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Autore: Emily Kingston    21/07/2014    1 recensioni
Il giorno in cui se n’era andata dalla Città Infinita, era stato il giorno in cui si era lasciata la sua vecchia vita alle spalle, il suo migliore amico compreso, e non c’era nessuna ragione per cui volesse rivederlo. Eppure, in quel momento, sentì uno strano senso di familiarità pervaderle il corpo, come se solo all’udire la voce di lui fosse riuscita veramente a ritornare a casa.
[...]
“Perché te ne sei andata?”

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Seconda classificata al contest a turni 'Tutti i generi più uno!' indetto da aturiel sul forum di EFP
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bar Mellyn


 
 
Lo strapiombo con le altalene era l’unico posto dove Vega si sentisse al sicuro.
Nessuno sapeva da dove fossero arrivate o dove finissero, o se ci fosse qualcuno che, dall’alto, ne teneva le catene, permettendo a loro di non cadere nel vuoto.
C’erano tante leggende legate allo strapiombo con le altalene; i vecchi elfi le raccontavano ogni sera, attorno al fuoco, quando Vega era piccola.
Qualcuno diceva che fossero stati i giganti a fissarle alle nuvole, mentre altri parlavano di un regalo che la Regina delle Fate Perdute aveva fatto agli elfi della Città Infinita. Tutto quel che Vega sapeva sulle altalene, era che sua madre la portava sempre lì quand’era bambina e che a spingerle erano i venti che salivano dallo strapiombo.
Vega aveva lasciato la Città Infinita dopo la morte di sua madre, quando non le era rimasto più niente che la tenesse legata a quel posto. Si era trasferita nella Città d’Argento, ai confini della Terra degli Elfi, vicino alle città sotterranee dei nani. Era stato lì che una vecchia Guaritrice le aveva spiegato come mai stava iniziando a non vederci più ed era stato sempre lì che Vega aveva visto gli ultimi paesaggi della sua vita; gli ultimi volti e colori.
Adesso, per lei tutto era ugualmente nero e senza forma.
Certe volte, quando qualcuno descriveva un tramonto o un dipinto, Vega rimpiangeva i tempi in cui i suoi occhi le avevano permesso la vista. Rimpiangeva le guglie verdi e scintillanti della Città Infinita, gli occhi viola di sua madre e i suoi capelli scuri.
Non era più tornata alla Città Infinita da quando se n’era andata, ma quell’anno aveva sentito il bisogno fare visita alla tomba di sua madre. Non sapeva perché, non c’era mai stata dopo la sua morte e non aveva mai neanche sentito la necessità di farlo, dato che non avrebbe visto altro che una fitta coltre di nero penetrante. Semplicemente, una notte, aveva sognato i ricordi che aveva di lei e la nostalgia le aveva fatto ammalare il cuore.
I rumori della città erano gli stessi che ricordava e, nonostante la perdita della vista, la memoria le aveva mostrato la strada, conducendola al cimitero sulla collina, poco fuori il centro della città. Aveva trovato la tomba di sua madre con l’aiuto del becchino, un vecchio elfo che diceva di ricordarsi di lei. 
L’aria fresca della Città Infinita la colpì sul viso appena giunse sulla cima della collina e Vega si rese conto che il caldo dell’entroterra le era pesato nel corso degli anni.  Così come si rese conto che la città stessa le era mancata, quando trovò Leo inginocchiato davanti alla lapide di sua madre.
Il giorno in cui se n’era andata dalla Città Infinita, era stato il giorno in cui si era lasciata la sua vecchia vita alle spalle, il suo migliore amico compreso, e non c’era nessuna ragione per cui volesse rivederlo. Eppure, in quel momento, sentì uno strano senso di familiarità pervaderle il corpo, come se solo all’udire la voce di lui fosse riuscita veramente a ritornare a casa.
Non si erano parlati molto al cimitero, per questo lui poi l’aveva invitata alle altalene, il suo posto preferito e il luogo dove si erano incontrati.
E quindi eccola lì, a cercare a tentoni una catena, pronta a dondolare nel vuoto.
“Sono dietro di te,” disse una voce, ma Vega non sobbalzò, perché aveva sentito i suoi passi molto prima che lui parlasse. Diventata cieca aveva dovuto affinare gli altri sensi, soprattutto l’udito, perché se c’era una cosa che Vega si era sempre tenuta stretta era la sua indipendenza.
“Ti avevo sentito,” rispose.
L’altalena accanto a lei cigolò, segno che il ragazzo si era seduto e stava iniziando a dondolare. Le altre, tutte allineate le une accanto alle altre lungo lo strapiombo, si muovevano appena a ritmo del vento.
Leo non parlò per molto tempo e Vega si godette il silenzio, assaporando la sensazione dei piedi che penzolavano nel vuoto e del vento che le scompigliava i lunghi capelli scuri.
Aveva preso i capelli di sua madre, così neri e lisci, e gli occhi di suo padre, chiari, un tempo scintillanti e adesso ricoperti da una patina opaca.
Il giorno in cui era partita dalla Città Infinita, non era andata a salutare Leo. La sera prima l’aveva stretto forte contro il petto, baciandogli infinite volte i capelli chiari, e poi se n’era semplicemente andata, lasciandosi alle spalle solo il ricordo dei loro giorni felici.
All’epoca, non sapeva cosa l’avesse spinta fino alla Città d’Argento, come mai si fosse ostinata a credere che non ci fosse più nulla a tenerla ancorata sulla costa, nella Città Infinita. Perché c’era, qualcosa: c’era Leo, il suo amico di una vita e l’unico che le avesse iniziato a descrivere i tramonti quando i suoi occhi facevano i capricci, l’unico che aveva sempre tempo per lei. Eppure, Leo non era bastato a Vega per rimanere.
Trasferitasi nella Città d’Argento aveva trovato lavoro presso la Guaritrice che le aveva diagnosticato la malattia agli occhi; essendo cieca, non poteva aiutarla a curare i malati, ma poteva gestire la bottega in cui la donna vendeva filtri e piante medicinali. Se ne stava dietro al bancone tutto il giorno, pronta a dare ai clienti quel che loro serviva. Per fare quel lavoro aveva dovuto imparare a memoria la collocazione di ogni boccetta o sacchetto di erbe, istruendo la Guaritrice affinché non spostasse mai loro il posto quando riforniva le scorte del negozio.
Grazie ai guadagni della bottega aveva potuto comprarsi una casetta nel bosco, un po’ isolata dal resto della città, nella quale aveva vissuto per un periodo con Ametista, una giovane elfa che aveva conosciuto alla bottega. Poi Ametista era tornata a vivere con la famiglia e Vega era tornata ad essere sola.
Nonostante fossero passati ormai quasi dieci anni dalla morte di sua madre, Vega non aveva amici nella Città d’Argento, esclusa la Guaritrice. Non aveva niente, Vega, perché s’era abituata a disfarsi di tutto, per non avere più niente da perdere.
“Perché te ne sei andata?” chiese Leo all’improvviso e Vega sentì la sua mano sulla propria. Aveva la pelle liscia e morbida come un tempo. Come quando si stringevano la mano stesi sul tetto di casa sua, nelle calde notti d’estate, e fissavano le stelle, giocando a riconoscere le costellazioni e l’età di ognuna di esse.
“Perché dovevo farlo.”
“Non è vero.”
Vega sospirò, facendo sgusciare via la mano da quella di Leo. Non lo sapeva perché se n’era andata, l’aveva fatto e basta. Dopo aver perso la persona a cui più voleva bene al mondo, l’unica famiglia che aveva, Vega aveva sentito di non voler avere più nulla. Il dolore, la perdita erano troppo grandi per sopportarli ancora.
“Perché non me ne hai parlato? Perché te ne sei andata e basta?”
Vega non voleva tornare alla Città Infinita, perché non voleva rivivere quel dolore. Non voleva rivivere gli ultimi respiri di sua madre, morta davanti ai suoi occhi di una brutta polmonite; non voleva rivivere quell’ultimo abbraccio con Leo. Non voleva sentire le sue domande, perché lei stessa si era celata la risposta per tutti quegli anni.
Rimase in silenzio, il vento che sospingeva l’altalena un pochino più forte.
“Avevo paura,” confessò infine, la voce quasi un sussurro. “Di perdere anche te.”
Non seppe quale fu l’espressione di Leo alle sue parole. Non seppe cosa successe nei silenziosi minuti che seguirono. Seppe solo che le braccia del suo migliore amico afferrarono la catena della sua altalena e che, pochi istanti dopo, non sapeva come, era seduta sulle sue gambe e stretta tra le sue braccia.  E stava piangendo. Leo, stava piangendo.
“Non mi avresti mai perso,” rispose. “Non… Non devi scappare dalle cose che ami perché non vuoi perderle, Vega. Perché è peggio non avere niente.”
Vega non rispose, affondando il viso nel suo petto. Come tutti gli uomini della sua razza, Leo aveva il fisico asciutto, senza muscoli né grasso. Le mani erano affusolate e le dita lunghe, la pelle leggermente olivastra, gli occhi un pochino a mandorla e le orecchie a punta. E in quel momento, nell’oscurità della sua cecità, Vega se l’immaginò adulto. Quel corpo giovane che aveva studiato per anni, lo immagino cresciuto: più alto, con un accenno di barba sul mento, più bello.
“Questo è sempre stato il mio posto preferito,” disse Vega, la voce spezzata da singhiozzi della cui comparsa non si era resa conto.
“Lo so.”
“Mi dispiace.”
“Lo so.”
“Ti voglio bene.”
“Lo so.”
Leo le baciò i capelli, stringendola ancora più forte contro il petto. Vega strofinò il viso contro la sua maglietta, assaporando il suo odore salmastro. Gli avvolse le braccia attorno ai fianchi e poi ricordò di quando correvano sulla spiaggia, i piedi bagnati dall’acqua del mare.
“Mi sei mancato da morire.”
Lo immaginò che sorrideva mentre le lasciava un altro bacio tra i capelli scuri.
Forse, dopo quella visita alla Città Infinita sarebbe tornata laggiù, sulla costa, a cercare di riprendere la sua vita dal punto in cui l’aveva interrotta. Avrebbe abbracciato la Guaritrice e avrebbe trovato qualcuno che la sostituisse alla bottega, avrebbe venduto la sua casetta nel bosco e poi sarebbe tornata a casa sua.  Sarebbe tornata a vivere, finalmente.
“Anche tu, Vega. Anche tu.”

 


Note 
Il titolo della storia è la traduzione in elfico delle parole casa (= bar) e amici (= mellyn). Dato il tema della storia, mi sembrava molto azzeccato sia inserire un titolo in lingua elfica, sia usare proprio le parole 'casa' e 'amici' (a quanto pare, in elfico non esiste la parola amicizia - almeno, secondo i frasari che ho guardato io). 
Il fantasy è un genere che mi è sempre piaciuto molto leggere, ma non sono mai stata brava a scriverci su. Potrei dire che questa è la prima storia fantasy che porto a termine, quindi non so che cosa ne sia uscito fuori. 
Per i nomi dei personaggi ho voluto usare dei nomi di stelle e pietre, anziché nomi tipici elfici, e, in questo, ho un po' scopiazzato Licia Troisi, in realtà (per chi ha letto le Cronache del Mondo Emerso, Nihal è il nome di una stella), però l'ispirazione mi ha portato in quella direzione e ho voluto seguirla. 
Non so se questa storia sia degna di stare qui o di partecipare a un qualsivoglia contest; io ci ho provato e sono fiera di essermi messa alla prova, nonostante tutto. 
Grazie a tutti quelli che leggeranno e a quelli che lasceranno una recensione. Spero di non avervi delusi. 
Un bacio, 
Emily. 
   
 
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