“Si possono insegnare
tante cose, ma le cose più
importanti, le cose che importano di più, non si possono
insegnare, si possono
solo incontrare. Oscar Wilde.”
Chiusi
il diarietto in pelle
scura nelle mie mani posizionandolo sulle gambe coperte da un jeans
nero e
vecchio. La pioggia batteva violenta sul vetro dei finestrini del treno
che
correva veloce, come fosse stato un ragazzo che correva verso casa
cercando di
non essere bagnato dalle gocce d’acqua che scivolavano lungo
il cielo.
Faceva
freddo ed il vagone
era quasi totalmente vuoto, i pochi posti occupati erano riservati ad
emarginati senza casa, clandestini e stranieri.
Ero
l’unica lì, che aveva una
meta precisa e un posto dove andare.
Mi
piegai all’altezza delle
caviglie per prendere qualcosa di commestibile dal mio zaino, erano ore
che non
mangiavo e che ero seduta su quel seggiolino scomodo di seconda mano, e
il mio
stomaco aveva cominciato a ribellarsi a quel digiuno non voluto.
Così facendo
il diario mi cadde finendo sotto il seggiolino sgangherato accanto.
Imprecai
mentalmente e buttai la merenda insaccata che avevo appena cacciato, di
nuovo
dentro. Allungai il braccio portando la mano sul terreno sotto il posto
vuoto
di fianco a me, sentii l’umido infiltrarsi nelle mie unghie e
accarezzarmi la pelle
lasciandosi dietro una scia di marciume e freddo. Quel mezzo era
vecchio e
sporco ma pur sempre conveniente a livello economico e io, non potevo
permettermi altro. Riuscii finalmente a toccare con i polpastrelli la
pelle del
diario e un sospiro di sollievo uscì di fuori dalle mie
labbra screpolate.
Un
tuono forte mi fece
sobbalzare dal cuoio strappato del seggiolino su cui ero seduta facendo
ribaltare lo zaino e girare tutti i pochi presenti nella mia direzione.
Avevo
sempre avuto un po’ timore dei temporali e dello squarcio dei
tuoni
nell’atmosfera, e essere in un treno, con gente sconosciuta e
affamata non
aiutava a farmi tenere i nervi saldi.
Decisi
di alzarmi dal sedile
e, prima di accovacciarmi a terra per cercare di fare più
presto, misi sul
sediolino lo zaino. Abbassai la testa e, nonostante ci fosse una
leggera luce
soffusa nel vagone, lì sotto non si vedeva nulla.
Tastai
con le dita l’area
impolverata e umida, ma non sentivo il mio diario. Com’era
possibile? Fino a
due minuti prima era lì sotto le mie mani.
Feci
un lungo sospiro
cercando di rimanere calma e di non perdere la testa. Mi ripetevo
mentalmente e
continuamente che ormai mancava poco all’arrivo. Chiusi per
un secondo gli
occhi brucianti, la testa mi martellava e la schiena risentiva di
quella
posizione stretta e scomoda in cui ero. Infiltrai il braccio ancora
più in
fondo fino a sentire il freddo del metallo divulgarsi velocemente per
tutto il
mio braccio. Ero arrivata alla fine, il mio diario non c’era.
Tirai
fuori il mio povero
arto ghiacciato e indolenzito e optai di controllare anche sotto il mio
di
seggiolino. Alzai di poco gli occhi, ritrovandomi davanti un paio di
scarpe,
diverse da quelle che indossavo io solitamente, erano di quelle che
indossavano
le persone importanti o con abbastanza soldi per permettersele senza
dover fare
un debito. Salii lentamente con lo sguardo per scoprire due gambe
snelle ma
muscolose fasciate in un jeans aderente e perfetto, un busto possente e
due
spalle larghe coperte da una camicia semplice blu. Dovetti mettermi
sulle
ginocchia per riuscire a vedere a chi possedesse quel corpo imponente.
Una
leggera barbetta gli
contornava il viso e dei ciuffi ribelli uscivano da sotto il capellino
di lana
scura che teneva sulla testa. Le sue labbra erano screpolate dal freddo
come le
mie e i suoi occhi..i suoi occhi erano così scuri che
riuscivano a mettermi in
soggezione. Battei le palpebre più volte, non avevo notato
che c’era anche quel
ragazzo sul vagone, era decisamente inappropriato lì.
Vestiva bene e sembrava
più che nutrito, non aveva nulla a che vedere con il resto
delle persone di
quel posto.
Un
piccolo sorriso si formò
sul suo viso dai lineamenti duri, i suoi bicipiti si tesero e
allungò il
braccio verso di me, tra le sue dita lunghe teneva saldo il diario per
cui mi
stavo tanto penando e per il quale i miei piani di merenda erano
saltati.
La
mia bocca
involontariamente si aprì diventando una
‘o’ perfetta. Non riuscivo a capire
come quel ragazzo avesse in mano il mio diario..
Feci
un piccolo sorrisino
intimorito, e presi con cautela il diario dalle sue mani.
Cercai
in tutti i modi
possibili di non far incrociare di nuovo i nostri occhi, la sensazione
che
ebbi, in quel secondo in cui lui mi guardava con quei pozzi di petrolio
come se
volesse scavarmi l’anima, fu come una piccola scintilla
partire dalla punta dei
piedi che divenne un fuoco d’artificio arrivata
all’altezza del cuore.
“G-Gra..”
Non
riuscii nemmeno a
ringraziarlo, davanti a me non c’era più nulla,
più nessuno. Solo il resto del
putrido vagone.
Mi
guardai in torno in cerca
del suo cappellino lanoso, aspettandomi che facesse capolino da uno dei
sedili
circostanti ma nulla, c’erano solo i soliti emarginati.
Mi
lasciai cadere sul mio
sediolino dopo aver messo accuratamente il diario nello zaino per
evitare altri
disguidi. Quel ragazzo..
Era
sparito da un secondo
all’altro, eppure avevo addosso la sensazione che fosse
ancora lì, in quel
vagone, in quel treno, in mezzo al nulla, diretto verso una speranza.
La
luce lunatica era l’unico
faro che mi illuminava la via. Probabilmente era piena notte
poiché la luna si
trovava nel centro esatto del cielo stellato. Stavo camminando da ormai
venti
minuti circa, le gambe iniziavano a tremare ad ogni passo e la
stanchezza stava
iniziando a farsi sentire sempre più forte.
Il
mal di testa non era
ancora passato e non desideravo altro che arrivare a casa e dimenticare
quel
giorno, per sempre.
Tirai
frettolosamente il
bigliettino con su scritto sopra l’indirizzo della casa di
mio zio, dalla
tasca. Le mie mani erano gelate e quello mi rendeva i movimenti
più difficili e
meccanici da fare.
Lessi
più volte il biglietto
per poi riporlo nuovamente in tasca. Ci
sono quasi.
Con
questo pensiero riuscii
ad andare avanti per i dieci minuti a seguire.
Ero
finita in un vicoletto di
Grand Prairie e davanti ai miei occhi c’era una porta di
metallo arrugginita
tra il grigio e il nero. Emisi un piccolo gemito di freddo formando
così una
nuvoletta che mi appannò per un secondo la vista. Sul muro,
proprio accanto
alla porta mal ridotta c’era
un
cartellino in legno, che presumevo fatto a mano, per metà
caduto con su scritto
Marcus Joel Cornett
Prima
di allungare il dito
ossuto che mi ritrovavo sul campanello, congiunsi le mani e le portai
alla
bocca respirandoci più volte sopra per poi sfregarle.
Pigiai
a malapena il
polpastrello sul bottoncino per poi fare un passo indietro. Un
brontolare
assonnato si udiva da dietro quei muri. Una luce decisamente troppo
forte mi
fece traballare sul posto, non essendo più abituata a certi
toni luminosi.
Vidi
un uomo sulla quarantina
con della barbetta sul viso e degli occhi dolci color mare ma assonnati.
“Amanda
tesoro! Mi ero quasi
scordato del tuo arrivo”
Parlò
lui prima di stringermi
in un abbraccio decisamente troppo caloroso tanto che sentii le ossa
quasi
toccarsi. La sua voce era molto roca e odorava di vino scadente.
Non
potei non credere alle
parole che mi aveva detto, avrei giurato che prima di sentire il
campanello
stesse dormendo. Se si fosse ricordato della mia venuta non si sarebbe
di certo
messo a dormire, con il rischio di non sentire il campanello e di farmi
rimanere fuori casa la notte intera.
“Ciao
zio”
Fu
l’unico suono che uscì
dalla mia bocca in modo stridulo e rauco. Ero stanca e non volevo far
nient’altro che dormire. Nemmeno vedere mio zio, in quel
momento, riusciva a
tenermi lucida.
“Vieni
dentro, fa freddo
fuori” Con il suo grosso braccio mi trascinò
dentro per poi chiudere la porta
alle nostre spalle in un modo poco delicato creando un rumore poco
gradito e
sopportabile per quell’ora.
Mi
guardai intorno. La casa
non era male, vedendola da fuori si poteva pensare molto peggio. Era
piccola ma
aveva uno stile classico/rustico e odorava di pollo sotto al forno.
“Domani
ti studierai meglio
la casa, adesso và a dormire, i tuoi occhi implorano di
chiudersi”
Ridacchiai.
Quanta verità.
Tutto il mio corpo stava implorando un letto e delle coperte calde dove
sprofondare per il resto della notte.
“La
tua stanza è quella.
Buonanotte”
Sorrise
dopo avermi indicato
una porticina al lato del divano coperto con un telo di quel che pareva
cotone,
a motivo militare.
“Notte”
Sussurrai
più a me stessa che
a lui. La maniglia era calda e non potei non bearmi di quel contatto,
per la
prima volta quel giorno, toccavo qualcosa di caldo. Sorrisi. Forse
avevo trovato
davvero il mio posto.
La
camera era molto carina,
il letto nel mezzo aveva un materasso comodo e le coperte poggiate
sopra erano
verdi come il prato. Era semplice ma avevo iniziato già ad
amarla, non avevo
mai avuto una camera da sola.
La
stanchezza prese il
possesso di me e mi diede giusto il tempo di levare le scarpe consumate dalle lunghe
camminate.
Essere
sotto quelle coperte
mi rilassava così tanto da farmi addormentare nel giro di
pochi secondi.
Era
ora di iniziare una nuova
e splendente vita.
Non si sa mai cosa ci riserva
il..destino.