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Autore: boll11    03/09/2008    2 recensioni
Raccolta di sette brevi one shot.
1) La notte prima del trasferimento a Central, sotto la luce impietosa del neon, in un locale anonimo dell'Est...
2) Quando qualcuno nasce sfortunato, è inutile cercare di cambiare le cose. Bisogna solo saper stringere tra i denti una sigaretta...
3) Quella sera avevo cominciato a costruire questo muro tra me e l’amore che provo per lui.
4) Fissando lo sguardo a un brutto soffitto si possono prendere decisioni che segnano una svolta. O almeno tentano.
5) Ho sperato che le parole che ha detto una volta che m’ha issato in macchina sarebbero state le ultime.“Puoi dormire mentre guido.”
6) L’aspro del fumo mi invade le narici e mi penetra nella pelle come un cancro.
7) Forse è questo che mi impedisce di dormire, il mio nome sussurrato come una maledizione.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jean Havoc, Roy Mustang
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note:Questo prompt m'ha fatto penare, e tanto. La mia adorata beta Mary me l'ha fatto rivoltare come un guanto. Non so se alla fine s'è stufata o ne è stata veramente soddisfatta. Certo è che questo è l'ultimo risultato. Non so chi si sia impossessato di me quando ho scelto questo prompt, ma temo sia stata un'entità maligna.
E per chi fosse interessato metto i link della mia tabella in progresso e della Community da cui ho scelto i prompt.
Syllables of Times.
Tabella

E fatemi dire ancora una cosa: ringrazio vivamente tutti i miei lettori e i miei commentatori entusiasti e non. Non amo lasciare le cose a metà ed è per questo che continuerò a postare qui questa serie di prompt e, se mai la continuerò, la long fic di HP ancora incompiuta. Per il resto EFP non fa più per me e per quello che scrivo.
Un saluto globale e buona lettura.



So I`ll leave the ways that are making me be
What I really don't want to be
(Prompt 2: Soffitti concentrici)


Da che sono qui non faccio che pensare. Arrovellandomi e fissando questo brutto soffitto arzigogolato. Già in ambulanza c’era qualcosa che non andava, ma non ho detto una parola. Per tutto il tragitto fino all’ospedale sono rimasto zitto a fissare il riverbero delle luci notturne contro i vetri.
Ho sbuffato solo quando m’hanno infilato in camera il Colonnello. Un lungo sospiro stranito. Ho chiuso gli occhi e credo d’essermi assopito. Non più di una ventina di minuti. Il dolore non mi dà tregua. E neanche la mia testa.
Quando mi sono svegliato ho chiesto a gran voce di fumare. Nessuno m’ha dato retta. Tanto meno Roy che neanche m’ha guardato.
Saranno passate neanche due ore da che i dottori mi hanno riportato indietro dal mondo dei morti. Due ore senza fumare! Appena sveglio è stato il mio primo pensiero.
Vorrei solo una cicca, dannazione, ma qualcuno mi ha fatto sparire le sigarette. Ricordo di averne avute un pacchetto quasi pieno prima e dovevano essere nella tasca dei pantaloni, ma il tizio a cui ho chiesto di prendermele ha trovato solo lo zippo. Un portantino incazzato con un unico sopracciglio a incupirgli lo sguardo già duro.
Risultato: non fumo da troppo tempo e il bisogno sta diventando impellente tanto che ogni altro pensiero vi impallidisce a confronto, anche l’evidente immobilità delle mie gambe. Il Colonnello ancora non lo sa.
Penso stia aspettando solo il momento in cui mi vedrà girare per la stanza, sbraitando in preda all’astinenza con una ferita che mi passa da parte a parte, cercando il pacchetto nascosto, perché ogni tanto mi fissava per poi chiedermi indifferente: “Non fumi?”
Temo le abbia fatto sparire lui.
Avrebbe potuto farlo, le gambe non gli sono diventate inutili appendici: ha solo una brutta cicatrice sul ventre ma la può coprire, e nulla permetterà alle sue donne di provare ribrezzo guardandolo. Anzi, magari il numero delle sue conquiste salirà vertiginosamente: il gentil sesso trova erotiche le cose più strane, poi si stupiscono se sbaviamo dietro a un culo o a un paio di tette.
Non gli ho risposto, quindi. Gli avrei sputato addosso talmente tanto veleno da ammutolirlo, cosa quasi impossibile per chi lo conosce.
E non sarebbe stato giusto. Neanche la metà dell’astio che provo nei suoi riguardi è fondato. Non in questo modo e non con questa astinenza da nicotina che mi impedisce di ragionare lucidamente.
Comunque lui ha sempre odiato vedermi con la sigaretta in bocca. Il povero tizio monociglio poco fa si è affacciato e con sguardo truce m’ha chiesto se le avevo ritrovate. Ho scosso la testa desolato. Quando che si è offerto di andarmele a comprare Roy gli ha sbraitato dietro e ho dovuto lasciar perdere. Credo che le sigarette siano una scusa per scaricare la rabbia rompendomi l’anima col fumo, la puzza, eccetera.

Ora non lo guardo ma so che invece lui lo fa, insistente e pesante, tanto che avverto l’ira gonfiarsi pericolosa e per contenerla sbuffo un’imprecazione tra i denti. “Ridammi le sigarette, bastardo!”
In quell’unica frase libero quasi tutto il furore.
Non lo guardo e non so e non voglio immaginare che smorfia ci sia sulla sua faccia. Voglio solo le mie sigarette.
“Non le ho prese io”, mi dice e la sua voce è mortalmente seria.
Mi volto finalmente, e colgo sul suo viso un’espressione sincera e un’altra cosa, più sottile, più profonda.
Roy lo sa, ha intuito. Detesto le mie gambe.
Stringo le labbra in un gesto caparbio. “Voglio fumare!”, e nell’istante in cui lo dico mi sento come un ragazzino alle prese con un capriccio. Mi viene da ridere, da sbellicarmi, e lo faccio piegato in due e seppellendo i grugniti sulle lenzuola da ospedale che odorano di disinfettante.
“Vado a comprartele…”, mi fa e si cala dal letto con fatica mentre continuo a ridere e a ridere stringendo tra i pugni le lenzuola e il dolore che sento.
Quando avverto la porta chiudersi lascio che quegli sghignazzi isterici si tramutino in aspri singhiozzi soffocati.
Cazzo.
Non ne ho fatto granché della mia vita.
Solo una sequela di scelte sbagliate e quest’amara conclusione, e non una sigaretta per calmare l’ansia.

Quando torna mi getta il pacchetto sul letto senza una parola. Lo guardo e l’amarezza mi fiacca. “Neanche la mia marca conosce…” E odio la disperazione che minaccia di cogliermi ancora. Sento le lacrime premere contro le palpebre e stringo i denti.
“So che non sono le tue, ma è meglio se fumi più leggero…”, sento dire. D’incanto la voglia di piangere cessa, ma non la stanchezza.
Quella no.
Mi volto a guardarlo e lui è di nuovo sul letto, mani dietro la nuca intento a fissare il soffitto.
Prendo in mano il pacchetto senza dire una parola e ne strappo la carta con attenzione. Quel piccolo quadratino svela i filtri bianchi allineati. Basta un colpetto ben assestato per farli uscire fuori dall’involucro. Senza accorgermene ricorro a un vecchio gioco d’adolescente.
“Se ne esce una camminerò di nuovo, più di una e posso dire addio per sempre alle mie gambe”.
E’ stato un pensiero talmente veloce che non sono riuscito a fermarlo. E’ quasi impossibile che se ne sollevi solo una dal mucchio. Non riesce mai. Neanche in un gioco stupido come questo so barare. Infatti se ne sollevano tre e con mano tremante ne pizzico una tra indice e pollice cercando di ridere della mia delusione un po’ infantile. E’ solo uno stupidissimo, dannato gioco, eppure non riesco a non crederci sul serio.
Ci metto un secolo ad accendere la sigaretta col mio zippo, la fiamma traballa qui e lì e devo fare un profondo respiro per tenere ferma la mano. Alla fine ci riesco e la prima boccata è avida e profonda tanto che la brace si infuoca impazzita di un rosso vivo prima di tornare grigia. Trattengo il fumo a lungo per poi lasciarlo uscire poco alla volta, e sento i primi capogiri coprirmi la fronte di sudore e lasciarmi lo stomaco in subbuglio.
Me ne frego. Me ne frego dei sudori, della nausea e del sapore acidulo della mia bocca. Voglio fumare fino a vomitarmi l’anima. Finisco la prima sigaretta con la fronte aggrottata e accendo la seconda con il mozzicone ancora ardente senza pensare ad altro che alla sensazione spiacevole del fumo che mi invade polmoni e cervello ovattandone i pensieri.
E’ alla terza che Roy mi blocca la mano che regge il mozzicone.
“Piantala!”, mi intima secco. “Stai riempiendo la stanza di fumo…”
Provo a districarmi dalla sua stretta ma mi sento debole e inerte mentre lui torreggia furioso su di me.
Me la strappa dalle mani e la getta nel posacenere.
“Stenditi, ora.” Ed io ubbidisco perché non so far altro che questo. Ubbidire.
Nel mio campo visivo il volto di Roy sormonta il soffitto sporco. Sbatto le palpebre e tutto ondeggia e si sovrappone e si ingloba.
La voce di Roy mi arriva debole e sfocata mentre la mia mente capitola all’indietro.
Solo la sua immagine rimane vivida circondata da quel brutto soffitto pacchiano con una varietà di cornici di stucco tutt’intorno al bordo, una dentro l’altra a formare complicati disegni floreali.
Come dal nulla, mentre la nausea mi rivolta lo stomaco, mi prende una sconcertante sensazione di déjà vu.
Anche da Roy c’è uno di questi mostruosi soffitti. In salone.
E’ l’unico che non ha rimaneggiato, lo trovava elegante.
Il ricordo prende piede mentre la voce di Roy si affievolisce e poi torna vivida, forte, dal Roy di prima.
Quello che diceva di tenere a me.

“Va tutto bene! E’ tutto a posto”, continua a ripetermi con la voce ridotta a un sussurro strozzato.
E allora perché mi guarda con quell’espressione preoccupata? Mi è scoppiato un gran mal di testa e non riesco a capire perché io sia a terra quando fino a un secondo prima ero ritto in piedi.
Al limite era lui quello che avrebbe dovuto crollare come un sacco vuoto, gonfio d’alcool com’era.
Si discuteva bonariamente di sesso. Io non so mentire, è un mio limite. So che ci sono cose che andrebbero tenute a riposo nel cervello invece di farle scappare dai denti ma non sono mai stato un genio, si sa.
Non abbiamo atteso molto prima di scopare, io e Roy.
Lui avrebbe voluto, credo, ma non per riguardo nei miei confronti.
Solo perché secondo la sua logica avrebbe voluto portarmi al sesso quando non ne avessi potuto più.
Avrebbe desiderato che lo pregassi.
Non era soddisfatto delle mie tiepide reazioni ai suoi approcci e faceva di tutto per rendere le nostre sessioni eccitanti, senza buoni risultati.
Roy è sempre stato uno brusco, e quando cercava di essere gentile e premuroso lo trovavo ridicolo e noioso allo stesso tempo.
Non ho potuto aspettare oltre. I nostri incontri diventavano ogni volta una lotta stancante, così gli ho intimato di fottermi e di piantarla una buona volta.
Non è stato un granché. E’ sbrigativo ed egoista, ma a me sta bene così. Ho tentato di dirglielo, ma mi guarda come se s’aspettasse di indovinare un tranello in ogni mia parola.
E’ quello che gli ho ripetuto ancora una volta prima di perdere i sensi.
Che non è un granché, che scopare con lui in quelle condizioni è peggio che mai, roba da stenderti morto di noia. Che non riesce neanche a farselo venire duro. E che ero stanco da buttare.
Dopo le mie parole il vuoto.
C’è solo questo atroce mal di testa e il suo viso preoccupato contro lo sfondo del soffitto più brutto che mente umana possa concepire. Quello che lui trova così fine.
Non una traccia di sbornia se non un pallore mortale a illividirgli il viso e profondi segnacci viola sotto gli occhi.
“Mi dispiace, non volevo colpirti.”
Lo guardo e il ricordo di un cazzotto da peso massimo mi balena in testa. Quello e il suo viso furioso, distorto.
Un cazzotto che mi ha fatto finire sdraiato in terra a guardare in su, come rapito da stucchi e volute.
Ridicolo.
“Forse è il caso che smettiamo di frequentarci”, gli dico. “E’ chiaro che non ci prendiamo.” E il suo volto si irrigidisce tutto, le labbra si assottigliano caparbie. “Io non mi arrendo”, sibila. Ed è definitivo, perché mi lascia lì disteso mentre lo vedo avvicinarsi al mobile bar.

E rimbalzo di nuovo avanti per ritrovarmi ancora con un “Roy su campo grigio” con le pesanti cornici a far da aureola. Lo stesso incarnato cereo, le stesse cupe occhiaie e le stesse labbra arricciate in una smorfia ostinata.
Anche le stesse parole. “Io non mi arrendo.”
Decine e decine di Roy uno dentro l’altro contro quel grigio polveroso mi bisbigliano che andrà tutto a posto, che tutto tornerà come prima, che camminerò di nuovo.
Annuisco per tranquillizzarlo. “Ho capito, hai ragione.” cerco di bisbigliare con una bocca che mi funziona tanto quanto lo fanno le mie dannate gambe.
Ma so che nulla sarà più come prima, lo so.

Non riesco a ricordare cosa mi convinse a restare con lui, quella volta del pugno.
Ero così deciso a farla finita mentre passavo e ripassavo le mani tra i capelli scoprendo tracce di sangue sulle dita, fissando Roy che si versava una dose abbondante di whisky in un bicchiere da cocktail. Dopo non ho che sensazioni vaghe del suo corpo steso accanto a me. Il bicchiere in bilico colmo di liquore e le sue labbra premute contro la mia tempia in modo lieve mentre con un braccio mi stringeva prepotente contro il suo fianco. Ne conservo un ricordo triste. Forse ho pensato che era lui ad aver bisogno di me. Sì, forse era questo.
Ghigno al ricordo scuotendo la testa coi capogiri che ancora mi ricoprono la fronte di sudore. Non posso credere di essere stato tanto stupido. Alla fine è stato lui a lasciarmi, neanche troppo tempo dopo.
Non gli servivo allora, tanto meno posso farlo adesso.
Il pensiero di liberarmi finalmente di lui mi lascia un vuoto allo stomaco.
Non capisco se è una sensazione buona o cattiva.
Credo sia solo quella giusta.
Lo scosto da me con una manata decisa.
“Sto bene, lasciami in pace una volta per tutte!”, gli dico. Se solo potessi voltargli le spalle e sancire così la mia decisione con un semplice gesto… Lo vedo adagiarsi con una smorfia sul letto e fissare lo sguardo al soffitto. Un sorriso cupo gli curva le labbra prima di sbottare.
“Non riuscirò a guardare il mio soffitto con gli stessi occhi. E’ orrendo.”
“Finalmente te ne sei accorto…”, borbotto io accendendomi una sigaretta.
Si volta a guardarmi e mi fa: “D’accordo. Ti lascio in pace.” Sbuffo fuori il fumo assieme a un sospiro. “Ma non mi arrendo”, tiene a precisare.
Crollo il capo in assenso e non dico più una parola. Neanche lui.
Ce ne stiamo sdraiati così, gli occhi fissi all’insù ed io quasi m’aspetto che quegli stucchi decrepiti precipitino su di noi con un rumore farinoso.
Naturalmente non succede.
Solo il silenzio rimarca la mia decisione.
Non riesco ad immaginare sottofondo più adatto.

  
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