Bene! Dopo la coraggiosa uscita di questa giovane, direi di procedere con l’estrazione del tributo maschio». L’accompagnatrice andò ad estrarre il nome del maschio, quasi cadendo a causa dei vertiginosi tacchi che indossava. «Edgar King!» chiamò.
Lyme si voltò subito verso Nick, il quale si era sporto leggermente in avanti per vedere l’arrivo del suo ultimogenito. L’uomo strinse le labbra e Lyme sapeva benissimo il perché: voleva che Edgar si offrisse volontario l’anno dopo.
Tuttavia, anche questa volta una mano svettò verso l’alto, indicando che un ragazzo voleva offrirsi volontario.
«Meraviglioso!» commentò Zoe, quasi sillabando la parola. «Un altro volontario! Vieni pure».
Mentre Edgar tornava al suo posto, un ragazzo si fece avanti. Era molto alto e ben piazzato. I suoi capelli rossi spiccavano in mezzo alla folla, grazie anche alla sua altezza. Un’altra cosa che colpiva molto era il tatuaggio che si intravedeva sulla sua mano: un orologio che segnava le otto in punto, dal quale si levavano delle fiamme che coprivano gran parte dell’avambraccio. Il tatuaggio doveva sicuramente continuare, ma il resto del disegno era coperto dalla manica della sua camicia.
«Il tuo nome?» chiese la capitolina, quando il giovane le si affiancò.
«War». Zoe gli lanciò uno sguardo piuttosto incuriosito. Scosse la testa e i campanellini tintinnarono.
«Non esiste nessuno con questo nome» rilevò, aggrottando la fronte. «Qual è il tuo nome?»
«War. Solo War» rispose il ragazzo, fulminando la capitolina con lo sguardo.
Lyme osservò la scena senza battere ciglio. Aveva già visto quel ragazzo all’Accademia, alcuni anni prima, ma era ormai tempo che non lo vedeva. Sapeva solo che era un tipo molto combattivo e spesso era al centro delle risse all’Accademia. Nessuno conosceva il suo vero nome: tutti lo chiamavano War. Giravano anche delle strane voci su di lui: si diceva che dovunque andasse portasse il caos, che dovunque passasse succedesse qualcosa di grave. Il suo passato era misterioso e nessuno lo conosceva. Tutti gli abitanti più ribelli, però, lo prendevano come un modello di riferimento da cui prendere esempio. Girava anche la voce che avesse combinato un disastro con una dinamite.
La voce di Zoe riscosse la Vincitrice dai suoi pensieri.
«Un bell’applauso per i coraggiosi volontari del Distretto 2: Petra Kill e… War» esclamò, indugiando sul nome del ragazzo.
 


 
Petra
 
Petra giocherellò distrattamente con una ciocca di capelli, intrecciandola e poi sciogliendola.
Le sue labbra si incurvarono in un sorrisino compiaciuto.
Ce l’aveva fatta. Si era offerta volontaria dopo tanto tempo che aspettava.
Erano anni che si allenava per questo – anche se non seriamente, visto che i primi anni di Accademia li aveva passati senza impegnarsi granché. Era stato l’incontro con Reace a cambiarla. Lui era un buon combattente e l’amore che Petra aveva provato nei suoi confronti aveva fatto sì che anche lei volesse essere così. Tuttavia, Reace non era più con lei: se n’era andato al Distretto 8, inseguendo il suo sogno di diventare un Pacificatore.
Petra strinse i pugni, ricordando il dolore provato quando lui le aveva annunciato la nefasta notizia. Era stato quello l’episodio scatenante della sua voglia di partecipare agli Hunger Games: voleva dimostrare a Reace che anche lei poteva far male alle persone, proprio come lui ne aveva fatto a lei.
Sospirò. Meglio non pensare a tutto ciò. I suoi famigliari sarebbero entrati da un momento all’altro e lei voleva mostrarsi contenta e felice. Era anche per loro che si era offerta volontaria: voleva renderli fieri di lei, per ringraziarli di averla accudita per anni come una figlia.
Petra non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Era stata per anni con sua madre, ma lei era morta durante gli Hunger Games, diversi anni prima. Le aveva lasciato solo la sua sorellina, Makaira. Entrambe erano state adottato dallo zio Bloodbath, che le aveva accudite per anni come due figlie – facendo anche loro credere di esserlo. La bionda provava ancora del risentimento poiché suo zio non le aveva mai rivelato la verità, ma gli voleva ancora bene come prima – forse anche di più, visto che era appena un adolescente quando aveva deciso di prenderle con sé.
Entrarono tutti dopo qualche secondo. La famiglia era al gran completo: c’erano i suoi zii – Bloodbath e Skyler – sua sorella Makaira e i suoi cugini Telos, Aiskune, Milites e Feast – quest’ultima aveva appena due anni e portava il nome della madre di Petra. Una caratteristica comune a tutti i membri della famiglia erano i nomi piuttosto sfortunati. Sembrava quasi un’usanza macabra, ma tutti venivano chiamati in un modo che richiamasse la morte. Il nome di Petra, ad esempio, significava morte da una pietra. Ecco perché la ragazza non amava come venivano chiamati i membri della sua famiglia: sembravano quasi un cattivo presagio.
I suoi famigliari parevano tutti molto contenti e fieri di lei. Suo zio continuava a sorridere e fu il primo ad abbracciarla.
«Complimenti, siamo fieri di te!» si congratulò, dandole una poderosa pacca sulla schiena. Skyler fu decisamente più delicata, ma la sua felicità e la soddisfazione erano evidenti. Petra sentì il cuore gonfiarsi dalla gioia: era quello che voleva, rendere fieri i suoi zii. Era anche un modo per ringraziarli e vederli così contenti non poteva che renderla felice.
L’abbraccio con sua sorella Makaira fu molto dolce e tenero. La ragazza era evidentemente commossa, ma felice. Petra le sorrise, un po’ malinconica. Era l’unica sorella che aveva, anche se il padre – con ogni probabilità – non era nemmeno lo stesso. Nonostante la ragazza preferisse sfogarsi con Telos – suo cugino undicenne – il rapporto con Makaira restava sempre speciale.
Telos le saltò praticamente addosso, stringendola a sé mentre rideva. «Le hai fregate tutte!» esclamò, alludendo al fatto che la mano di Petra era stata la prima a svettare verso l’alto, di modo che fosse scelta come volontaria.
«Visto?» La ragazza gli scompigliò i capelli chiari, facendogli l’occhiolino. Telos ridacchiò, dandole una spintarella.
«Adesso vedi di vincere, però» si raccomandò, prima che sua sorella Aiskune lo spingesse da parte per salutare Petra. La piccola la abbracciò in silenzio, ma con il sorriso sulle labbra. Milites sembrava più spaventato, ma anche lui era comunque contagiato dalla gioia dei genitori e i fratelli. Era ancora piccolo e non capiva bene cosa stesse facendo sua cugina – o, come lui credeva, sua sorella.
«Cosa vai a fare, Petra?» chiese infatti, guardandosi intorno con aria stranita.
«Vado via per qualche settimana» rispose la bionda, carezzandogli una guancia.
«A fare che?»
«A… giocare». Non sapeva come spiegargli la questione degli Hunger Games: Milites era piccolo e si sarebbe spaventato.
«Divertiti anche per me, allora!» esclamò il bambino. Petra rise, beandosi dell’ingenuità del suo cuginetto.
Infine, andò a salutare Feast, la più piccola di casa, di appena due anni. Nel vederla, sentì la malinconia prendere possesso del suo animo: quella piccina aveva lo stesso nome di sua madre, che lei non aveva fatto in tempo a conoscere.
Non appena Petra entrò nel suo campo visivo, la bambina allungò le manine verso di lei e Skyler – che la teneva in braccio, cullandola dolcemente – gliela porse tra le braccia. Petra la cullò per qualche secondo, sorridendole.
«Ciao, Feast» la salutò poi, posandole un bacio in fronte. «Ci vediamo presto».
La sua famiglia uscì in un coro di saluti, lasciando entrare Emelìne, la sua migliore amica. Fisicamente erano entrambe molto simili, ma le somiglianze si fermavano qui. Emelìne aveva i capelli acconciati in una cascata di rasta e il suo stile era – come lo definiva lei – hippie. Vederla la prima volta poteva dare l’impressione sbagliata, in quanto Emelìne appariva piuttosto strana, ma Petra sapeva che poteva fidarsi di lei. Le era stata accanto praticamente tutta la vita.
Non appena mise piede nella stanza, la strinse forte, senza dire una parola. Dopodiché, sciolse l’abbraccio e le porse un bigliettino.
«Cos’è?» domandò il tributo, inarcando un sopracciglio. Emelìne fece spallucce.
«Potresti aprirlo, così lo scopri» suggerì, con aria ironica. Petra scosse la testa in un atteggiamento di finta indignazione, per poi aprire il bigliettino – perfettamente piegato a metà. Non vi era disegnato nulla, ma in mezzo spiccava la scritta colorata buona fortuna, sicuramente fatta da Emelìne, considerando quanto strana fosse la calligrafia. Tutt’intorno vi erano le firme delle loro amiche.
Petra rimase in silenzio per qualche secondo, osservando, con aria commossa, quel piccolo pensiero. Non era molto, ma la faceva sentire bene, in forza, in pace con se stessa. Con l’appoggio delle sue amiche e della sua famiglia, tutto sembrava più facile, persino vincere gli Hunger Games.
«Adesso non piangere, però». Emelìne l’abbracciò una seconda volta, dandole anche un piccolo bacio sulla guancia. «Fa’ la brava, nell’Arena» sussurrò, prima di sciogliere l’abbraccio e posarle le mani sulle spalle. «Intesi?»
Petra fece una risatina. «Intesi. Fa’ la brava anche tu. E salutami tutte».
E in quel momento, tutto le parve meravigliosamente bello. Aveva il supporto di tutti coloro a cui voleva bene: nulla sarebbe potuto andare storto.


 
 
 
Warner
 
Warner Krig Razlad – o meglio War – stava in piedi al centro della stanza, con le braccia incrociate al petto. Non aspettava nessuno perché sapeva che nessuna persona aveva il desiderio di vederlo. Lui era War, colui che portava scompiglio dovunque si recasse e non di certo una persona piacevole da avere accanto.
L’unica che sarebbe potuta andare a trovarlo era Rosary.
War scosse la testa, cercando di allontanare quel pensiero. Non nutriva alcun desiderio di vederla. Era stata lei a farlo finire nella fauci del Drago – una setta di cui, per qualche tempo, era stato adepto.
Tuttavia, era stata sempre la stessa Rosary ad accoglierlo quando Soleil – la donna con la quale lui aveva vissuto per anni – non lo voleva. Era stata Rosary a trattarlo, finalmente, come un figlio, come una creatura da accudire. Lei aveva sognato per lui un futuro più roseo, al contrario di Soleil.
War sapeva, in cuor suo, che Rosary gli voleva bene. Era forse una delle poche persone a cui lui piacesse veramente. Nella sua vita, lei gli aveva fatto tanto bene quanto male. Nonostante non fossero parenti, lei lo aveva accolto, nutrito, cresciuto. Tutto finché suo marito non era morto. Era stato allora che era nata la nuova Rosary, una donna logorata dal desiderio di vendetta e dalla rabbia – un po’ come lui, in fondo. La rabbia era ormai la sua migliore amica.
Fu infatti la donna che andò a trovare Warner. Entrò nella stanza, sempre stringendo la sua amata Bibbia al petto. Era un antico tomo religioso che lei si portava sempre appresso, specialmente dopo la morte di suoi marito – avvenuta a causa di un gruppo di ribelli. Aveva subito un grave periodo di traviamento, dopo quell’orribile evento, tanto da entrare nella setta del Drago dell’Apocalisse, nella quale aveva trascinato anche War.
Lui non avrebbe mai voluto farne parte. Ecco perché non nutriva un gran desiderio di vedere Rosary: era anche colpa sua se si era offerto volontario. Se non lo avesse fatto, lo avrebbero di sicuro giustiziato per l’assassinio del sindaco del Distretto 2, avvenuto poco tempo prima.
Rosary lo abbracciò e, anche se freddamente, Warner ricambiò, posandole le mani sui fianchi.
«Andrà tutto bene» sussurrò la donna, posandogli una mano su una guancia.
«Ci saranno tanti altri ragazzi allenati quanto me» ribatté War, indietreggiando di poco. Rosary rimase ferma a guardarlo, prima di aprire il suo libro in un punto che sembrava già segnato.
«Potrebbero esserci delle persone importanti» sussurrò, tanto che Warner temette di aver capito male. Persone importanti? A chi si riferiva precisamente? Lui di persone importanti non ne aveva mai incontrate e, di sicuro, nell’Arena non avrebbe trovato degli amici.
«Persone imp-»
«Ci sarà gente di cui potrai fidarti» lo interruppe Rosary, con gli occhi puntati sul suo libro. Leggeva a bassa voce, in un mormorio sommesso. War si avvicinò di qualche passo, cercando di capire cosa stesse dicendo.
«Fidarmi?» domandò retorico, aggrottando la fronte in un’espressione confusa. Rosary smise di leggere e alzò il capo, fissandolo negli occhi. Sembrava quasi spiritata, in quel momento, con gli occhi sgranati e l’aria sognante, come se avesse appena avuto una visione.
«Ascoltami attentamente» ordinò Rosary, alzando il dito indice della mano destra con aria solenne. War stette in silenzio, per la prima volta attento a ciò che diceva la donna. Di solito, non ascoltava mai mentre Rosary leggeva: non capiva molto ciò che era scritto nella Bibbia. Era complicato e – per certi versi – strano, ma la donna era quasi innamorata di ogni frase, ogni lettera presente in quel volume.
«Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: “Vieni”. Allora uscì un secondo cavallo, rosso fuoco» fece una pausa, alzando per un istante il volto dalle pagine del libro, per guardare War negli occhi. Quasi senza pensarci, il ragazzo portò una mano ai suoi capelli rosso fuoco. Rosary tornò a rivolgere la sua attenzione alla Bibbia, con aria quasi famelica. «A colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada».
Questa volta, la mano di War corse alla sua gamba, per toccare la spada. Era sua, la sua inseparabile compagna. L’aveva nascosta sotto i pantaloni lunghi, di modo che nessuno – in particolare i Pacificatori – la notasse. Non gli avrebbero nemmeno permesso di avvicinarsi al palco, spaventati che avrebbe potuto ammazzare qualcuno.
Aveva anche un nome, quella spada: Chaosworth. L’aveva trovata nella stanza di Devin, il marito di Rosary e suo padre adottivo per qualche tempo. Era ormai un’amica, per lui. Combattere con quell’arma era quasi un’azione abituale. Era parte di lui, quando lottava con Chaosworth si sentiva imbattibile.
Lanciò un’occhiata a Rosary, piuttosto sorpreso da ciò che la donna aveva appena letto. Quel pezzo della Bibbia sembrava parlare di lui. Il rosso erano i suoi capelli, la spada era Chaosworth. E anche l’altra frase – il potere di togliere la pace dalla terra – sembrava parlare esattamente di lui. Era un riassunto della sua vita, quello: dovunque andasse, la pace spariva.
«Che altro dice?» domandò, indicando il libro con un cenno del capo. Si era improvvisamente incuriosito, riguardo a quella storia. Voleva saperne di più, conoscere più a fondo la storia del Cavaliere e, soprattutto, sapere chi fossero quei fantomatici alleati a cui Rosary alludeva poco prima.
«Il Cavaliere Rosso aveva anche degli alleati» mormorò la donna, chiudendo di botto il libro.
«E chi erano?»
La loro conversazione fu interrotta da un Pacificatore che spalancò la porta bruscamente. «Tempo» annunciò, con tono quasi seccato.
Rosary guardò per un’ultima volta Warner, allungandosi per stringergli la mano. Poi uscì, lasciando il ragazzo con mille dubbi.


 

 
III. Technology
 
Beetee si sistemò nervosamente gli occhiali dalla grossa montatura, che poco prima erano scivolati lungo il suo naso. Nel compiere quel semplice gesto gli tremavano le mani – indice dell’ansia che da quella mattina non lo aveva lasciato in pace. Era sempre così, durante le Mietiture. Essere mentore non aveva di certo semplificato le cose. Pareva quasi che l’agitazione provata da tutta la folla di ragazzini si trasmettesse in mille altre direzioni, colpendo anche chi non c’entrava direttamente con l’estrazione dei tributi.
L’uomo si passò una mano sul mento, carezzando la sua corta barba nera. Osservò attentamente i ragazzi stipati sotto il palco. I loro volti erano simili nella loro diversità. Poteva essere un’affermazione molto stramba, ma Beetee, in tanti volti dai diversi lineamenti, vedeva sostanzialmente le stesse cose: paura, ansia, turbamento. I volti dei ragazzi della prima fila apparivano leggermente più speranzosi, considerato che quella era la loro ultima Mietitura. Se solo Janis non avesse estratto il loro nome, loro sarebbero stati liberi. Liberi di vivere in pace, senza paura. Beetee inarcò un sopracciglio. Senza paura? Di sicuro no: quella li avrebbe sempre perseguitati per anni e anni, quando anche i loro figli sarebbero stati estraibili.
Con un sospiro, il Vincitore si voltò verso Wiress, che sedeva alla sua destra  con aria composta. La donna fissava Janis, che continuava a saltellare da una parte all’altra del palco, eccitata dall’imminente estrazione.
Beetee rivolse nuovamente la sua attenzione alla capitolina. Nonostante tutto, Janis non era una cattiva donna. Era solo la sua educazione a renderla così strana.
«Scopriamo subito chi sarà il nostro tributo femmina!» trillò l’escort, stringendo tra le mani un foglietto di carta, pescato poco prima dall’ampolla posta alla destra del palco. Era piegato in due, così la donna dovette aprirlo – e lo fece con una lentezza esasperante.
«Storm Harper!» esclamò tutta gioiosa, levando il capo e osservando con un sorriso a trentadue denti le ragazzine. Non che Janis sorridesse poco: un esperimento chirurgico effettuato alcuni anni prima aveva fatto sì che le sue labbra fossero sempre rivolte all’insù, in un perenne sorriso.
Nel frattempo, dalla fila delle sedicenni uscì una ragazzina, dai lunghi e ondulati capelli corvini. Era minuta, tanto che Beetee ebbe l’impressione che potesse cadere, nel camminare verso il palco. Oltretutto, il cognome Harper gli era familiare. Rifletté per un istante, mentre Storm si avvicinava alla scaletta.
Harper.
Deena Harper. Il nome si formò nella mente del Vincitore proprio nel momento in cui Storm giunse accanto a Janis, sorridendo al pubblico. Non era un vero sorriso, quello. Appariva più un ghigno cattivo, come se la ragazzina nascondesse qualcosa.
Beetee ricordò. Gli Harper erano stati oggetti delle chiacchiere del Distretto 3 per parecchio tempo, alcuni anni prima. Si diceva che Deena Harper, la madre, avesse tentato di uccidere la figlioletta, il cui nome era Storm, come la ragazzina che era stata appena estratta. Di Deena Harper non si parlava più da un po’. Dopo quell’episodio, era fuggita e si erano perse le sue tracce. Aveva lasciato soli una figlia, un figlio e il marito.
«E ora, il tributo maschio!» annunciò Janis, risvegliando Beetee. L’uomo si sistemò gli occhiali per la seconda volta, mentre l’escort annunciava il nome del tributo. «Raiden Gordon» chiamò, e da una delle prime file – quella dei diciassettenni – si staccò un ragazzo dai corti capelli rossi. Raiden camminava a testa alta, senza degnare di uno sguardo i suoi compagni. Beetee credeva di non averlo mai visto in giro, ma rimase colpito dalla noncuranza con cui si avvicinò al palco, quasi non volesse dare la soddisfazione a qualcuno di vederlo triste.
«I tributi del Distretto 3!» esclamò Janis, battendo le mani, dopo che Raiden le si posizionò a fianco. «Fate un bell’applauso per Storm Harper e Raiden Gordon!»


 
 
Storm
 
La sedicenne si sedette sulla poltroncina, accarezzando il pregiato tessuto che la ricopriva. Storm provò a indovinare cosa fosse. Velluto? Seta? Cotone? Non se ne intendeva di tessuti – del resto, veniva dal Distretto 3. Qualunque cosa era però meglio che pensare a cosa era appena accaduto.
Il suo nome.
Janis aveva chiamato lei.
Portò una mano al volto, tirando indietro i lunghi capelli neri che le erano finiti davanti agli occhi. Abbassò lo sguardo, fissando con insistenza le sue scarpe, delle ballerine nere – un piccolo regalo di suo fratello Devon.
Pensare a suo fratello le fece sentire una fitta al cuore. A suo padre non importava nulla di lei, non più, dopo che sua madre se n’era andata e lui aveva scaricato la colpa di tutto ciò sulla figlia minore. Ma Devon era diverso. Lui teneva a Storm, l’aveva praticamente cresciuta e, persino in quei mesi in cui si era dovuto occupare della moglie incinta, non aveva smesso un attimo di curarla – anche se con meno frequenza rispetto ai mesi precedenti.
Doveva essere disperato – si disse Storm – e vederlo entrare nella stanza non fece che alimentare le sue supposizioni. Nessuno si sarebbe mai aspettato che un ragazzo grande e grosso come Devon Harper potesse piangere, eppure le lacrime rigavano il suo volto, scendendo copiose.
Storm si alzò dalla comoda poltrona, andandogli incontro. Gli cinse la vita con le braccia e lui ricambiò la stretta, carezzando i capelli della sorella – corvini come i suoi. Storm si sentì protetta tra quelle braccia forti. Ormai era Devon suo padre, non più Deniel Harper.
I due fratelli sciolsero l’abbraccio, in religioso silenzio, così che Storm poté rivolgere la sua attenzione a Denise, la moglie di Devon. Il pancione spuntava da sotto la sua maglietta a righe, facendo intendere che la donna doveva partorire di lì a pochi mesi.
«Mi dispiace» mormorò Denise, abbracciando Storm. Anche lei piangeva, ma rispetto al marito appariva più composta e la sua voce tremava appena. Storm annuì semplicemente, senza sapere cos’altro dire. Prese per mano suo fratello, sorridendogli. Devon ricambiò, anche se in modo stentato.
«Devi tornare» sussurrò.
«Ci proverò».
«No. Devi. Io e Denise vogliamo farti conoscere la tua nipotina». Devon lanciò un’occhiata intenerita a Denise, che carezzò delicatamente il suo pancione. Storm posò una mano sul ventre della donna e sentì un movimento all’interno.
«Scalcia» spiegò Denise. «Sente che la sua zietta la sta ascoltando».
«Volevamo chiamarla come te» si intromise Devon, cingendo il fianco della moglie con un braccio, ma senza staccare la sua mano da quella della sorella. «Vogliamo chiamarla come te. L’idea era di tenertelo nascosto fino al parto, ma…» si interruppe, senza riuscire più a continuare.
Storm si sentì improvvisamente felice, come non le succedeva da anni. Era una delle cose più belle che le avessero mai detto e sentì una strana determinazione pervaderle il corpo. Doveva tornare. Per sua nipote. Per Storm Harper, la bambina con il suo stesso nome.
«Grazie» sussurrò, prima che un Pacificatore condusse Devon e Denise fuori dalla stanza.
Storm rimase sola, sicura che nessun’altro sarebbe entrato. Invece, la porta si aprì, consentendo l’accesso a suo padre, Deniel Harper. L’uomo entrò insicuro, guardandosi intorno con nervosismo, con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni. Dopodiché, sembrò accorgersi della figlia e rimase a fissarla.
Storm si chiese cosa fosse venuto a fare lì. Aveva passato anni ignorandola, lasciandola da sola, alle cure di suo fratello più grande. E ora era in quella stanza, con l’aria di un cane bastonato. Non riuscì a provare rancore nei suoi confronti, Storm. Era semplicemente un uomo distrutto dalla depressione della moglie, caduta in quel terribile vortice di disperazione proprio appena dopo la nascita della figlia più piccola.
«Scusa» esordì l’uomo, prima di andarle incontro e stringerla in un abbraccio forte. Non parlarono, durante quell’incontro. Tre minuti non sarebbero bastati a raccontare gli avvenimenti e i sentimenti di una vita intera.
E a Storm andava bene così perché finalmente aveva un altro motivo per tornare a casa.


 
 
 
Raiden
 
Fuori dalla stanza poteva ancora udire la voce eccitata di Janis, che continuava a ciarlare di come fosse andata quella Mietitura.
«Hai visto con che ardore sono saliti sul palco i nostri tributi? Mi sembrano agguerriti!» esclamò, parlando forse con il sindaco o qualche suo amico capitolino.
Raiden scosse il capo, cercando di non pensare a quanto disgustosi fossero gli abitanti di Capitol City. Agguerriti? Ma dove li aveva visti agguerriti? Certo, lui era salito sul palco con fare molto deciso, ma la realtà era un'altra. Lui era spaventato a morte e sapeva che nemmeno la sua intelligenza lo avrebbe aiutato tanto a fargli passare quella sensazione.
Decise di ingannare il tempo pensando a qualcosa che non fosse l’imminente arrivo dei suoi genitori. Provò a immaginare come dovesse essere l’Arena di quell’anno. Una landa ghiacciata? Un’isolotto senza nulla nel mare aperto? Sperava che non fosse nulla di troppo malvagio. Ricordava che, qualche anno prima, i tributi erano stati costretti a combattersi l’un l’altro in una landa desolata, piena di scorpioni e altri ibridi poco simpatici.
Raiden aveva passato anni progettando arene. Casa sua era piena di modellini plastici che rappresentavano ogni volta un luogo diverso. Per ogni tipologia, poi, aveva stilato anche una possibile strategia.
Arena boscosa significava nascondigli dietro gli alberi o tra i cespugli, quindi maggiore probabilità di sopravvivenza.
Arena acquatica significava sei fregato, Raiden. Lui, infatti, non sapeva nuotare. Nessuno sapeva fare ciò, al Distretto 3. Non c’erano laghi. In generale, non c’era natura, solo fabbriche.
Arena innevata significava possibile morte a causa del freddo. Raiden era già abituato alle temperature non troppo elevate. Gli inverni al Distretto 3 erano abbastanza freddi, quindi qualche possibilità di resistere avrebbe potuto averla.
Stava giusto pensando a come doveva essere trovarsi in un’Arena piena di caramelle, quand’ecco che sua madre e suo padre fecero capolino nella stanza. Le loro reazioni furono proprio come Raiden si aspettava. Sua madre era in lacrime, disperata all’idea di perdere il suo unico figlio. Nel vederlo, si gettò subito addosso a lui, stringendolo tanto forte da strozzarlo.
«Mi ammazzi, mamma» commentò Raiden, in un tentativo di non apparire troppo scosso o spaventato. La donna allentò un poco la presa, continuando però a fare ciò che Raiden più odiava al mondo: gli carezzava i capelli. Il tributo alzò gli occhi verso il soffitto della stanza. Di norma, lui non permetteva a nessuno di toccargli i capelli. Gli dava fastidio. Ma la mamma è sempre la mamma, e Raiden glielo permetteva. Era sempre estremamente protettiva nei suoi confronti, il che era comprensibile, visto che era il suo unico figlio e visto che aveva faticato non poco a darlo alla luce.
Il padre di Raiden – un uomo freddo, dall’aria calcolatrice – gli diede semplicemente una pacca sulla spalla. Nonostante il suo aspetto chiuso e burbero, si vedeva la sua sofferenza, nei suoi occhi blu identici a quelli del figlio.
«Vinci, figliolo» si raccomandò, senza aggiungere altro.
«Lo farò» promise Raiden, con un sorriso stentato stampato in volto. Rivolse poi la sua attenzione alla madre, che continuava a singhiozzare con le mani premute sul volto.
«Non voglio crederci» mugolò la donna. Raiden la strinse forte, tentando, in qualche modo strano, di consolarla.
«Non preoccuparti, mamma. Posso vincere. E in caso io muoia…» fece una pausa, cercando di non pensare a quella tragica eventualità. «In caso io muoia, non preoccuparti» riprese. «La morte è una costante della vita. Niente andrà perso, i morti danno ossigeno alla vita, facendo attecchire le radici degli alberi, facendo crescere l'erba. La morte è la normalità e in quanto tale non dobbiamo averne paura».
Il suo primo pensiero fu: “come diavolo mi sono uscite queste parole dalla bocca?”
Sua madre alzò lo sguardo, smettendo per un attimo di singhiozzare. «Raiden, ma che cavolo dici?» domandò, facendo una risatina isterica che contagiò anche il tributo.
«Non lo so neanche io, mamma, ma, come vedi, hai smesso di piangere».
Prima che se ne andassero, Raiden pregò che sua madre si ricordasse quelle parole, in caso di morte.




 
IV. Fishing
 
Finnick passò una mano tra i suoi capelli, cercando di dar loro una forma decente. Quel giorno non volevano proprio saperne di stare a posto e il vento, che da quella mattina infuriava al Distretto 4, non era certo di aiuto. Sospirando, si appoggiò allo schienale della sedia, mentre Katryn continuava a parlare e a raccontare di quanto fosse onorata di essere l’accompagnatrice di un Distretto importante come quello dei pescatori.
Sentì le dita di qualcuno infilarsi tra le sue. Si voltò verso la ragazza alla sua destra. Annie guardava fisso davanti a sé, con lo sguardo perso sulla superficie del mare. Finnick strinse la mano della Vincitrice dei settantesimi Hunger Games, cercando di tranquillizzarla. Sapeva che quel tentativo sarebbe stato vano: lui stesso era agitato come il mare, quel giorno.
Mentre Katryn si avvicinava all’ampolla contenente i nomi delle femmine, il ventunenne si voltò verso Connor, il  suo migliore amico e Vincitore dei sessantottesimi Hunger Games, alla disperata ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi. Il ragazzo girò leggermente la testa verso di lui, sorridendo.
Nel frattempo, la capitolina leggeva il primo nome, quello del tributo femmina. «Kayla Carter!» esclamò a gran voce. Dalla folla emerse la figura di una ragazzina e Finnick sentì il cuore sprofondare. Kayla era piccina, sicuramente aveva dodici anni. Si avvicinò al palco, con le gambe che le tremavano e il volto che era una maschera di terrore. Katryn l’accolse con un gran sorriso che parve spaventare ancora di più la piccola. Finnick non la biasimò: quell’anno, Katryn aveva deciso di vestirsi completamente di nero e aveva aggiunto un nuovo accessorio alla sua già stramba mise. Si trattava di un paradenti – ovviamente nero, quindi pareva che i denti della capitolina fossero marci.
«C’è qualche volontaria?» chiese l’accompagnatrice, con una mano sulla spalla di Kayla. Da una delle prime file, Finnick notò una mano che svettava. Sentì per un istante il cuore che diventava più leggero, alla vista del sorriso trattenuto della piccola Kayla.
La giovane volontaria iniziò a dirigersi verso il palco. Era sicuramente una che si faceva notare, questo Finnick doveva ammetterlo. Non era una folgorante bellezza, non aveva nulla di strano, se non le dimensioni. Quella ragazza sfiorava sicuramente i due metri e, a vederla, non pareva per nulla femminile, se non per i suoi lunghi capelli biondi, che cadevano sul suo volto a coprirle l’occhio destro.
«Come ti chiami, tesoro?» domandò Katryn, visibilmente incuriosita dalla mastodontica volontaria.
«Olivier Milla Armstrong» rispose quella, con lo sguardo rivolto laddove finiva la piazza del Distretto 4.
«Bene!» trillò l’escort, battendo le mani. «Fate un bell’applauso alla nostra Olivier…»
«Catherine!» L’incitazione della capitolina fu interrotta dalla possente voce di Olivier. Katryn guardò la ragazza, indietreggiando visibilmente spaventata. Ma la giovane non ce l’aveva con lei, bensì con qualcuno in mezzo alla folla, considerato che il suo unico occhio non coperto dai capelli era rivolto agli aspiranti tributi.
«Non piangere!» urlò Olivier. Finnick – quasi senza accorgersene – si fece piccolo piccolo sulla sedia, spaventato da tanta veemenza e dalla voce della ragazza, che sicuramente si era udita fino in fondo alla piazza, nonostante non avesse usufruito del microfono.
Dopo un istante – durato il tempo che a Katryn passasse lo spavento – fu annunciato anche il nome del tributo maschio, Ansel Diesel.
Il ragazzo – dai capelli castani lunghi fino alle spalle e un abbigliamento poco consono alla Mietitura – si diresse verso il palco con la mascella serrata e l’aria arrabbiata. L’escort lo accolse con il consueto sorriso, ma lui la fulminò con lo sguardo.
«C’è qualche volontario?» domandò la donna, per la seconda volta. Ancora, dalla prima fila, una mano svettò verso l’alto. Era quella di un diciottenne dalla tipica pelle abbronzata degli abitanti del quarto Distretto e i capelli castani tagliati corti.
Finnick si immobilizzò sulla sedia.
Lo conosceva.
Tutti i Vincitori lo conoscevano perché vivevano con lui al Villaggio dei Vincitori. Istintivamente, il ventunenne si voltò verso una donna, seduta a poca distanza da lui: Talilah. Aveva vinto qualche anno prima di lui, ma non ricordava l’edizione precisa. L’aveva conosciuta, negli anni. Era una donna deliziosa, ma aveva un piccolo problema: gli uomini. Andava con moltissimi di loro – spesso anche per volere del Presidente Snow. E a causa di quello, nessuno sapeva chi fosse il padre di suo figlio.
Nel vedere ciò che aveva fatto il ragazzo, Telilah portò una mano dinnanzi alla bocca, soffocando un grido. Conn posò una mano sulla sua schiena, in un inutile tentativo di tranquillizzarla, mentre il ragazzo saliva le scale che portavano al palco.
Finnick tornò a rivolgere la sua attenzione ai tributi, aggrappandosi al bracciolo della sedia. Ecco perché non gli piacevano le Mietiture: potevano esserci degli spiacevoli inconvenienti – come i volontari non previsti che lasciavano a bocca asciutta i propri parenti.
Al Vincitore non sfuggì l’occhiata di disappunto di Olivier, nel vedere il ragazzo che si offriva volontario. Quell’espressione, però, svanì subito dal suo volto. La ragazza fece spallucce e tirò fuori, da una tasca dei pantaloni, una fiaschetta, da cui si mise a bere sotto gli occhi stupiti della povera Katryn.
Scuotendo il capo, la capitolina tornò a rivolgersi al volontario, in piedi accanto a lei.
«Come ti chiami?» chiese, con un nero sorriso stampato in volto.
«Holand Gage» fu la secca risposta del ragazzo, che si voltò verso i Vincitori, lanciando uno sguardo triste alla madre.
«Un bell’applauso per i nostri tributi dal Distretto 4: Olivier Milla Armstrong e Holand Gage!» esultò Katryn, ponendo finalmente fine a quella settantaduesima Mietitura.


 
 
 
Olivier
 
Olivier – o meglio, Olly, come i suoi parenti la chiamavano – stava in piedi, accanto alla verde poltroncina di velluto presente nella sala al Palazzo di Giustizia nella quale i Pacificatori l’avevano accompagnata. La sua entrata in quell’aula sarebbe stata comica, vista dal di fuori: un’enorme ragazza bionda, accompagnata da due soldati che parevano bambini, confrontati con lei.
Di certo, la grande mole di Olly non era una peculiarità tutta sua, come dimostrò poi l’entrata dei suoi parenti. Gli Armstrong erano conosciuti al Distretto 4 proprio per quella loro altezza quasi esagerata, ma non solo. I genitori – Gargantos e Maria – facevano, infatti, parte dell’esercito e pareva che quel lavoro si rispecchiasse anche sul comportamento dei figli. Non era raro vederli camminare quasi a passo di marcia, facendosi largo tra la folla della scuola grazie alla loro enorme mole.
Gli Armstrong entrarono tutti insieme. In testa c’era Catherine, la più piccola tra i fratelli – la ragazzina a cui Olly si era appellata durante la Mietitura. Nonostante la sua giovane età – dodici anni – la più piccola di casa Armstrong presentava già il tipico fisico della famiglia, anche se, come spesso Olivier doveva ammettere, era l’unica che apparisse veramente carina.
Non appena misero piede nella stanza, Olly portò una mano tesa alla fronte, poco sopra al sopracciglio, nel tipico saluto militare che i genitori le avevano insegnato da piccola. Era un gesto che si usava molto nell’esercito, per salutarsi tra soldati, le avevano spiegato.
I genitori ricambiarono il saluto, portandosi in prima fila. Dopodiché, rimasero tutti fermi, ad osservarsi in silenzio. L’occhio sinistro di Olivier – l’unico da cui vedeva bene – si posò per un istante sulla sorella minore, Stronger. Era anche per lei che si era offerta volontaria, non solo per la gloria personale. La secondogenita della famiglia Armstrong – infatti – aveva intenzione di offrirsi volontaria. Ma aveva solo quindici anni ed erano pochi per compiere quel gesto. Per questo, Olly aveva deciso di offrirsi, nonostante sapesse i rischi e nonostante il suo handicap – la ragione per cui teneva sempre un ciuffo di capelli biondi dinnanzi all’occhio destro, da cui non vedeva più. O almeno, vedeva solo ombre, il resto era tutto confuso.
«Avanti, abbracciatemi pure!», ordinò dopo un istante, con un sorrisino che le incurvava le labbra. Le sue sorelle e suo fratello sorrisero di rimando, facendosi avanti, felici. La prima a stringersi a lei fu Amue, sua sorella gemella. Nonostante e loro somiglianze, Olivier e Amue erano facili da distinguere: la prima era di circa cinque centimetri più alta, con un fisico più possente, mentre la seconda era magra. Inoltre, Amue non portava il fatidico ciuffo di capelli dinnanzi all’occhio destro.
L’abbraccio di sua sorella Stronger fu una specie di stritolazione. Olivier sapeva – in cuor suo – che la quindicenne non era realmente arrabbiata con lei. Quell’abbraccio così forte era semplicemente una conseguenza del suo fisico quasi maschile e, per quanto fosse più bassa della sorella maggiore, era davvero forte.
Dell’unico fratello di Olly – Alex Louis – tutto si poteva pensare, tranne che avesse quattordici anni. Ma Alex era un Armstrong e, come tale, la sua altezza era esagerata. Come il padre, il quattordicenne superava i due metri ed era cresciuto ad una velocità incredibile. L’abbraccio con Olivier fu molto dolce, ma anche molto soffocante.
Infine, arrivò Catherine. La sua stretta fu molto più debole di quella delle sorelle e di Alex e, finalmente, quello sarebbe potuto sembrare un abbraccio vero.
Olivier prese il volto della sorellina tra le mani, fissando i suoi occhi in quelli della dodicenne.
«Non mostrarti mai debole, Catherine. Mi raccomando» disse con aria severa, ma il sorriso che spiccava sul suo volto tradiva l’affetto nutrito nei confronti della sorellina. La piccola annuì, con gli occhi ancora lucidi dal pianto di prima.
Il bussare alla porta costrinse gli Armstrong a girarsi. Un Pacificatore fece capolino. «Tempo» annunciò.
Olivier sospirò, mentre tutti si voltavano verso di lei.
«Buona fortuna, Olivier!» esclamò suo padre, portando la mano alla fronte per fare il saluto militare, imitato dalla moglie.
«Torna vincitrice» si raccomandò quest’ultima. Olivier ricambiò il saluto.
«Contateci» disse, mentre tutti si dirigevano all’esterno. Prima di uscire, Catherine si voltò per salutarla con la mano e Olly ricambiò, sorridendole.
Quando finalmente la porta fu chiusa, la giovane rovistò nella tasca dei pantaloni, tirando fuori la sua inseparabile fiaschetta per bere un sorso.
“Felici Hunger Games” pensò, quasi facendo un finto brindisi.
 


 
Holand
 
Il diciottenne tamburellò nervosamente con le dita sul davanzale della finestra – dalla quale si poteva vedere, in lontananza, il mare. Aspettava con ansia l’arrivo di sua madre, anche se non avrebbe voluto vedere il suo volto spaventato. Non le aveva detto che si sarebbe offerto volontario. Non l’aveva detto a nessuno, a dire il vero. L’unica ad averlo intuito doveva essere stata Olivier, vista la sua faccia durante la Mietitura e considerato che era l’unica a sapere di cosa accadeva nell’animo di Holand.
Appoggiò la fronte al vetro della finestra, sospirando. Due settimane. Poi avrebbe vinto e sarebbe finito tutto. Morte o vita non facevano differenza. Avrebbe smesso di soffrire in ogni caso.
Il rumore della porta che si apriva lo distrasse. Si voltò. Sua madre era lì, con il volto umido dalle lacrime e i capelli biondi spettinati. Non appena il Pacificatore chiuse la porta dietro di sé, la donna corse incontro al figlio, gettandogli le braccia al collo. Holand cinse la vita della madre, inspirando a fondo l’odore che emanavano i suoi capelli. Era un buon profumo. Sapeva di casa, sapeva di affetto. Nonostante tutto, Holand adorava sua madre. Poteva anche non essere quel che si dice una madre perfetta, ma lo aveva accudito per diciotto anni, senza mai fargli mancare nulla.
«Stai attento» disse, quando sciolsero il loro abbraccio. Holand sorrise, cercando di assumere un atteggiamento sicuro di sé. La verità era che stava per piangere anche lui, ma non poteva farlo dinnanzi a sua madre.
«Lo sono sempre» ribatté, mentre Talilah gli carezzava il volto, piangendo.
«Ascoltami bene» continuò la donna, mettendogli le mani sulle spalle e fissandolo intensamente negli occhi. «Non farò la mentore. È già da anni che non faccio questo lavoro. Sarai solo, a Capitol City». Abbassò lo sguardo, stringendo le labbra. «Sarò franca, Holand: vincere gli Hunger Games non è una passeggiata, nonostante l’addestramento. Puoi essere allenato quanto vuoi, ma avrai comunque dei problemi». Rialzò la testa, guardando il figlio negli occhi. «Non farti mettere i piedi in testa da nessuno. Non arrenderti e, soprattutto, da’ ascolto al tuo mentore. Penso che sarà Roman» aggiunse, togliendo le mani dalle spalle del ragazzo.
«Sarò prudente, mamma» disse semplicemente Holand, sorridendo divertito dinnanzi all’aspetto della donna. Talilah Gage aveva sempre un aspetto curato e ordinato, ma in quel momento pareva che un uragano l’avesse colpita.
«Ancora non capisco perché ti sei offerto volontario» singhiozzò, passando le mani sulle guance per asciugarle. Dopodiché, le portò dietro la nuca, armeggiando per un istante con il nodo della sua collana. Era un vecchio portafortuna che Talilah aveva portato con sé durante gli Hunger Games, una collana con attaccato un dente di squalo. Lo porse al ragazzo, con una nuova luce di determinazione negli occhi.
«Non togliertelo mai» si raccomandò, mentre Holand prendeva il regalo dalle mani della madre. Talilah fece appena in tempo a dare un bacio sulla fronte al figlio, prima che un Pacificatore annunciasse la fine dell’incontro.
Holand legò la collana dietro il suo collo, cercando di riprendersi dall’incontro appena avvenuto. Tuttavia, non ne ebbe il tempo, perché altre due persone fecero il loro ingresso nella stanza: Tyson e Harmony. Nel vederli, le labbra del diciottenne si strinsero in una smorfia disgustata. Erano loro la ragione per cui si era offerto volontario. Loro e il loro stupido matrimonio.
«Ciao» li salutò, cercando di apparire contento, ma dal suo tono di voce si potevano intuire i suoi veri sentimenti.
«Ciao!» lo salutò allegramente Tyson, alzando una mano per dargli il cinque. Holand ricambiò il gesto, ridendo, suo malgrado. Per quanto covasse del rancore nei suoi confronti, Tyson era pur sempre il suo migliore amico, il figlio di colui che per anni era stato come un padre adottivo per lui. Jennon era ormai morto da tempo, ma la sua figura che riportava la barca a riva nel tardo pomeriggio era ancora ben stampata nella mente di Holand. Jennon era stato un modello, per lui, l’uomo a cui aveva fatto riferimento per anni. Purtroppo, anche lui se n’era andato, disperso per mare come altri prima di lui. Gli era rimasto Tyson, anche se ultimamente erano più le volte che gli dava sui nervi che le volte in cui andavano d’accordo.
«Ciao, Holand» sussurrò Harmony, abbracciandolo dolcemente. La sensazione provocatagli dalle braccia della ragazza non aveva eguali. Holand non avrebbe mai voluto sciogliere il loro abbraccio. Voleva rimanere lì per sempre, con Harmony stretta a sé e il suo profumo che gli impregnava dolcemente le narici.
Purtroppo, lei si staccò troppo presto e lui dovette accontentarsi di guardarla mentre stava attaccata al braccio di Tyson, lanciandogli, di tanto in tanto, qualche occhiatina timida. Il ragazzo osservò le sue labbra, piccole e delicate. Avrebbe tanto voluto che si unissero alle sue, bramava quella cosa da anni e, ogni volta che fantasticava, doveva ricordare a se stesso che lei era solo un’amica, già impegnata, per di più.
«Bella mossa» commentò Tyson, alludendo al fatto che l’amico si era offerto volontario. «Non me lo aspettavo».
«Sorpresa» ribatté il diciottenne con finta ironia, grattandosi la nuca con fare imbarazzato. Tyson fece una risatina.
«Ci sono rimasto secco, all’inizio. Ma tu tornerai, eh?» chiese, dandogli un pugnetto sul braccio. Holand rispose alla provocazione, ridendo. Era una cosa normale, stuzzicarsi a quel modo, per due ragazzi della loro età. E Holand era felice che almeno qualcuno non stesse piangendo per lui. Si sarebbe aspettato tutt’altra reazione, ma Tyson sembrava a suo agio. Harmony era più enigmatica, ma i suoi sorrisini gli facevano supporre che provasse le stesse emozioni del suo fidanzato.
«Quando tornerai, potremo vantarci di avere una star al nostro matrimonio!» scherzò Tyson, cingendo con un braccio la vita di Harmony. Holand fece una risata priva di allegria, mentre i ricordi del giorno prima – in cui i due piccioncini gli avevano annunciato il loro imminente matrimonio – lo travolgevano come l’onda di un uragano.
«Già. Sarà bellissimo» bofonchiò, con gli occhi persi in quelli marroni di Harmony, che non si erano staccati nemmeno per un istante da lui.
Il Pacificatore arrivò poco dopo, con somma felicità del giovane tributo. Pensava che Tyson e Harmony fossero gli ultimi, quand’ecco che entrò nella stanza una ragazzina. Holand fu non poco sorpreso di quella visita. Si sarebbe aspettato chiunque, ma non Lilith, la sorella minore di Harmony. La giovane entrò timidamente, con le guance rosse e gli occhi che non si staccavano dal pavimento. Holand rimase in piedi, aspettando che lei dicesse qualcosa, mentre i secondi passavano.
Stava per chiederle cosa ci facesse lì – in fondo, loro due non erano amici – quando Lilith andò verso di lui con passo sicuro. Si piazzò proprio dinnanzi a Holand, mettendo le sue mani sul collo del ragazzo e allungandosi verso di lui.
In un attimo, le loro labbra si incontrarono e il tributo non poté ritrarsi. Lilith lo intrappolò in un bacio dolce, ma che non sapeva di niente, se non di stupore e sale. Sale, perché quando le loro bocche si separarono l’una dall’altra, Holand notò le lacrime che rigavano le guance della ragazzina.
«Torna a casa», sussurrò lei, guardandolo negli occhi. «Non per forza da me, ma torna, ti prego». Il suo sguardo si abbassò verso il pavimento e la giovane indietreggiò. «Ti amo» mormorò, prima di andarsene e lasciare Holand da solo, stupito come mai in vita sua.




 
V. Power
 
Robert cercò di concentrarsi su ciò che gli accadeva intorno, provando a capire qualcosa tra i fumi dell’alcool che annebbiavano il suo cervello. Aveva provato a bere poco, quella mattina, ma il richiamo delle bottiglie era stato irresistibile e, come ogni giorno, si era ritrovato con un livello di alcool nel corpo quasi sconvolgente. La verità era che il vino lo riempiva. Riempiva il vuoto che sentiva nell’anima.
Il suo sguardo si perse sulla distesa di tributi sotto il palco. Erano tutti ammassati come sardine in scatola. Le loro facce erano tutte uguali: tese, inespressive. Molti si tenevano per mano, cercando di confortarsi a vicenda. Altri si guardavano in giro, alla disperata ricerca di qualche amico o di qualche parente. Ricordava bene l’emozione provata durante la Mietitura che aveva segnato il suo destino. Era semplicemente rimasto pigiato tra tanti altri sedicenni, aspettando con paura ed impazienza la chiamata del tributo maschio. Aveva sperato, in quel momento, che tutto passasse in fretta. Tuttavia, quando fu lui ad essere chiamato, si era sentito male. Aveva pensato di essere spacciato. Eppure, ce l’aveva fatta, anche se a costo di diventare un alcolizzato.
Al suo fianco, Jack Underwood appariva molto teso, sicuramente più di lui. Robert non aveva figli – non ne aveva voluti, considerato che sarebbero potuti diventare dei tributi. Jack, invece, ne aveva ben quattro, di cui tre facenti parte della folla di ragazzini sotto il palco.
«E ora, vediamo di scoprire chi sarà il nostro tributo femmina durante questi settantaduesimi Hunger Games!» esclamò Marion, la nuova escort del Distretto 5, al termine del suo discorso. Robert rimase impassibile, mentre la donna estraeva un bigliettino e tornava al microfono, per annunciare il nome della sfortunata ragazza.
L’accompagnatrice si sistemò i capelli arancioni, che pendevano solo da una parte poiché il lato destro del capo era rasato, prima di dire a gran voce: «Charity Faye Underwood!»
Al fianco di Robert, Jack ebbe un sussulto. L’uomo portò avanti il busto, osservando con gli occhi sgranati la sua unica figlia di appena diciassette anni. Era una ragazzina abbastanza alta, il cui volto molto grazioso era incorniciato da capelli castani ondulati, lunghi fino al seno.
Charity si diresse verso il palco con aria spaventata, ma sicura. Nel salire, lanciò un’occhiata a Jack e, proprio in quell’istante, Robert poté notare i suoi grandi occhi chiari lucidi di lacrime.
«Fantastico!» trillò Marion, sillabando bene quell’esclamazione. «Passiamo al tributo maschio» annunciò, dirigendosi di gran lena verso l’ampolla contenente i nomi dei maschi. Ritornò dopo pochi secondi, quasi correndo sui tacchi alti. Si schiarì bene la voce, prima di esclamare a gran voce: «Shadow Stevens!»
Quel cognome – Stevens – non era nuovo a Robert. Per quanto stesse rintanato nella sua casa al Villaggio dei Vincitori, qualcosa sapeva. E quindi, sapeva che gli Stevens erano una delle poche famiglie ricche del Distretto 5. Il padre di quel ragazzo doveva essere un genetico molto famoso.
Il ragazzo che uscì dalla fila dei diciassettenni appariva quasi rilassato. Nel camminare, si sistemò i suoi occhiali dalla montatura rossa e non degnò di uno sguardo gli altri ragazzi, fissando con insistenza il palco. Salì le scale lentamente, andando ad accomodarsi alla destra di Marion, la quale esplose in un’esclamazione gioiosa, molto fuori luogo, considerato il momento.
«Un bell’applauso ai nostri tributi dal Distretto 5: Charity Faye Underwood e Shadow Stevens!»


 
 
 
Charity
 
Si torturò le mani, agitata all’idea di salutare – forse per l’ultima volta – i  suoi famigliari. Charity strizzò gli occhi più volte, cercando di ricacciare indietro le lacrime. Non poteva mostrarsi triste dinnanzi ai suoi fratellini, altrimenti anche loro si sarebbero arresi in partenza.
Sapeva che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato: i figli dei Vincitori venivano sempre estratti, in un modo o nell’altro. Era già stato un mezzo miracolo che suo fratello maggiore Logan non fosse stato scelto durante le Mietiture precedenti.
Non aveva le prove che fosse stata un’estrazione truccata – magari era stato solo un caso – ma da anni era conscia di essere a rischio, sebbene il suo nome apparisse poche volte, vista la sua non necessità di usufruire delle tessere.
La porta che si apriva la costrinse ad alzarsi dalla poltroncina, mentre tutta la sua famiglia faceva il suo ingresso. A guidare il gruppetto c’era sua madre, Alyssa. Nel vedere la figlia, la donna l’abbracciò subito, singhiozzando piano. Le carezzò il viso con dolcezza, mentre le lacrime rigavano il suo volto. Charity sentì il suo cuore sprofondare, ma si sforzò di stamparsi un sorriso in volto.
«Non piangere, mamma» sussurrò, prendendola per mano. «Va tutto bene, davvero» aggiunse. Alyssa annuì, senza però accennare a smettere di piangere.
Charity si rivolse poi a Sophie, la piccola della famiglia Underwood. Aveva appena dieci anni, il che rendeva Charity più tranquilla riguardo alla sua sorte alla Mietitura. Nonostante la sua giovane età, però, la bambina capiva benissimo cosa stava accadendo alla sorellona, così le si buttò praticamente addosso, singhiozzando incessantemente.
«Sssh, non piangere» mormorò Charity, carezzando i capelli della piccola. La bambina alzò lo sguardo verso la ragazza, asciugandosi il naso con una mano.
«Non voglio che muori!» esclamò, mentre le lacrime iniziavano a scendere sempre più copiose lungo le sue gote.
«Non morirò» promise Charity, asciugando il volto della sorellina con i pollici. «Ma tu cerca di non spaventarti troppo, d’accordo?»
La piccola annuì, lasciando che la sorella maggiore venisse abbracciata anche dagli altri tre fratelli: Logan, Jace e Fred, questi ultimi due gemelli di tredici anni. Erano stati loro la vera preoccupazione di Charity durante la Mietitura e sentire il nome di Shadow anziché il loro l’aveva fatta sentire molto più sollevata.
«E papà?» chiese la ragazza, notando l’assenza di Jack. Sua madre tirò su con il naso, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto bianco.
«È già andato sul treno. Ti aspetta lì» rispose la donna, proprio nel momento in cui un Pacificatore annunciava lo scadere del tempo.
«No!» strillò Sophie, aggrappandosi con forza al vestito della sorella. Charity sentì una pugnalata al cuore: non voleva andare a Capitol City. Non poteva lasciare quel vuoto in famiglia.
«Va’, Sophie» ordinò gentilmente alla piccola, dandole una spintarella sulla schiena. Era un gesto che non avrebbe mai voluto fare e, mentre i suoi famigliari se ne andavano, la ragazza chiuse gli occhi, immaginando che tutto ciò fosse solo un orribile incubo.
Tuttavia, dovette svegliarsi quando arrivò la seconda visita di quella giornata. Ally, la sua migliore amica, entrò nella stanza quasi in punta di piedi, con cautela. Le due ragazze rimasero ad osservarsi per qualche istante. Ally stava in piedi, dinnanzi alla porta, con le mani strette sul tessuto poco pregiato di cui era fatto il suo vestito. Non poteva aspirare ad avere abiti migliori: era molto povera. Ma, nonostante il differente tenore di vita che correva tra le due, le ragazze si consideravano quasi sorelle. Addirittura, Charity passava molto più tempo con i poveri ragazzi della periferia, che con quelli ricchi – che già di per sé erano pochi.
«Lo so che quella è una maschera» esordì Ally dopo qualche minuto. «Tu non sei tranquilla. Sfogati» ordinò, avvicinandosi a Charity. La ragazza stette ferma per un istante, ma dopo trenta secondi, qualcosa in lei iniziò a cambiare. Il rancore, la rabbia, il nervosismo, le lacrime che aveva trattenuto sino a quel momento iniziarono a farsi sentire in tutta la loro devastante potenza. Sentì l’urlo risalirle lungo il corpo e non riuscì più a trattenerlo.
Ally corse subito ad abbracciarla, tenendola stretta mentre piangeva e imprecava, carezzandole i lunghi capelli castani.
«Non voglio morire!» urlò Charity, con la voce rotta dal pianto. «Sono troppo giovane, ho ancora troppe cose da fare! Non voglio andarmene da qui!»
Ally non parlò, lasciando che la sua migliore amica tirasse fuori tutto ciò che sentiva.
«Non morirai. Non puoi morire» ribatté, mentre iniziava a piangere anche lei. «Ho bisogno di te», continuò, sciogliendo l’abbraccio. «Promettimi che tornerai a casa».
Charity scosse la testa. Non si potevano promettere certe cose. Erano più grandi di loro. Solo il destino conosceva la verità.
«Farò il possibile» disse infine, poco prima che un soldato le portasse via la sua migliore amica, lasciandola sola con le sue lacrime.
 


 
Shadow
 
Dalla grossa finestra, Shadow osservava il via vai di gente che scemava dopo l’estrazione. Un mezzo sorrisetto sarcastico si stampò sul suo volto. Non l’avrebbe mai ammesso, ma nel profondo del suo animo provava un certo rancore nei confronti di coloro che non erano stati scelti per partecipare agli Hunger Games.
Senza speranza.
Era così che si sentiva. Aveva studiato per anni, letto libri su ogni sorta di cosa, ma nessuno di essi gli aveva mai spiegato quanto fosse difficile affrontare certe situazioni. Nessun tomo riportava la spiegazione di come si potesse sopravvivere agli Hunger Games. Di certo, lui le carte in regola le aveva: la sua intelligenza era spesso invidiata dai suoi compagni di classe e, grazie ai libri letti in diciassette anni di vita, conosceva molte cose. Ma sarebbe bastata solo quella a farlo sopravvivere? Aveva visto, nelle precedenti edizioni, che anche gente molto intelligente era morta, spesso in maniera stupida. L’episodio che gli venne in mente nel pensarci risaliva a circa sette anni prima. Durante la sessantacinquesima edizione, uno dei tributi era una ragazzina estremamente intelligente del Distretto 3. Aveva stupito tutti con il suo gran cervello, ma alla fine era morta, cadendo da un albero e spezzandosi la schiena, prima che la ragazza del Distretto 2 la trapassasse da parte a parte con la sua spada.
Shadow scosse la testa. Meglio non pensarci, non in quel momento, con ancora addosso tutta l’agitazione dei minuti prima.
La porta si aprì all’improvviso, costringendolo a voltarsi. Dinnanzi a lui si stagliavano due figure: Erich e Suseth, suo padre e sua madre. La differenza di età tra i due si notava fin da subito, dalla prima occhiata. Laddove il volto di Erich presentava già le prime rughe della vecchiaia, quello di Suseth era quasi fresco come una rosa e non una ruga intaccava il suo volto. Era ancora giovane, quest’ultima. Shadow era nato molto presto. All’epoca, sua madre aveva appena ventitré anni ed era la segretaria di Erich Stevens, noto genetista del Distretto 5, che invece di anni ne aveva trentotto.
Nel vedere il figlio, la donna gli corse incontro, stringendolo in un abbraccio tanto dolce quanto freddo. Non erano abituati a grandi manifestazioni di affetto, in famiglia: per quanto i genitori tenessero al figlio, erano piuttosto distaccati, impegnati com’erano nel loro lavoro.
«Ciao, Shadow» lo salutò sua madre, spostandogli il suo lungo ciuffo di capelli biondi da davanti agli occhi.
«Mamma» fu il saluto del ragazzo, accompagnato da un sorriso appena accennato. Suseth si staccò da lui, per permettergli di salutare anche il padre, a cui Shadow strinse semplicemente la mano.
«Mi dispiace tanto, figliolo» disse Erich. Shadow annuì con poca convinzione.
«Non me l’aspettavo» ammise, ed era vero. Essendo ricco, non aveva mai avuto bisogno di prendere le tessere. Non si sarebbe mai aspettato di essere scelto. Di sicuro, da quel lato era favorito, come pochi altri nel suo Distretto potevano permettersi. Eppure, era stato mietuto comunque. Ennesima prova che – nonostante le possibilità a favore – nulla era mai certo.
«Neanche noi. È terribile» commentò Suseth, afferrando una mano del figlio tra le sue e sorridendogli con dolcezza. In quel momento, Shadow si accorse del luccichio proveniente dagli occhi della madre e sentì una strana sensazione percorrergli il corpo, da capo a piedi.
Si sentiva triste. Vuoto. Affranto.
«Un lato positivo c’è» si intromise Erich, cercando di incoraggiare il figlio con un sorriso poco convincente. «Se vincerai, potrai elevare ancora di più il buon nome della nostra famiglia» commentò, dandogli una pacca sulla spalla. Shadow accettò quella strana manifestazione d’affetto senza commentare, anche se, in realtà, sentiva una rabbia cieca che pervadeva il suo corpo.
Persino quando suo figlio stava per morire, Erich pensava al buon nome della famiglia Stevens, senza preoccuparsi di altro. Erano anni che lo tartassava con tutto ciò. «Diventerai un noto genetista, Shadow. Porterai avanti il lavoro della nostra famiglia» gli ripeteva spesso, come se ciò potesse rendere il suo unico figlio felice. La realtà era che Shadow non voleva essere un genetista. Non gli importava. Voleva scegliere lui cosa fare della sua vita.
E quando i genitori se ne andarono, a lui non rimase che stare da solo con tutte le ombre che da anni oscuravano il suo animo.




 
VI. Transportation
 
Durante le Mietiture, il tempo si oscurava sempre. Sembrava quasi che una nuvola di tristezza calasse sul Distretto 6, oscurando non solo la luce del sole, ma anche gli animi delle persone che assistevano all’annuale estrazione dei tributi.
Franziska lo aveva notato già diversi anni prima, quando era una semplice ragazza che era obbligata a fare presenza in piazza, con migliaia di altri giovani. In particolare, aveva in mente un episodio avvenuto quando aveva appena dodici anni ed era alla sua prima Mietitura. Il cielo era diventato di un lugubre grigio, ma, dopo che il treno era partito alla volta di Capitol City con a bordo i tributi, il sole era spuntato, illuminando di nuovo il Distretto.
Ma non solo durante l’estrazione dei tributi accadeva ciò. Il cielo pareva essere in sintonia con l’animo del Distretto 6 e si oscurava anche in altri momenti – durante la morte dei tributi, per esempio, o durante i funerali. Anzi, durante i funerali il cielo piangeva. Anche quando era stato sepolto il suo fidanzato – dopo essere  morto per lei – il cielo aveva pianto. Grosse gocce di pioggia erano cadute, bagnando le aride strade del Distretto, bagnando il volto di Franziska, aiutandola a non mostrare le lacrime.
In quel momento, prima della Mietitura per i settantaduesimi Hunger Games, il cielo iniziava a riempirsi di grigie nuvole. Franziska alzò lo sguardo, socchiudendo un poco gli occhi per evitare di farsi accecare dalla forte luce. Dopo un istante, poté rivolgere la sua attenzione alla piazza. Cercò suo figlio, in mezzo alla selva di teste degli aspiranti tributi, trovandolo nella fila dei sedicenni. Jonathan guardava verso di lei, con aria abbastanza sconsolata. La donna strinse le labbra. Era uno dei papabili nuovi tributi, data la sua parentela con lei e con un altro tributo morto durante i cinquantaseiesimi Hunger Games – edizione che lei aveva vinto. Vittoria ingiusta, la definiva spesso.
Distolse lo sguardo, concentrandosi su Arriette, che saltellava da una parte all’altra del palco, con i riccioli viola che sembravano balzare insieme a lei. La capitolina andò verso il microfono, stringendo tra le mani un foglietto di carta. In volto aveva un’espressione trionfante, quasi avesse appena vinto gli Hunger Games.
«Il tributo femmina del Distretto 6 è…» fece una pausa, alzando lo sguardo per osservare tutti gli adolescenti stipati sotto il palco, «… Liesel Morgfair», concluse, con un breve applauso che nessun altro alimentò.
Da una delle file dei quindicenni si staccò una ragazzina, che camminava con passo insicuro. Franziska osservò attentamente come procedeva verso il palco. Indossava un vestitino molto grazioso – di ottima fattura, lo classificò la Vincitrice. Quella Liesel doveva essere una piuttosto benestante, a giudicare anche dalla sua acconciatura curata nei minimi dettagli. Una cascata di boccoli biondi le scendeva fino a poco dopo le spalle, incorniciando un viso dai tratti graziosi.
Liesel si affiancò alla capitolina sul palco e, non appena lo fece, Arriette si buttò a capofitto sull’ampolla con i nomi dei maschi, tornando dopo pochi secondi con un foglietto tra le dita. Lo mostrò al pubblico, prima di annunciare il nome del malcapitato. Franziska afferrò con forza i braccioli della sedia. “Non Jonathan. Non Jonathan”, si ripeteva come un mantra.
«Il tributo maschio del Distretto 6 è Ryder Jordan Wheeler» disse poi Arriette, con un sorriso soddisfatto in volto.
Il nome del tributo estratto era familiare, a Franziska. Sapeva che Jonathan aveva un compagno di classe che si chiamava Ryder – un ragazzo piuttosto enigmatico, da come glielo descriveva. Girava voce che tutti lo chiamassero Hood, per via del cappuccio che portava sempre in testa. E anche quel giorno, si presentò così, sul palco.
Ryder doveva sicuramente essere un bel ragazzo, ma con il cappuccio che gli copriva il capo, era difficile stabilire ciò. Indossava una felpa, aperta a mostrare una camicia bianca –  un capo elegante per la Mietitura. Le sue mani erano ficcate nelle tasche dei pantaloni e il ragazzo avanzava a testa bassa, fissando intensamente le sue scarpe da ginnastica. Arrivò sul palco con ancora il cappuccio addosso e a Franziska non sfuggì l’espressione indignata della capitolina, cosa che la fece sorridere. Arriette era fissata con l’etichetta e – di sicuro – salire sul palco della Mietitura vestito a quel modo non era un punto a favore per Ryder.
«I tributi del Distretto 6!» esultò Arriette, indicandoli. «Liesel Morgfair e Ryder Jordan Wheeler!»


 
 
Liesel
 
Torturò con le dita uno dei suoi boccoli biondi, osservando ciò che accadeva fuori dalla finestra. A dire il vero, non si vedeva molto, dalla stanza in cui era stata condotta. Liesel poteva, però, notare le officine, che si stagliavano a qualche chilometro di distanza. Quel giorno erano tutte chiuse, a causa della Mietitura.
Sentì un improvviso male alla gola, come accadeva spesso quando le veniva da piangere. Deglutì, quasi volesse fare sparire quello strano nodo che sembrava impedirle di respirare. Non era una sensazione triste, quella. La cosa era molto ambigua, ma Liesel, in quel momento, non si sentiva affatto depressa, come tutti si sarebbero aspettati. Aveva accettato la cosa in modo migliore di quanto credesse. Aveva fantasticato anni pensando a come doveva sentirsi un tributo quando veniva estratto. La realtà dei fatti era un’altra: lei stava bene.
Tuttavia, nel vedere le officine, le si formò un groppo in gola. Ripensò ai bei momenti trascorsi lì, assemblando pezzi che sarebbero poi diventati parte di un hovercraft o di un treno, sognando di volare alta nel cielo. Era quello che desiderava di più: diventare una pilota, per poter ammirare il mondo dall’alto, ridendo di quanto le persone sembrassero delle formiche, da quella prospettiva. Liesel era sicura che anche l’uomo più grande del mondo sarebbe apparso innocuo, da un’altezza tanto elevata.
Chiuse gli occhi per un momento, facendo una mappa mentale del Distretto 6. Se proprio doveva morire, era meglio imprimersi ogni dettaglio. Le officine, da cui fuoriuscivano degli sbuffi di nero fumo ogni volta che gli operai lavoravano. La piazza, l’unico posto allegro nel Distretto. Un pezzo di metallo tra le mani, che sarebbe diventato poi parte di un pezzo più grosso, che a sua volta sarebbe diventato qualcosa di ancora più grande. Era una ruota, quella.
Liesel si voltò giusto in tempo, mentre la porta veniva spalancata da un soldato in uniforme bianca e la sua famiglia entrava. In testa c’era Clareh, sua sorella maggiore di diciassette anni. Nel vedere la più piccola di casa, Clareh le gettò le braccia al collo, con il corpo scosso dai singhiozzi.
«Liesel…» mormorò sua madre, Louise, carezzandole i capelli. Suo padre – Jayes – si limitò al silenzio, abbracciando le sue figlie con fare protettivo. Non parlarono molto, durante quell’incontro. Tutti e quattro erano consci del fatto che non servivano molte parole, in quel momento. Nulla avrebbe cambiato il passato.
Liesel sentì le lacrime premere, pretendendo di uscire e scorrere lungo le sue gote. Si morse un labbro, cercando di ricacciarle indietro, quasi con rabbia. Non voleva che la sua famiglia avesse un ricordo così triste di lei.
«Sii prudente» si raccomandò sua madre, dopo che il loro abbraccio di gruppo fu sciolto. Liesel le cinse la vita con le braccia, appoggiando la testa al petto della donna.
«Sto bene, mamma», sussurrò. Si staccò da Louise, rivolgendo la sua attenzione a tutta la famiglia. Li osservò uno per uno, a partire proprio dalla donna. «Dovete promettermi una cosa» ordinò infine, prendendo per mano Clareh, che continuava a singhiozzare. «Dovete andare avanti» fece una pausa, fissando i suoi occhi in quelli della sorella. «Qualunque cosa accada» aggiunse, stringendo più forte la mano di Clareh. La diciassettenne annuì, un po’ a stento, prima di venire condotta fuori dalla stanza dallo stesso Pacificatore di prima. Nell’uscire, i suoi occhi cercarono quelli della sorella. La salutò con una mano, poi la porta si richiuse.
Dopo pochi istanti – durante i quali Liesel non ebbe nemmeno il tempo di ricomporsi – entrarono Valentine e Clarisse, le sue due migliori e uniche amiche. Entrambe le si buttarono addosso, mandandola quasi a terra.
«Ehi, piano!» esclamò Liesel, e quasi si stupì della risatina uscita dalle sue labbra. Era di certo fuori luogo, ma Valentine e Clarisse riuscivano sempre a strapparle un sorriso. Non aveva altri amici, lei, non era una che socializzava facilmente. Per qualche strano caso, la odiavano tutti, e, in poco tempo, era divenuta vittima di bullismo. Persino durante la Mietitura, non le erano sfuggiti i risolini sarcastici delle altre ragazze, che avevano goduto nel vederla camminare verso il palco.
«Non ridere!» strillò Valentine, sciogliendo l’abbraccio.
«Devi vincere, intesi?» si intromise Clarisse, spingendo via l’altra ragazza e piazzandosi davanti a Liesel con le mani sui fianchi. La bionda sorrise, senza rispondere. Le abbracciò tutte e due, pregando di non scoppiare a piangere proprio in quel momento.


 
 
 
Ryder
 
Il sedicenne continuava a camminare, senza fermarsi nemmeno un istante. Andava avanti e indietro, dalla porta alla finestra, quasi sotto ipnosi. Dopo diversi minuti, era ormai diventato un gesto meccanico.
Ryder si sentiva in gabbia. Aveva quasi l’impressione che quella stanza lo stesse opprimendo, quasi le pareti si stessero restringendo per schiacciarlo. Camminare di continuo era l’unica maniera per far evadere la sua mente da quelle terribili quattro mura.
Si sistemò il cappuccio in un gesto nervoso, mentre le mani – ficcate in tasca – tremavano come mai gli era successo in vita sua. L’ultima volta che si era sentito così indifeso era stato il giorno dell’incidente.
Era una storia che conoscevano un po’ tutti al Distretto 6, quella. Anni prima, un terribile incidente ferroviario aveva portato via a Ryder la sorella e la madre, lasciando che lui, suo padre Noah e suo fratello Reev tirassero avanti da soli. Ryder non ricordava molto di quella giornata. Era accaduto tutto in fretta, troppo in fretta perché lui se ne rendesse conto. L’unico ricordo veramente nitido era il dolore alla schiena e alle braccia – dolore che gli tornava alla mente ogni volta che vedeva le cicatrici.
Chiuse gli occhi tanto forte da farsi quasi male.
Non doveva pensare all’incidente. Doveva solo concentrarsi sul presente.
Suo padre e il suo fratellino entrarono pochi secondi dopo. Vederli fu per Ryder un pugno nello stomaco. Noah non piangeva, ma il dolore nei suoi occhi si sarebbe visto anche a chilometri di distanza. Reev, invece, aveva il volto rigato dalle lacrime e continuava a tirare su con il naso.
Il padre aprì la bocca, come a voler dire qualcosa, e Ryder si avvicinò a lui. Sapeva che si stava sforzando anche lui di non pensare alla moglie e a sua figlia Casey. Dopo l’incidente, Ryder e Reev erano tutto ciò che gli era rimasto.
E Ryder era un tributo.
Noah richiuse subito la bocca, allungando le braccia per stringere a sé il figlio maggiore. Ryder ricambiò l’abbraccio, provando una strana sensazione di felicità che gli pervadeva le membra. Lui e suo padre si volevano bene – in fondo, erano l’uno l’ancora dell’altro, da quando le due donne della famiglia erano morte – ma le loro manifestazioni d’affetto erano sempre state fredde e rare.
«Tornerò» sussurrò il ragazzo all’orecchio del padre, con la voce distorta. Sentiva un enorme groppo in gola, ma si sforzò di non piangere. Non poteva farlo davanti a Reev.
L’abbraccio con suo padre sembrò durare troppo poco. Ryder avrebbe voluto rimanere lì sempre, ma il tempo stringeva e sapeva che, da un momento all’altro, un Pacificatore sarebbe entrato per portare via i suoi famigliari. Si rivolse allora a Reev, che non aveva mai smesso di singhiozzare.
 «Ehi, Reev» lo salutò, abbassandosi per poterlo guardare negli occhi. «Voglio farti vedere una cosa» annunciò, allungando una mano verso il viso del fratellino, per asciugargli le guance. Il bambino si stropicciò un occhio, annuendo. Ryder ficcò una mano nella tasca destra dei jeans, tirando fuori un foglio, piegato in quattro. Lo aprì, mostrandolo a Reev. Era un disegno. Lo aveva fatto il più piccolo di casa qualche anno prima. Ormai si vedevano i segni del tempo, ma Ryder non aveva mai smesso di portarlo in giro con sé. Era il suo portafortuna perché rappresentava un suo sogno impossibile. Raffigurava tutta la famiglia Wheeler al completo – incluse Casey e sua madre Maelle. Erano tutti e cinque su un aereo, sorridenti. Ryder amava passare degli interi minuti ad osservarlo, pensando a come sarebbe stato bello poter portare tutta la sua famiglia su un hovercraft, una volta che sarebbe diventato un pilota professionista.
«Te lo ricordi? Lo facesti tu qualche anno fa. Da quando me l’hai regalato, lo porto sempre con me, ad ogni Mietitura. È il mio portafortuna» raccontò il sedicenne, scompigliando i capelli chiari del fratellino. «Lo porterò anche nell’Arena. Sono sicuro che farà il suo dovere» aggiunse con un sorriso. Al sentire la parola Arena, Reev scoppiò di nuovo a piangere e gettò le braccia al collo del fratello.
«Ho paura» mormorò. Ryder gli carezzò la schiena delicatamente, cercando di rassicurarlo.
«Ehi, io sono Danger, te lo sei dimenticato?» chiese, alludendo al fatto che in casa lo chiamassero tutti con quel soprannome, Danger – pericolo. Gliel’avevano affibbiato per via della sua strana passione: saltare dai treni in corsa. Ryder sapeva che al Distretto 6 lo additavano tutti come un pazzo, ma non gli importava. Nessuno sapeva perché faceva ciò, nessuno sapeva quanto dolore provasse e quanto saltare dai treni lo aiutasse. Danger era come chiamavano Casey prima che morisse. Sentire il suo soprannome lo faceva sentire male, a volte.
«Nulla può spaventarmi» continuò, sciogliendo l’abbraccio e guardando Reev con un gran sorriso, che il bambino, anche se un po’ forzatamente, ricambiò.
«Promettimi che tornerai, così potremo volare insieme e visitare tutti i Distretti, quando sarai un pilota» disse Reev, abbracciandolo ancora. Era un il loro sogno, quello: scappare via dal cupo Distretto 6 e visitare le altre fazioni di Panem, volando con il loro hovercraft.
«Te lo prometto. E tu sarai il mio co-pilota». Ryder arruffò i capelli del fratellino, prima di stringergli forte la mano. Reev lo guardò negli occhi, sorridendo – questa volta senza forzature. I due fratelli sciolsero la stretta, per poi far combaciare i loro pugni. Dopodiché aprirono le mani, allontanandole l’una dall’altra, prima di stringerla di nuovo, avvicinando le loro spalle, di modo che quella destra di Ryder sfiorasse quella sinistra di Reev. Era il loro saluto speciale, quello: un modo tutto loro per dimostrarsi il loro affetto.
Quando poi Noah e Reev uscirono, Ryder sentì una morsa allo stomaco, che sparì non appena Alexis – la sua migliore amica – mise piede nella stanza.
«Ehilà, Scar» lo salutò lei, e il suo sforzo di risultare allegra si percepiva benissimo. Scar era un altro dei tanti soprannomi di Ryder. Solo Alexis lo chiamava così, per via delle sue cicatrici.
«Buondì, Lexi» ricambiò il saluto Ryder, con un sorriso. «Qual buon vento ti porta da queste parti?» chiese, ficcandosi – come sempre – le mani in tasca.
«Il vento che vuole dirti di non conquistare troppe ragazze, quando sarai a Capitol City» rispose Alexis con una risatina, avvicinandosi all’amico. «Ricorda che loro vorranno ucciderti, non sbaciucchiarti» aggiunse, alludendo al gran numero di ragazze avute da Ryder sino a quel momento. Il sedicenne alzò gli occhi, facendo finta di essere seccato.
«E tu? Vuoi uccidermi o sbaciucchiarmi?» chiese Ryder, con un sorriso furbetto stampato in volto. Lexi inarcò un sopracciglio, prima di tirargli un pugno sul braccio. Ryder portò una mano sul punto dove l’aveva colpito, facendo finta di essersi fatto un gran male. La ragazza non rise, però. Si fece improvvisamente seria e, altrettanto all’improvviso, abbracciò il suo amico.
«Vedi di tornare a casa, capito?»
Ryder circondò la vita di Alexis con le braccia, appoggiando il mento sulla testa della ragazza. «Me la caverò» promise a voce bassa. «Chi lo sa? Magari l’Arena è un treno da cui dobbiamo buttarci giù!»
Alexis sciolse un poco l’abbraccio, alzando la testa per guardarlo negli occhi. «Compiere azioni spericolate di tanto in tanto e uccidere ragazzini non è esattamente la stessa cosa» puntualizzò. «Fai attenzione, Scar».
Lo abbracciò nuovamente, prima dell’entrata di un Pacificatore. I due amici sciolsero l’abbraccio, anche se a malincuore.
Ryder annuì, sistemandosi il cappuccio. Portò una mano sulla schiena, toccandosi proprio dove c’erano le cicatrici. «Me la caverò con qualche cicatrice… come sempre».
 
 
*
 
«E come avviene questa cerimonia della separazione tra due persone, Jane? M’insegni, non me ne intendo».
«Si dice “addio” o qualche altra formula».
[…]
«Secondo me è arido e inimicale. Mi piacerebbe qualcos’altro, una piccola aggiunta al rito. Se ci si stringesse la mano, per esempio. Ma, no, neppure questo mi accontenterebbe. Allora lei non mi dirà altro che addio, Jane?»
«È abbastanza, signore; si può mettere il cuore sia in una parola che in molte».

-Charlotte Brontë; “Jane Eyre”


 


Alaska's corner

Ed eccoci qui con il primo capitolo, decisamente troppo lungo. Mea culpa, lo ammetto, sono prolissa e mi piace concentrarmi sui pensieri di ogni singolo personaggio. Quindi, scusate se è troppo lungo, scusate se vi ho rotto le palle. Purtroppo, i preliminari degli HG sono tremendamente noiosi e vorrei farli tutti abbastanza in fretta – anche se ciò comporta capitoli lunghi un chilometro.
Comunque, qui avete visto i nostri primi dodici tributi. Simpatici, vero? Io mi sto già affezionando a tutti loro.
Ve li elenco un po’, almeno potete ricordarvi meglio i loro nomi. Cliccando sul nome potrete vedere i loro bei faccini. Spero si vedano perché i link sono quelli di effebì (?) – facebook per quelli che non capiscono la mia lingua.
 
 
Vediamo se c’è qualcosa da dire su questo capitolo. Innanzitutto, una premessa: sappiate che inserirò diversi flashback riguardanti quasi tutti i tributi. Molti di loro hanno avuto delle esperienze passate piuttosto interessanti o comunque cose che li hanno portati ad essere ciò che sono ora. Di molti di loro vi ho già accennato parte della vita, ma credo che inserirò questi piccoli tuffi nel passato per descriverli al meglio. Diciamo che io sono fissata con i flashback, ne metto molti perché li ritengo anche piuttosto importanti. Mi piace mostrare gli avvenimenti passati delle vite dei miei personaggi – e credo che farò lo stesso con i vostri.
Comunque, vediamo se c’è qualche puntualizzazione da fare.
In primis, nella parte del Distretto 1 vi ho accennato ad alcune storie religiose in cui si parlava di un certo Cavaliere Bianco [ Era conosciuta da tutti così, un po’ per i suoi capelli, un po’ perché era considerata come l’Anticristo – il che si ricollegava ad alcune storie religiose, tramandate di generazione in generazione, secondo le quali era esistito, un tempo, un cavaliere, detto appunto Cavaliere Bianco e considerato da tutti come colui che si opponeva al Salvatore. ] Queste storie sono gli avvenimenti narrati nella Bibbia. Non credo che a Panem abbiano una grande cultura religiosa, quindi ho preferito inserire questo appunto per spiegarmi meglio.
 
Le parti prese dalla Bibbia durante i saluti di Warner sono veramente prese dal libro dell’Apocalisse. Ho dato un’occhiatina su internet, le ho lette e scritte qui, così risulta più credibile (?). Ah, durante la Mietitura fanno apparizione anche alcuni miei OC, in particolare Nick, Edgar e Lauren, questi ultimi due erano tributi durante la settantatreesima edizione – scritta da me medesima. In generale, ci sono molti miei OC in questa FF, tra mentori & co. Giusto nella Mietitura del D4  viene presentato Connor, che è un altro mio OC e viene nominato anche un certo Roman. Franziska è un altro mio personaggio, così come suo figlio.
 
Stava giusto pensando a come doveva essere trovarsi in un’Arena piena di caramelle – questa frase è volutamente nonsense. Non sapevo come introdurre l’entrata dei genitori di Raiden e volevo scrivere questa frase che si ricollegava ai precedenti pensieri del tributo. L’Arena di caramelle mi è venuta in mente a random, perché non sapevo che tipo di Arena mettere. :’D
 
Non voglio che muori! – qui ho volutamente mancato un congiuntivo. La sorellina di Charity ha solo dieci anni: non credo che sappia parlare come un libro stampato o, comunque, a dieci anni è normale fare certi errori di grammatica.
 
E quando i genitori se ne andarono, a lui non rimase che stare da solo con tutte le ombre che da anni oscuravano il suo animo. – questa frase contiene un evidente gioco di parole con il nome di Shadow che significa, appunto, “ombra”.
 
Che altro? Ah, sì, il figlio di Franziska – Jonathan – è shippabilissimo con me, siamo canon fino all’inverosimile. In caso, sappiate che il suo pv è Fernando Torres – uno dei miei calciatori preferiti, che io amo alla follia.
E ah, ho cercato di dare la medesima importanza a tutti i vostri tributi. Poi è ovvio che in base a chi va a salutarli o che la parte diventa più o meno lunga. Lo stesso vale per le Mietiture: una Mietitura in cui non accade nulla verrà di certo più corta di una in cui ci sono volontari, oppure accadono dei fatti strani.
 
E ora avrei una richiestuccia. [ urlano in coro: «Paolaaaa, sei una fottuta cagacazzo!» ]. Comunque, avete presente quelle famose richieste per la scheda di cui vi avrei chiesto più avanti? Ecco, ora ne ho bisogno. Perché ve le chiedo adesso? Riposta: non volevo caricarvi subito con tutto il troppo lavoro. Già vi ho obbligati/e a mandarmi delle schede dettagliate [ sappiate che su questa cosa sono stata molto, molto, molto attenta e ho badato a chi ha rispettato o no questo punto del regolamento ], non volevo farvi lavorare come muli, considerato che molte di voi avevano/hanno gli esami di maturità e quelli all’università.
Comunque, i prossimi punti di cui ho bisogno sono i seguenti:
• Comportamento in treno. Il che significa: rapporto con il compagno di squadra, con il mentore, comportamento in generale durante il viaggio.
• Sfilata. Ossia: rapporto con lo stilista, comportamento durante la parata e… vestito. Già, vorrei che foste voi a deciderlo. Dovete trovare un outfit che vi aiuti durante la sfilata, uno che vi faccia ottenere punti. Sappiate che Seneca sarà lì ad osservare tutto.
• Addestramento e alleanze. Con chi si alleerà il vostro tributo? In che situazione vorreste far conoscere la vostra squadra? Che rapporto avranno gli alleati? Su che armi si concentrerà il vostro tributo e cosa mostrerà alla sessione privata per ottenere un bel punteggio? E come si comporterà durante i tre giorni di addestramento e la sessione privata?
• Intervista. Come si porrà nei confronti dei capitolini? Come risponderà alle domande di Caesar? Sarà misterioso, oppure allegro e frizzante? Incuterà timore o si farà amare? E soprattutto: come sarà vestito?
 
Questa scheda potrete anche mandarmela “a pezzi”. Mi spiego: non appena avrete finito di parlarmi del comportamento in treno, potrete subito mandarmelo, così velocizziamo il tutto. E sappiate che le alleanze saranno piuttosto… effimere. Potrebbero anche rompersi durante il Bagno di Sangue – in tal caso, non odiatemi.
 
Ah, prima che mi dimentichi: il titolo del capitolo è una frase di Glee – 5x03, per la precisione, la puntata più triste di tutta la storia di Glee.
Bene, questo è tutto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, spero vi divertiate.
Un bacio.
Alaska. ~

 
   
 
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