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Autore: riccardoIII    20/07/2014    3 recensioni
Ispirata da "Ottobre rosso" dei Negramaro, la storia di come Sirius sia riuscito a fuggire da Azkaban.
I capoversi in corsivo corrispondono al testo della canzone, i personaggi appartengono a J.K. Rowling; scrivo senza scopo di lucro.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sirius Black | Coppie: James/Lily
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Ottobre mi piace di più, e tutti gli altri mesi li ho rapiti e poi rinchiusi,
e quello che voglio è che tu tradisca i tuoi destini e poi mi segua ad occhi chiusi.
 
 
 
Ottobre. In quel mare di attimi l’uno identico all’altro, bui come solo la solida e oscena disperazione poteva renderli, in quei giorni che si allungavano in un unico infinito istante senza più dì e notte, nelle settimane che avevano perso il loro senso perchè non c’era tempo che riuscisse a penetrare quelle fredde mura, nei mesi che si susseguivano senza logica alcuna, accavallandosi, rincorrendosi e precludendo anche la possibilità misericordiosa di una fine a quell’angoscia, tutto ciò che riusciva ancora a distinguere era ottobre. Il dolore si faceva più lancinante e trovava membra non ancora sacrificate, parti che non sapeva nemmeno di possedere e che si erano miracolosamente salvate dalle fiamme che lo dilaniavano costantemente. Ma no, non si era salvato nulla. Era la maledizione, la sua maledizione, venire spezzato e artigliato per poi rigenerarsi solo in attesa dell’arrivo di un nuovo ottobre, giunto a distruggere ogni brandello di umanità che possedeva. Come quel mito greco in cui il corvo divorava il fegato del peccatore di giorno e quello ricresceva la notte, cosicché la pena non finisse mai e la carne fosse bell’e pronta al sorgere del sole per deliziare ancora e ancora il becco dell’animale. Stentava a focalizzare gli occhi scintillanti di lei quando gli aveva raccontato di quel Prometeo, ribellatosi ai suoi potenti Dei padri proprio come lui si era ribellato ai suoi, di avi, per proteggere la stirpe umana. Diceva con orgoglio, come se averlo al suo fianco e chiamarlo amico e affidargli la cosa più importante dell’universo fosse un onore per lei, che vedeva Prometeo ogni volta che lo guardava.
 
E ora, ora che marciva in quelle cupe mura, ora cosa ne restava di lui? Un mucchio d’ossa, un’intricata massa di capelli a ricoprirgli il viso sporco e squallido, la barba che riempiva un poco le guance scavate di un teschio coperto di pelle, gli occhi vacui come se non ci fosse più nulla dietro, come se fosse ormai solo un involucro vuoto, desolante testimonianza di ciò che era stato e che mai più avrebbe potuto essere; le braccia tremanti ricoperte di graffi, in cui ancora restavano conficcate le unghie lunghe e sporche, se ne stavano attorcigliate attorno alle gambe raggruppate contro lo sterno mentre si dondolava avanti e indietro, senza posa, assalito dai ricordi più terribili, dalle urla che mai avevano trovato sfogo dalle sue labbra, dalla propria risata che gli riempiva la mente senza lasciargli scampo. E con l’unico barlume di lucidità, in quei secondi di ottobre che emergevano dal piatto di quella sua miserabile vita grazie all’acutizzarsi del desiderio di morire, pregava, pregava ancora, come un bambino, che tutto quello fosse solo un brutto sogno, sperava che avrebbe aperto gli occhi e il buio della disperazione si sarebbe dissolto, il dolore lancinante sarebbe svanito nel vedere gli occhi di  James riacquistare vita, il sorriso illuminargli il volto mentre si rialzava proprio quando lei, Lily, si affacciava sul pianerottolo delle scale, i capelli fiammeggianti e le iridi verdi scintillanti, con il piccolo Harry tra le braccia che lo guardava felice coi suoi occhi in miniatura che avevano trovato perfettamente posto sotto i riccioli neri donati da James; nessuna cicatrice a deturpare il viso paffuto. Pregava che loro disobbedissero alla Morte come lui aveva disobbedito ai suoi genitori, come Prometeo aveva disobbedito agli Dei, facendosi beffe del destino che glieli aveva strappati; sperava che lo seguissero in un mondo in cui potevano ancora essere felici. Sperava che si fidassero di lui a occhi chiusi, come un tempo, nonostante la sua colpa, la sua terribile colpa.
 
 
 
 
Il rosso mi piace di più, spalmato bene in viso fa sembrare un po’ più vivi,
e quello che chiedo è che tu, tu tinga di speranza tutti quanti i miei sospiri.
 
 
 
Rosso. Non riusciva più a vederlo. Sentiva distintamente sulla punta della lingua la sensazione che provava quando, fuori da quel luogo in cui i colori non esistevano nemmeno nelle menti folli dei prigionieri, guardava il suo colore preferito. Eppure non lo vedeva, non ricordava altro che quell’oscurità innaturale, densa come cera, che permeava quel luogo dimenticato dai vivi. Non vedeva più gli arazzi che dominavano la sala comune in cui aveva riso coi suoi amici, non vedeva le tende del suo letto a baldacchino sempre aperte per tenere d’occhio James, non vedeva il verde e l’argento delle pareti della sua stanza a Grimmauld Place sparire sotto un’ondata rosso-oro a testimoniare fino alla fine dei secoli il suo distacco rispetto a quel posto che più che di casa sapeva d’inferno, non ricordava le onde dei capelli di Lily scomposte sul pavimento di una stanza distrutta né il sangue che esplodeva attorno a lui mentre una strada intera saltava in aria insieme ai viandanti che la percorrevano. O meglio, vedeva tutto, però era grigio. Non c’era altro che grigiore nella sua mente stanca, nelle sue membra sconvolte, nei tunnel dei suoi occhi smarriti e fissi su una pietra del muro che fronteggiava. Avrebbe voluto staccare il cervello, smettere di rivivere i suoi anni migliori che ora sapevano di amaro più del fiele; dall’essere la parte più bella della sua vita si erano trasformati in aguzzini, ricordandogli in ogni istante miserabile in cui gli incubi non lo sopraffacevano tutto ciò che aveva avuto, tutta la gioia che aveva provato e che non sarebbe tornata mai più. Suo fratello era morto insieme alla moglie, per colpa sua; il suo migliore amico lo credeva un folle traditore, lo odiava, lo disprezzava come solo lui poteva comprendere, perché se le sorti fossero state invertite lui stesso non avrebbe avuto misericordia; Peter, Peter era feccia, un sudicio, viscido essere immondo. In tutto quel dolore e quell’odio che lo sommergevano, quando si apriva un leggero squarcio in quella patina di buio, vedeva un volto: Harry, la persona che più aveva bisogno di lui sulla faccia della Terra, era solo. Nessuno pensava a lui come a un orfano, alle sofferenza che comportava per un bambino crescere senza genitori, a quanto avrebbe pianto la notte desiderando qualcuno che lo abbracciasse. Tutti lo ricordavano come il Bambino-Speciale, la salvezza del mondo magico. L’avrebbero venerato, avrebbero baciato la terra su cui camminava, eppure non avrebbero visto quanta distruzione quella notte che tutti celebravano per la vittoria aveva portato in quella giovane vita. Lui lo capiva, coloro che lo avevano generato erano stati tutto fuorché dei genitori, anche lui era cresciuto senza amore. Sarebbe dovuto essere suo compito prendersi cura del figlioccio e invece l’aveva abbandonato, l’aveva tradito come aveva tradito James, Lily e Remus.  Il desiderio di vedere Harry, di chiedergli perdono lo animava, in quei pochi istanti in cui i Dissennatori si allontanavano dalla porta della sua cella e l’oscurità si diradava; gli infondeva un briciolo di speranza, gli faceva tornare la volontà di fare qualcosa, di slacciare la braccia, stendere le gambe, alzarsi in piedi e urlare al mondo che era innocente. Ma i Dissennatori tornavano e lui non aveva fatto in tempo nemmeno a levare le unghie dalla propria carne prima di sprofondare di nuovo nel grigio dolore sordo che impregnava la sua esistenza. Tutto ciò che gli restava, quando il buio lo sopraffaceva, era l’odio per il topo, il desiderio di ucciderlo. E la consapevolezza di essere innocente. Si appigliava all’innocenza, l’unico pensiero che lo teneva ancorato alla realtà.
 
 
 
E, respirare, fa pensare un po’ meno a te.
E, respirare, fa tornare dentro di me.
 
 
 
L’aria entrò nella sua bocca impastata. Corse giù veloce verso la gola, incendiandola. Si appropriò dei suoi polmoni che quasi esplosero per la potenza dell’ossigeno in espansione. Non respirava così a fondo da anni. La nebbia grigia si diradò, la sua mente rivide ciò che era stato nitidamente, con i giusti colori e le sensazioni che lo colpivano come se fosse la prima volta che le viveva. Come se stesse guardando davvero i corpi di James e Lily, il dito di Peter che cadeva a terra e la strada che saltava in aria, e non un foglio di giornale da cui nove persone e un topo senza un dito lo guardavano sorridenti. I suoi occhi di nuovo vispi corsero alla data: erano passati dodici anni. Undici ottobre si erano alternati in quell’angoscia che, dopotutto, non era infinita. Alzò lo sguardo e trovò Caramell ancora lì a fissarlo, cercando di dissimulare lo stupore di averlo trovato così presente, così poco folle, così sano. Non sapeva di essere stato lui stesso a portargli la salvezza.
 
Qualche tempo prima aveva notato una certa agitazione. I prigionieri, dalle celle dei piani inferiori, avevano preso a urlare ma non erano state le solite grida stridule di angoscia né gli insulti rivolti alle cieche guardie inumane: avevano chiesto pietà, proclamato la propria innocenza, chiamato qualcuno. I Dissennatori a guardia della porta si erano allontanati dalle sbarre e il solito squarcio nel mare di oscurità si era aperto, dandogli un briciolo di lucidità. Si era aggrappato all’immagine del viso di Harry per non perderla e si era costretto ad alzarsi, lentamente, e avvicinarsi alla porta di ferro per scrutare il corridoio. Un uomo basso e panciuto era stato intento a camminare con piccoli passetti veloci tenendosi rasente al muro e rigirandosi nervosamente un cappello verde tra le mani, come se avesse avuto uno spiacevole compito da assolvere e avesse voluto andare via di lì alla svelta, sbirciando nei cubicoli e distogliendo lo sguardo velocemente dai prigionieri imploranti. Al suo fianco un altro uomo, più alto e slanciato, aveva elencato con inadeguata baldanza le caratteristiche del braccio di sicurezza, dove i Dissennatori non abbandonavano mai la porta delle celle, incedendo dietro a un argenteo basset hound. L’aura protettiva del Patronus era dilagata verso di lui facendo cadere a pezzi il buio attorno a lui, il cane si era avvicinato e lui aveva preso a respirare di nuovo. Si era aggrappato con tutte le sue forze alle sbarre e Caramell era quasi andato a sbattere con la faccia roteante contro la sua, tanto che per lo spavento l’omino aveva fatto un balzo all’indietro; aveva attutito la caduta con le mani e nel gesto il giornale ripiegato che teneva sotto il braccio era caduto a terra, così per sfoggiare la sua ritrovata spavalderia più che per vero desiderio aveva chiesto al Ministro il giornale, adducendo come scusa un’inesistente passione per i cruciverba, e lui gliel’aveva porto con aria sconcertata. Mai, mai Sirius avrebbe potuto immaginare quello che aveva visto appena l’aveva aperto. Era stato allora che aveva ripreso a respirare davvero.
 
Un ghigno, pallido fantasma di ciò che era stato, prese forma sulla sue labbra e Caramell si allontanò dalle sbarre, spaventato. Forse dopotutto lo riteneva folle davvero. Chi mai avrebbe sorriso, ad Azkaban?
 
 
 
Respira, respira, che l’aria è più fina,
Respira, respira, l’ossigeno in vena.
 
Il mare mi piace di più, nasconde molte cose che nel cielo vedi chiare,
e quello che cerco è che tu non abbia ancora troppe cose vere da sputare.
 
 
 
Il mare. Lo vedeva per la prima volta da quando era entrato in quella cella, lì, oltre le grate della feritoia, impazzava furioso spinto dal vento. Scuro, di un blu così intenso da parere nero, rifletteva il cielo plumbeo e oscuro, carico di cattivi presagi. Ma non per lui. Da quando aveva letto l’articolo in prima pagina sulla Gazzetta del Profeta un nuovo appiglio era stato offerto alla sua mente. Più forte di qualunque cosa, del rimorso, della disperazione, dei Dissennatori, il desiderio di vendetta e quello di protezione ardevano in lui come un talismano. Uccidere Peter, proteggere Harry. Non riusciva a pensare ad altro. Il mare era la sua speranza: il collegamento col mondo dei vivi, quello che doveva disperatamente raggiungere. Ma come arrivare al mare? Quella domanda era diventata un’ossessione. Il suo cervello lavorava febbrilmente alla ricerca di una scappatoia. Era senza bacchetta, non poteva uscire dalla gabbia; e anche se fosse scappato dalla cella, come avrebbe potuto superare centinaia di Dissennatori? Il suo talismano non sarebbe stato abbastanza potente. Cosa poteva fare? Se solo ci fosse stato James, avrebbe saputo cosa fare. Remus, il saggio, avrebbe trovato la strategia migliore. I suoi Malandrini l’avrebbero aiutato, come sempre; i Malandrini si difendevano l’un l’altro. Come quando James l’aveva accolto a casa sua, come quando avevano nascosto James e la sua famiglia da Voldemort, come quando correvano insieme nel parco di Hogwarts per proteggere Remus da se stesso, dalla sua solitudine. Erano insieme, erano felici, sotto la luna piena che mostrava, dall'alto della sua posizione privilegiata, tutti i segreti che il buio celava. Un cervo, un lupo e un cane. Un cane.
 
Un cane. I Dissennatori erano ciechi. Non avevano potere sugli animali. Non l’avrebbero percepito come umano, non avrebbero saputo che era fuggito, non avrebbero dato l’allarme in tempo. Ce la poteva fare. Poteva correre da Harry, poteva uccidere quello sporco traditore, poteva dire la verità a Remus. Lui non l’avrebbe più guardato con disprezzo, non l’avrebbe odiato. O forse sì? Forse l’avrebbe odiato perché non aveva avuto fiducia in lui, perché non gli aveva rivelato dello scambio. Perché l’aveva creduto un traditore. Stupido. Come aveva potuto dubitare di Remus? Forse l’avrebbe odiato per avergli portato via James, affidandolo a un lurido topo di fogna, o per averlo lasciato solo, solo com’era stato prima di conoscere i Malandrini. Quante strazianti verità gli avrebbe urlato in faccia? Quanto disprezzo avrebbe visto nei suoi occhi? Ma non poteva pensarci, o il grigio sarebbe tornato. Doveva restare lucido. Il volto di Harry bambino tornò davanti ai suoi occhi. Sì, doveva uscire.
 
 
 
La fine mi piace di più, hai solo un letto caldo e spento ancora da rifare,
e quello che spero è che tu ai piedi di quel letto possa dirmi: “c’è un mondo da rifare”.
 
 
 
Era finita. La sua prigionia era finita. Scrutò fuori della cella, aspettando che il Dissennatore si allontanasse un po’, il viso di Harry impresso nella mente. Guardò ancora una volta il pezzo di carta lacero davanti ai suoi occhi: il topo se ne stava inquieto sulla spalla di un ragazzo, un ragazzo che sarebbe tornato a Hogwarts tra poche settimane. E a Hogwarts c’era Harry. Ecco la sua forza. Doveva superare tutto questo per lui, per James e Lily che gliel’avevano affidato, per Remus che non meritava di restare da solo con quel peso sulle spalle. L’avrebbe ucciso, avrebbe raccontato loro la verità, poi sarebbe potuto anche tornare in quel posto a marcire per il resto dei suoi giorni, non aveva importanza.
 
Ma no, quella era una bugia. Non voleva tornare lì. Voleva vivere con Harry, raccontargli di suo padre, farlo ridere, stargli accanto, svolgere il suo compito. Quando l’aveva preso in braccio la prima volta aveva sentito l’irresponsabilità di se stesso ragazzino andare via, soppiantata da un maturo desiderio di proteggere quel frugoletto a costo della sua stessa vita.
 
E poi avrebbe voluto correre con Remus sotto la luna, abbracciarlo, dirgli che si era odiato in quegli anni per aver dubitato di lui, per aver commesso un fatale errore. Errore che era costato cinque vite. Quella di James e Lily, quella di Remus, quella di Harry e la sua, di Sirius. In quel tempo che era parso un lungo istante senza soluzione di continuità, con ogni fibra del proprio corpo non aveva desiderato altro che essere arrivato a Godric’s Hollow mezz’ora prima, o essersi fatto carico della protezione di suo fratello in prima persona; aveva desiderato di essere morto con loro, lì, quella sera; aveva desiderato di essere morto per loro, proteggendoli fino all’ultimo respiro, come sapeva che avrebbe fatto se qualcuno gliene avesse dato la possibilità. Ma ora capiva finalmente perché non era morto, perché in quegli anni non era impazzito: il suo compito era uccidere quel mostro che avevano chiamato amico, il suo compito era proteggere il suo figlioccio. Non aveva ancora finito.
 
Il mantello nero scivolò lontano dalla porta. Lì, ancora seduto su quello che per quasi dodici anni era stato il suo letto, un mucchio di stracci sporchi intiepiditi dal calore che il suo sangue cedeva loro, si mise in tasca la foto e abbandonò la sua forma umana. Un grande cane nero magro fino all’inverosimile, con ogni osso che sporgeva sotto il fitto pelo nero arruffato, prese il posto dell’uomo con il viso scavato ma gli occhi, quei vuoti tunnel grigi, erano gli stessi; e non erano più nemmeno tanto vuoti. Una luce, come da lontano, era arrivata e rischiararli.
 
Si levò dal giaciglio, sicuro sulle quattro zampe, e sgusciò tra due sbarre con facilità. Aggirò il Dissennatore il più silenziosamente possibile, rifugiandosi nelle ombre del muro di pietra e tenendosi distante dalle porte delle altre celle, e si avviò piano lungo il corridoio fino alle scale che aveva salito undici anni prima, quando era stato condotto lì; ma quando le raggiunse non riuscì a mantenere altra cautela e cominciò a correre sempre più veloce giù, sempre più giù, il pensiero fisso al suo obiettivo: raggiungere Harry, occuparsi del suo figlioccio.
 
Poteva ricostruire la sua vita, con lui. Potevano vivere in un mondo nuovo, insieme.
 
 
 
E, respirare, fa pensare un po’ meno a te.
E, respirare, fa tornare dentro di me.
 
 
 
Aria. Aria pura invase i polmoni. Non più mura scure a tenerlo prigioniero. Corse, lasciandosi l’incubo alle spalle, e il viso di Harry scomparve e la sua mente fu invasa da ricordi felici di quando erano tutti insieme, di quando James si passava una mano tra i capelli e Remus cercava di nascondere l’indignazione per il loro ultimo scherzo dietro a un libro e Lily li guardava con occhi fiammeggianti perché avevano bruciato i biscotti. E latrò, il cane, ma il suo latrato era simile a una risata. I ricordi facevano ancora male eppure lo scaldavano dentro, gli davano la forza di correre verso il precipizio. Ora nessuno poteva togliergli la gioia di sentire vicini i suoi amici, e allora capì che loro in quei lunghi anni non l’avevano mai abbandonato. Ottobre era vicino, ottobre sarebbe stato l’inizio del suo riscatto. Il rosso tornò a colorare le immagini, accendendole come un fuoco. Il mare si infrangeva contro il dirupo, onde tanto potenti che, nonostante l’altezza dello spuntone roccioso, gocce di salata acqua fredda arrivavano fin lassù a bagnargli il pelo. Non si guardò indietro. Inspirò forte e spiccò un salto, dritto nello strapiombo.
 
 
 
Respira, respira, che l’aria è più fina,
Respira, respira, l’ossigeno in vena.
 
E tutto ritorna nel solito posto:

ottobre nel rosso, il mare nel fosso.


 
   
 
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