Pioggia e racconti
«E
questo è tutto.» fece Max con aria sconsolata.
Aveva appena terminato di raccontare tutta la sua storia agli altri tre
poliziotti, esattamente come l’aveva raccontata prima a
Rebecca.
«E perché hai deciso di infiltrarti da solo,
così?» domandò Ben ancora
leggermente scettico.
«Non lo so, volevo risolvere il caso, volevo fare da solo...
e ho fatto solo un
disastro, se non fosse stato per voi a quest’ora sarei morto.
Ah, dimenticavo
di dirvi una cosa: il mio cognome non è Rieder, quello me lo
avevano affibbiato
in seguito alla storia del traffico d’organi per paura che i
criminali mi
venissero a cercare. Il mio vero nome è Max
Schwarzer.».
A Semir andò per traverso il caffè che stava
sorseggiando.
«Semir? Semir, tutto bene?» si preoccupò
Ben dandogli una forte pacca sulla
schiena.
«Sì ma... Schwarzer?» domandò
il turco cercando di non pensare all’idea che gli
era appena venuta in mente.
«Sì... perché?» chiese Max,
senza capire.
Semir non rispose, prese un foglio che aveva sulla scrivania e lo
osservò
attentamente: era la foto del capo dell’organizzazione che
Susanne gli aveva
mandato per mail. Come aveva fatto a non pensarci prima? Erano
identici,
incredibilmente simili...
«Max... lo conosci?» chiese all’ispettore
porgendogli il foglio «È Carl
Schwarzer, il capo dell’organizzazione.».
Max sbiancò e rimase immobile con la foto sotto agli occhi.
«Papà...».
«Come
si sente?» domandò Bronte con preoccupazione.
Avevano fatto sedere Max sul letto e gli avevano portato un
po’ di acqua e
zucchero.
«Meglio, grazie. Che bastardo... che bastardo! Ecco
perché si era completamente
disinteressato alla faccenda di mio figlio, lui ci avrebbe solo che
guadagnato!
Ecco perché poi era sparito! Criminale, odioso,
lurido...».
«Max, calmati magari è solo un caso di omonimia,
magari non...» provò Ben, ma
ormai il biondo sembrava inarrestabile.
«Ben, ho visto la foto, so riconoscere mio padre...
nonostante non lo veda da
sette anni. Non posso crederci... non posso crederci! Tutti quei
bambini, li ha
tutti lui sulla coscienza! Scommetto che è stato lui...
sì, è stato lui a dare
l’ordine di uccidere mio figlio invece che operarlo.
È colpa sua se Angela e
morta ed è colpa sua se...».
«Max, aspetta un attimo! Non è che stai correndo
un po’ troppo?» lo interruppe
ancora Semir, ma ogni loro sforzo di farlo calmare sembrava inutile.
«Non sto correndo affatto! A che serve negare
l’evidenza? Ora voglio trovarlo.
Perché appena lo trovo io... io...».
Lo interruppe il campanello della porta della camera
d’albergo, che suonò con
insistenza.
Rebecca
suonò ancora e poi bussò freneticamente, gridando
aiuto.
Non si calmò nemmeno quando sentì un certo
movimento provenire dall’interno
della stanza, continuò a sbattere i pugni sulla porta di
legno fino a che un bel
ragazzo alto non le venne ad aprire. Quindi si gettò nella
stanza e raggiunse
Max, lasciandosi andare tra le sue braccia ad un pianto disperato.
«Rebecca?
Rebecca, che succede? Cosa ci fai qui?» fece il
poliziotto sconvolto, mentre i colleghi lo guardavano straniti.
«Mia sorella...» singhiozzò la ragazza
«L’ha uccisa! L’ha uccisa!»
gridò tra le
lacrime. Il suo corpo era scosso dai forti singulti, la giovane era
agitatissima, il viso rosso, gli occhi gonfi di lacrime.
«Rebecca... calmati, cosa è successo? Chi ha
ucciso chi?» fece il biondo sempre
più preoccupato.
«Igor!» gridò la ragazza, e non
riuscì a dire nient’altro.
Continuava a piangere, non riusciva a calmarsi.
Bronte le toccò una spalla e lei si voltò,
mostrando al commissario due occhi
straziati dal dolore... due occhi che a Ben non poterono che ricordare
quelli
di Eve.
Un pensiero orribile gli attraversò la mente: che quella
ragazza fosse proprio
la sorella di Eve? Ma in quel caso...
«Kallman ha ucciso sua sorella?» domandò
Ben corrucciando la fronte e Rebecca
annuì, tornando quindi tra le braccia di Max «Noi
volevamo scappare... noi...».
Scoppiò di nuovo in pianto disperato.
«Erano
anni che mettevamo da parte i soldi per fuggire, e ci
eravamo riuscite. Avremmo avuto un volo oggi alle diciotto per Berlino,
abbiamo
liberato i bambini ma poi lei è tornata indietro a prendere
il medaglione di
nostra madre e Igor l’ha sorpresa... io sono fuggita, avrebbe
ucciso anche me!»
spiegò Rebecca.
I quattro poliziotti erano riusciti a farla calmare almeno un minimo,
il
necessario perché la ragazza riuscisse a raccontare cosa
fosse successo. Ora
stava lì, seduta su una sedia, gli occhi segnati dal pianto
e le mani tremanti.
Ben non avrebbe resistito ancora a lungo. Voleva capire...
«Eve?» domandò semplicemente.
E lo sguardo affermativo che gli lanciò la chirurga fu
più che sufficiente a
mandarlo in confusione.
Si portò una mano alla fronte e sospirò, tentando
di mantenere il controllo,
tentando di paragonare il dolore che poteva sentire lui a quello che
invece doveva
provare Rebecca.
«Mia mamma me l’aveva affidata... era piccola
quando è morta, mi ha detto che
mi sarei dovuta prendere cura di lei e io non ne sono stata in
grado.» mormorò
ricominciando a piangere silenziosamente.
«Tu non hai nessuna colpa.» sussurrò Max
cingendole la vita con un braccio.
L’atmosfera all’interno di quella piccola stanza
d’albergo era diventata
pesante e la pioggia che batteva contro i vetri non faceva che rendere
gli
animi ancora più tristi.
Improvvisamente Max sembrò ricordarsi di qualcosa e
corrucciò la fronte.
«E Marie?».
«Ce l’ha lui.» disse Rebecca.
Ma non sembrava addolorata per questo. I suoi pensieri erano rivolti
tutti
verso sua sorella... e la bambina? Max era sicuro che fosse sua figlia
anche se
lei non gliene aveva mai parlato. Come faceva a non preoccuparsi di sua
figlia
nelle mani di un criminale?
«Mi ha detto che così non sarei andata tanto
lontano.» spiegò lei, poi un
sorriso amaro le si dipinse sulle labbra «Ma tanto non la
ucciderebbe mai. Non
potrebbe mai uccidere la figlia del suo capo perché verrebbe
ucciso a sua volta
in quattro e quattr’otto.».
«La figlia del suo capo?» domandò Semir.
Continuava a non capire, come Ben e il
commissario Bronte, d’altra parte.
«La figlia di mio... padre? Quella bambina?»
domandò Max ancora più incredulo.
Era palese che nessuno in quella stanza stesse capendo più
nulla. Nessuno
tranne Rebecca, che ebbe la conferma di ciò che aveva
intuito.
«Carl Schwarzer è tuo padre?» chiese la
ragazza recuperando lucidità e mettendo
per un attimo da parte il dolore che provava per la sorella. Aveva
pronunciato
quel nome per la prima volta dopo cinque anni e mezzo e lo aveva fatto
con
disgusto.
Alla tacita risposta di Max, Rebecca continuò «Lo
sapevo, l’ho immaginato non
appena ti ho visto. Mi sa che è ora che tutti voi sappiate
delle cose. La mia
storia Max già la conosce e ve la racconterà. Ma
forse non sapete che Carl è
effettivamente il capo dell’organizzazione: è una
delle persone più spietate e
cattive che abbia mai conosciuto. È stato lui ad uccidere
mia madre dopo averla
violentata anni fa ed è stato lui ad aprire la sede, per
fare soldi. Ha
cominciato ventidue anni fa con il chiaro obiettivo di espandersi e
diventare
capo di un’organizzazione internazionale e ci è
riuscito. Io vivo lì da quando avevo
sei anni e ho visto morire prima mia madre, poi tanti uomini anche
prima
dell’apertura vera e propria della sede e soprattutto tanti
bambini. Lui
uccideva perché gli faceva comodo, uccideva se una persona
non gli serviva più,
uccideva se una persona gli stava anche solo semplicemente antipatica.
Poi sei
anni fa l’ha fatto anche con me... mi ha violentata e io sono
rimasta incinta.»
fece una pausa asciugandosi una lacrima che piano le scorreva sulla
guancia.
«Nove mesi dopo è nata Marie e io ho partorito da
sola in una stanza buia, una
di quelle della sede. Poi non l’ho più rivisto.
Continua a dirigere
l’organizzazione ma viene a far visita alla struttura solo
ogni tanto, la sede
ora è in mano a Igor Kallman. Io ho accettato di fare da
chirurga perché non
avevo altro posto dove stare, perché lì avevo mia
figlia e mia sorella e perché
mia mamma mi aveva affidata a Igor prima di morire, quando ancora lui
non era
immerso in questo traffico criminale. Ora è diventato come
loro... e anche io
sono diventata come loro.» concluse in un sussurro.
Nessuno ebbe il coraggio di replicare per qualche attimo.
«Tu non sei come loro.» affermò quindi
Max «Altrimenti adesso non saresti qui a
raccontarci tutto questo.».
Lei scosse il capo sorridendo amaramente «Se mia sorella non
fosse morta io non
sarei qui. E se sono qui adesso è perché voglio
Igor e Carl in galera, perché
li voglio spacciati per sempre. È chiaro poi che io
andrò con loro. Ma voglio
prima vedere loro in prigione e mia figlia viva. E voglio poter
piangere sul
cadavere di mia sorella prima che loro si sbarazzino del suo corpo come
di
quello di un’estranea qualunque che hanno ucciso
perché era diventata troppo
ingombrante, come lo era diventata mia madre.».
Silenzio.
Era calato di nuovo nella stanza velocemente.
Solo lo scrosciare della pioggia ormai lo rovinava.
Adesso
sappiamo che è Max, chi è Marie e chi
è Rebecca.
Forza che non restano ancora tanti capitoli!
Un bacio e grazie mille a tutti coloro che mi stanno seguendo.
Sophie :D