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Autore: Erinys    21/07/2014    1 recensioni
Sono passati sei mesi dalla morte di Sherlock, e John Watson non riesce ancora ad accettarla. Sente di non avere più un motivo per vivere, sente di essere rimasto fermo al giorno del suicidio, finché, una sera, non gli torna alla mente il più strano dei casi che Sherlock non era riuscito a risolvere: "L'uomo con la cabina blu".
"John non faceva altro da mesi, ormai: i suoi occhi erano sempre puntati verso il cielo, a scrutarlo, pronti a catturarne ogni movimento, ogni cambiamento. Perché Sherlock gli aveva detto di fare questo prima di andarsene, gli aveva semplicemente detto di guardare il cielo; nessuna spiegazione, nessun addio, niente di niente, soltanto “guarda il cielo”. E John lo aveva fatto quel giorno, quello della sua morte, dopo essere tornato a casa, ma non ci aveva trovato niente; solo qualche nuvola carica di pioggia, ad annunciare l’avvento di una tipica giornata uggiosa londinese. Nonostante questo, continuava imperterrito a scrutare la volta celeste, nella speranza che un giorno vi fosse stato qualcosa anche per lui, qualsiasi cosa."
Superwholock!crossover
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Un ringraziamento a coloro che hanno letto il primo capitolo, a coloro che hanno aggiunto la storia alle “seguite” e a MarriedwithJo per la sua recensione.
Buona lettura!









John aveva appena finito di vestirsi e adesso si accingeva a uscire di casa. Stranamente quella sera aveva deciso di accettare l’invito di Greg Lestrade per andare a prendere una birra insieme. L’Old Pub distava un po’ da Baker Street, e così il medico optò per arrivarci in taxi. Dio, erano secoli che non usciva per svagarsi; ultimamente metteva piede fuori di casa soltanto per andare a lavoro o per fare la spesa, e non era più abituato a vedere tutta quella gente girovagare nella Londra notturna in cerca di locali, alcolici e divertimento. John si sentiva fuori posto nell’osservare dai finestrini dell’auto tutte quelle persone, che sembravano sprizzare gioia da tutti i pori – molti probabilmente perché erano già ubriachi, nonostante fossero soltanto le nove e mezza-: l’impatto con tutta quella vitalità lo metteva a disagio, lo stava facendo sentire già più spento del solito e pensò che probabilmente avrebbe fatto meglio a rifiutare per l’ennesima volta l’invito dell’ispettore; dall’altra parte, però, quel pomeriggio aveva riconosciuto le ragioni di Greg e aveva concordato con lui sul fatto che dovesse cominciare a uscire di nuovo.
L’ultima volta che John Watson aveva messo il naso fuori di casa per puro piacere era stata quando c’era ancora Sherlock , per una cenetta da Angelo, per festeggiare il fatto che Sherlock fosse riuscito a risolvere un caso particolarmente arduo. Da allora il blogger non aveva più avuto motivo di andarsene in giro: che diamine avrebbe potuto fare da solo? Una passeggiata al parco? In centro? Non ne sarebbe valsa la pena e non avrebbe fatto altro che incrementare quella voragine di solitudine aperta dentro al suo petto.
A ogni modo, dopo circa venti minuti, il taxi si fermò di fronte al locale, dove aveva appuntamento con l’ispettore. Quest’ultimo lo stava salutando davanti all’entrata, agitando la mano sinistra, mentre nella destra stringeva una sigaretta, quasi finita. John gli andò incontro, zoppicando vistosamente – quella sera la gamba, per qualche strana ragione, gli doleva più del solito-, fatto che non passò inosservato a Lestrade.
«Ciao, John! Che hai alla gamba? » domandò, infatti, Greg, facendo gli ultimi tiri prima di entrare.
«Oh, ciao Greg. Questa?- chiese retoricamente, guardandosi la gamba in questione- Niente, ha semplicemente ripreso a farmi male…»
«Mi dispiace…- mormorò seriamente Lestrade, che quasi si pentì di aver formulato quella domanda, intuendo facilmente la causa del ritorno del disturbo psicosomatico dell’altro- Allora, vogliamo entrare dentro a bere qualcosa? »
I due uomini fecero il loro ingresso nel locale, e John ne fu quasi felice: l’Old Pub era un posto estremamente tranquillo, fatto apposta per bere e fare due chiacchiere in compagnia, lontano dagli urlii e dalle musiche ad alto volume che si trovavano solitamente nei pub. Andarono a sedersi in un posto appartato e ordinarono due pinte di birra, giusto per cominciare la serata. Non appena il cameriere tornò con l’ordine, John afferrò il suo bicchiere e bevve il primo sorso: avvertì il liquido ambrato, con un retrogusto leggermente amaro, scendergli fresco fino in gola e si sentì subito meglio, più tranquillo e disposto a parlare con Greg.
«Come vanno le cose a Scotland Yard? »
L’ispettore sospirò sonoramente e inaugurò anche lui la sua pinta, bevendone un sorso.
«Come vuoi che vadano? Male. Ci sono giorno in cui mi licenzierei volentieri!- esclamò, tracciando con l’indice destro l’orlo del bicchiere- Da quando non c’è più Sherlock, le cose non sono più le stesse! »
Nel sentire quelle parole, John abbassò istintivamente il capo e deglutì a vuoto, rabbuiandosi: pensare ciò che Greg aveva appena detto a voce alta era un conto, ma dirlo esplicitamente era un altro, e il blogger non era pronto ad affrontare quest’ultima cosa, perché nessuno durante quei mesi aveva avuto ancora il coraggio di fare quell’affermazione, nonostante molti la pensassero allo stesso modo –John ne era convinto-.
«Scusami, John. Non volevo essere indelicato. »
Il medico si schiarì, allora, la voce e sul suo volto tornò la solita espressione di sempre.
«Non fa niente, tranquillo» disse, cercando di mascherare il più possibile il suo reale stato d’animo.
A questo punto della conversazione, Greg avrebbe dovuto chiedergli come gli andassero le cose, ma, visto il guaio che aveva appena combinato, l’ispettore decise di dribblare la fatidica domanda, facendogliene una più generale, sperando di avere più fortuna di prima.
«Come procede in ambulatorio? Qualcosa di interessante? »
«Va tutto bene, a parte il fatto che la settimana scorsa ho dovuto visitare trenta persone, e nevicava pure! Ci ho messo secoli per riuscire a vederle tutte e sono tornato a casa distrutto!- mentre stava raccontando di quella particolare giornata di lavoro, a John venne in mente ciò che aveva visto mentre stava rincasando, proprio quello stesso giorno- Senti, Greg, c’è una cosa che vorrei chiederti…»
Il medico sapeva perfettamente che l’ispettore Lestrade fosse una brava persona e un grande amico, per questo si era sempre fidato di lui, non come di Sherlock, certo, ma se fosse stato in pericolo, John non avrebbe comunque esitato ad affidargli la sua stessa vita. E poi sapeva del mistero dell’uomo con la cabina, dato che Mycroft lo aveva coinvolto, in quanto “quell’individuo sospetto avrebbe potuto rivelarsi una minaccia per i cittadini londinesi, e dunque Scotland Yard aveva l’obbligo di prendere parte alle indagini”, per cui non avrebbe riso di lui, nell’ascoltare quella storia, o almeno John ci sperava.
«Dimmi pure!” esclamò Greg, felice del fatto che il blogger stesse finalmente cominciando a lasciarsi andare.
John aspettò qualche istante prima di parlare nuovamente, nel tentativo di cercare le parole adatte per spiegare quello che aveva visto.
«Ecco… Nello stesso giorno dei trenta pazienti, mentre stavo tornando a Baker Street, ho visto una cosa strana- fece una piccola pausa e vide Lestrade annuire interessato, per incoraggiarlo a continuare il suo aneddoto- Ricordi quel caso della cabina blu che appariva e scompariva con quello strambo tizio, e nessuno sembrava capirci niente? Eh… Quella cabina blu mi è apparsa davanti agli occhi, quel giorno. »
L’ispettore adesso aveva smesso di incitare John, e anzi: lo guardava con un’espressione indecifrabile sul viso, la bocca semidischiusa; non sapeva cosa dire, e certamente non avrebbe dovuto ridere. Inspirò a vuoto per quattro o cinque volte, prima che riuscisse a formulare una frase decente nella sua mente.
«John, sei sicuro di aver visto bene? Insomma, magari eri stanco e con tutta quella neve ti è sembrato di vedere quella cosa…» suggerì, attento a non ferire l’altro.
«No, ti dico che l’ho vista! E c’era anche quell’uomo, quello che era nei filmati delle telecamere! Ho anche provato a chiamarlo, ma lui è rientrato in quella cabina e poi… sono scomparsi entrambi, come se si fossero dissolti!- affermò con convinzione John; tuttavia l’espressione di Lestrade restava perplessa- Devi credermi, Greg! L’ho vista davvero, ne sono sicuro. »
L’ispettore parve riflettere per qualche momento sulle parole del medico. Anche lui aveva visto quelle foto e quei filmati, quasi un anno prima, quindi quella cabina e quell’uomo dovevano per forza essere reali; dall’altra parte, però, un tizio e una vecchia cabina blu della polizia non possono scomparire nel nulla: sarebbe stato impossibile anche per il più audace dei geni!
«Ascoltami, John. Io ti credo, ma credo anche ciò che credevo quando seguivo questo caso: si tratta semplicemente di uno scherzo! Non è possibile che-»
«Sì, è esattamente quello che credevo anch’io!- proruppe John- E l’ho creduto fino all’altro giorno, quando ho potuto vederlo di persona! Non so come, ma quella cosa, quella cabina riesce davvero a sparire così! »
Il blogger continuò imperterrito a spiegare le sue ragioni a Greg per altri dieci minuti buoni, quando si accorse, però, che Lestrade continuava a restare dell’idea che si trattasse di una buffonata, e così decisero di comune accordo di cambiare argomento.
Dopo essersi salutati, pronti a tornare ognuno alla propria abitazione, John salì di nuovo sul taxi e, mentre guardava fuori dal finestrino, i suoi pensieri corsero inevitabilmente a Sherlock. Lui gli avrebbe sicuramente creduto fino in fondo, riguardo quella stramba storia, anche se non fosse già stato a conoscenza del caso, ed era questo che più gli mancava del detective: la sua follia, che lo portava a voler sperimentare e capire tutto, anche a costo di rischiare la sua stessa vita, come gli era, infatti, capitato molte volte. Sherlock non diceva mai di no a priori, tanto più se giudicava un caso interessante; si metteva sempre in gioco quando si trattava di un mistero, e più complesso era, più si divertiva. John inizialmente non aveva compreso questa sua fissazione per il pericolo e questa sua ossessione di dover capire e scoprire qualunque cosa lo circondasse, tant’è vero che durante Uno studio in rosa, il loro primo caso insieme, era arrivato a pensare che fosse pazzo: dopotutto, chi rischierebbe la vita per mettere in mostra la propria abilità intellettiva? Ma il detective aveva saputo rispondere anche a questa domanda: un genio, una persona come lui.
John non lo avrebbe mai ammesso, forse neanche a se stesso, ma il reale motivo per il quale era arrabbiato con Sherlock stava proprio lì, in quella risposta: se il consulente era davvero tanto intelligente, perché si era suicidato? Perché aveva ceduto al gioco malato di Moriarty, anziché fregarlo con uno dei suoi geniali trucchetti e continuare a fare la solita vita di sempre? Perché aveva dovuto abbandonarlo a tutti i costi?
Ecco, era questo che il medico avrebbe voluto chiedere a Sherlock, quel giorno, sul tetto del Barts, semplicemente questo, nient’altro. Ma John era stato troppo codardo per farlo, o troppo spaventato, e a niente erano valsi tutti quegli addestramenti volti a imparare come controllare le proprie emozioni in situazioni difficili come quella, nel periodo dell’esercito. Non questa volta, almeno, proprio quella che il blogger riteneva fosse stata la più importante di tutta la sua vita, quella che si era portata via l’unico migliore amico che avesse mai avuto.
Gli occhi di John si inumidirono irrimediabilmente. Ed eccola lì, proprio davanti a lui, lampante tra le luci scintillanti della notte di Londra, la grande verità di John Watson: Sherlock Holmes gli mancava, gli mancava come non gli era mai mancato nient’altro o nessun altro, gli mancava come se fosse stato una parte di lui, e più precisamente quella che aveva lasciato una voragine di dolore e disperazione nel suo petto. John si sentiva perso senza il suo detective, come se da solo non avesse alcun senso; Sherlock era diventato per lui la parte che dava senso al tutto, che dava senso alla sua vita, la tessera mancante per completare il suo puzzle, adesso nuovamente incompleto.
 
__________________________
 
 
John correva, correva più veloce di quanto non avesse mai fatto in tutta la sua vita.
Devo salvare Sherlock.
Correva in direzione del Barts; il detective era in equilibrio sul cornicione dell’edificio, pronto a buttarsi.
Il blogger stava per entrare dentro il palazzo, quando un rumore, che gli era familiare, attirò la sua attenzione, e si fermò di colpo. La cabina blu comparve alla sua destra, qualche metro più in là, e da essa fece capolino l’uomo misterioso, che, non appena lo vide, uscì fuori, le braccia incrociate davanti a sé e gli occhi fissi su di lui. John lo osservò per qualche istante, incuriosito, ma poi si voltò nuovamente, pronto a riprendere la sua corsa verso Sherlock. Fu in quel momento che il tizio parlò.
«John Watson! »
L’ex soldato si arrestò e si girò ancora una volta verso quell’uomo. Come faceva a conoscere il suo nome?
E mentre stava per aprire la bocca e fargli quella domanda, l’altro rientrò dentro la cabina, scomparendo con essa.
 
 
John si svegliò di soprassalto, sudato e ansimante, nel suo letto. Con la mano destra si asciugò la fronte imperlata di sudore freddo, mentre la sinistra corse sul petto, a cercare di fermare i battiti accelerati del cuore. Lentamente cominciò a calmarsi e lanciò uno sguardo alla sveglia, notando che segnava le tre di notte, ancora. Scoraggiato e soprattutto sfinito, si rituffò sopra al cuscino, un braccio a coprirgli il volto; era uno di quei momenti nei quali John sentiva la disperazione prenderlo di soprassalto, perché era davvero molto stanco, sia in senso letterale, dato che aveva un gran bisogno di dormire, dopo aver lavorato in ambulatorio per tutto il giorno, sia in senso figurato, poiché quegli incubi continuavano a tormentarlo ancora, e ancora troppo spesso.
E come se non bastasse, stavolta c’era di mezzo anche quella maledettissima cabina blu e quel maledettissimo tizio: insomma, quella notte il suo inconscio aveva deciso di tormentarlo a dovere!
Per quanto ancora sarebbe riuscito ad andare avanti in quel modo? Il medico se lo stava chiedendo, e pensò che non avrebbe retto per molto se non avesse trovato al più presto una soluzione. Ma quale?
L’unica soluzione che gli veniva in mente in quel momento si chiamava Sherlock Holmes, e sarebbe pure stata ottima, se non si fosse suicidata circa sei mesi prima; eppure era l’unica che John riuscisse a pensare. Quella era esattamente una di quelle notti durante le quali la mancanza del detective bussava alla sua porta più forte che mai, e lui sapeva che non avrebbe smesso fino al mattino, finché non si fosse distratto quel minimo sindacale lavorando. In quei casi, scendeva di sotto e, non sapendo suonare il violino com’era solito fare Sherlock, accendeva il suo computer portatile e andava sul suo blog, per rileggere qualche caso, nel tentativo di alleviare quell’agonia. E così fece anche quella volta.
Seduto sulla sua poltrona, John accese il PC e, famelico, cliccò sul sito del suo blog. Subito gli apparve la home con gli ultimi casi che aveva riportato: l’ultimo postato era di circa sette mesi prima; mancava all’appello quello che si era concluso con la morte del detective –troppo doloroso dover mettere nero su bianco la morte del suo migliore amico-. Il medico cominciò a cercare tra l’archivio del sito quello che più gli andava a genio in quell’occasione, ma stranamente non riusciva a trovarne nessuno quella sera.
Era strano, pensò, che cercasse conforto in quel blog: rileggere di tutti quei momenti passati insieme a Sherlock lo faceva stare meglio lì per lì, ma poi le cose tornavano a peggiorare, come se quegli aneddoti fossero diventati una droga per lui; cercava consolazione nel passato, dimenticandosi di dover fare realmente qualcosa nel presente, per tentare di rimettersi in sesto ed elaborare finalmente quel lutto. La sua analista gli aveva, infatti, qualche settimana prima, fatto notare che fosse rimasto ancora alla prima fase di elaborazione della perdita di Sherlock, quella cosiddetta di “disperazione”, e lui aveva riconosciuto che la donna avesse ragione, ma come riuscire a superarla? Certamente non così, questo John lo sapeva perfettamente, ciononostante necessitava di quei ricordi e di credere di poterli rivivere ancora e ancora dentro la sua testa.
L’ex soldato continuò a scorrere con il mouse lo scrollbar dell’archivio, finché non notò sullo schermo una finestra aperta sotto quella che stava utilizzando. Incuriosito, dato che era sicuro di non averla aperta prima, abbassò quella del blog, e lesse ciò che vi era scritto sull’altra: sembrava una pubblicità su una pagina completamente in bianco, tranne che per una grande scritta che troneggiava al centro: “Aprimi”. John la lesse sottovoce, non riuscendo a comprendere che cosa volesse dire, fintanto che qualcuno non cominciò a bussare insistentemente alla porta. Il blogger si voltò di scatto verso quest’ultima: chi poteva essere in piena notte? Di certo non qualcuno che aveva invitato! Si alzò, dunque, lentamente dalla poltrona con l’aiuto del bastone, facendo attenzione a poggiare con cura il computer sul pavimento, e si diresse verso la porta.
«Chi è? » domandò, ma nessuno gli rispose.
Avvertì il sangue fluire sempre più veloce attraverso le vene, mentre un senso di panico gli saliva dallo stomaco, impossessandosi di lui. Poggiò un orecchio sul legno dell’uscio, ma avvertì soltanto dei respiri.
Non poteva restare lì immobile; doveva fare qualcosa, e l’unica cosa che potesse fare era aprire la porta e vedere chi fosse. Così, accettando il rischio di quel gesto avventato, afferrò la maniglia e contò mentalmente fino a tre, poi aprì: uno sconosciuto in giacca e cravatta lo guardava sorridente; corporatura robusta, fronte spaziosa, non molto alto, sulla cinquantina, a giudicare dalle rughe che segnavano il suo volto e dalle leggere sfumature grigie dei suoi capelli. Il medico lo osservò confuso.
«Buonasera, John. Allora è qui che vive?! Il famoso blogger del 221B di Baker Street!- esclamò l’uomo, oltrepassando John e facendosi strada nel soggiorno- C’è parecchio disordine, vedo…»
L’ex soldato richiuse la porta e si girò verso quel tizio, adesso più confuso che spaventato. Vide l’altro guardarsi intorno, per poi andare a sedersi sulla poltrona di Sherlock.
«Chi diamine è lei? » chiese John irritato da quel gesto. Nessuno poteva sedersi lì sopra, nessuno.
«Diciamo che sono qui per aiutarla» rispose lo sconosciuto, tranquillo, sfoderando, però, un ghigno decisamente poco rassicurante.
«Chi la manda a quest’ora? Mycroft? E’ dei servizi segreti? Del Governo? Per chi lavora? » lo incalzò il medico.
«Piano, piano! Non c’è bisogno di tutta questa fretta!- proruppe l’uomo, sorridendo- No, non mi manda nessuno, né lavoro per nessuna delle organizzazioni che ha appena elencato, e, riguardo all’orario, mi è… diciamo… sembrato opportuno venire ora. Non potevo aspettare!- fece una piccola pausa; John era sempre più infastidito dal tono così tranquillo e innaturale che utilizzava e da quel ghigno stampato costantemente sul volto- Lavoro per una sorta di grande compagnia, sa?! Più precisamente, mi occupo di affari-»
«E in che modo dovrebbe essermi utile un tizio che si occupa di affari? » lo interruppe ironicamente John.
«Mi faccia finire, la prego. Stavo dicendo che mi occupo di affari nel campo delle anime. »
Il blogger corrugò la fronte, rimanendo in silenzio per qualche istante; poi scoppiò a ridere sonoramente. Che diavolo di scherzo era mai quello?!
«La prego,- cominciò John, cercando di smettere di ridacchiare- non ho tempo da perdere con stupidi scherzi come questi. E poi sono molto stanco; vorrei tornare a dormire, se non le dispiace. Comunque, carina anche l’idea della pagina sul computer: molto suggestiva! »  esclamò, raggiungendo la porta e aprendola nuovamente, facendo cenno a quello sconosciuto di andarsene.
Quest’ultimo lo guardava, adesso, seriamente, gli occhi stretti in due fessure; si rialzò in piedi, dirigendosi verso l’uscita.
«Non intendo insistere, signor Watson- disse piano, già sulla soglia, pronto ad andarsene- Se non mi crede, faccia pure, ma le darò un consiglio da amico: licenzi la sua analista, perché è un’incapace, e la smetta di rifugiarsi in quel blog: non le riporterà indietro il suo amato Sherlock Holmes! Provi, piuttosto, a uscire più spesso con quell’ispettore. Chissà? Magari le passeranno gli incubi, senza contare che…  com’è che si dice? Ah, sì: l’amore è dietro l’angolo, no? Arrivederci. »
John rimase sconvolto dalle parole di quel tizio: come faceva a sapere tutte quelle cose? Come faceva a sapere della sua analista e dei suoi incubi? E come faceva a sapere che era uscito con Lestrade? Chi era davvero quell’uomo? Senza pensarci, il medico afferrò lo sconosciuto per un braccio, prima che iniziasse a scendere il primo gradino, e lo sbatté contro la parete, poggiandosi di peso su di lui, per non farlo scappare.
«Chi è lei? » gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
«Oh, non così vicino, John Watson- lo schernì l’altro, indicandogli con lo sguardo il contatto tra i loro corpi;
la mano sinistra di John, ancora libera, scattò, allora, al suo collo, pronta a strangolarlo- Così non respiro…»
«Chi è?- urlò ancora più forte il medico- Me lo dica, subito! »
La presa sul collo dell’altro si fece ancora più stretta di prima, mentre la rabbia coglieva il blogger in ogni singola cellula del suo corpo, gli occhi scintillavano di cattiveria e disperazione; un fremito di paura colse lo sconosciuto, John lo avvertì.
«Crowley, mi chiamo Crowley- disse l’uomo con voce strozzata- Sono un demone… Sono il re
dell’Inferno. »
 John lasciò andare di colpo quel tipo, come se fosse diventato improvvisamente incandescente, e si allontanò, guardandolo disgustato: come poteva prendersi gioco di lui fino a quel punto? Il medico era stanco, sempre più stanco e non aveva affatto voglia di scherzare con quel tizio, né di arrabbiarsi ancora.
«Mi ascolti,- disse, perciò, calmo- se lei si diverte in questo modo va bene, ma lasci me in pace. Non so come faccia a sapere tutte quelle cose e, a questo punto, neanche mi interessa. Mi faccia il favore di andarsene adesso. »
«Non mi crede?- mormorò Crowley, massaggiandosi il collo arrossato- Posso dimostrarglielo, se vuole. »
«I demoni non esistono! Sono tutte cose di fantasia! » esclamò John con un ghigno.
«Oh, sono certo che rimarrebbe sorpreso nello scoprire quante cose “ di fantasia” esistano davvero!- il demone si fermò, rimettendosi completamente in piedi e stiracchiandosi i vestiti sgualciti- Allora, vogliamo fare questa prova? »
   
 
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