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Autore: Martu89    05/09/2008    1 recensioni
Racconto autobiografico, seppur romanzato, del mio ultimio giorno di liceo.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: Il titolo della storia è tratto da “Ci troveranno qui” di Emanuele Dabbono

Nota: Il titolo della storia è tratto da “Ci troveranno qui” di Emanuele Dabbono.

 

 

Ti svegli e con gli occhi ancora impiastricciati dal sonno metti a fuoco il mondo attorno a te. Nulla è cambiato. È ancora la tua stanza. Ma all’improvviso realizzi. È l’ultimo giorno di scuola. L’ultimo giorno. Attendi l’ultimo giorno del liceo dal secondo giorno della prima. Non dal primo perché all’epoca eri ancora troppo ingenua e infatuata dalla nuova ed esaltante vita scolastica.

Eppure sul momento non sei sicura di esserne felice, dopotutto. Davvero questi anni sono stati così terribili?

Ti vesti e ti prepari con gesti meccanici, sono attività che negli ultimi anni della tua vita hai fatto senza nemmeno accorgertene.

Poi esci e ti dirigi scuola. Sembra tutto normale. Sembra un giorno come tanti altri.

Arrivi davanti a scuola ed eccoli, i tuoi compagni di classe. Non tutti ovviamente, ma solo i soliti quattro o cinque da sempre più mattinieri di te.

Ti pare che tutto sia uguale, eppure avverti che c’è qualcosa nell’aria. Qualcosa di diverso, che stranamente ammutolisce tutti.

Al contrario di tutte le mattine degli ultimi anni, non c’è nessuno che si lamenta di quanto sia una giornata inutile e di come sarebbe stato meglio starsene nel letto a dormire. Nessun febbrile ripasso dell’ultimo minuto prima di un compito in classe o un’interrogazione. Nessun riassunto frettoloso dei brani da leggere per italiano. Nessuna consultazione comunitaria riguardo la versione di latino.

Qualcuno timidamente inizia a parlare, e spezza quel silenzio carico di malinconia.

Domanda qualcosa dell’esame ed è sommossa generale. La maturità è un argomento tabù, almeno per oggi. Domani si vedrà.

L’atmosfera però finalmente si riscalda. Le battute, le risate e le chiacchiere tornano ad avvolgervi come al solito.

Poi  la campanella trilla: quel suono è sempre stato una condanna.

Sali le scali e arrivi al tuo piano senza fiato, possibile che in un anno intero ancora non ti ci sia abituata?

Dai il buongiorno alla bidella e ti dirigi verso la tua classe, quella infondo al corridoio.

Entri in aula e fatichi a respirare, tanto l’aria è stantia e calda. Un po’ perché l’estate è ormai alle porte, un po’ perché in quella classe c’è sempre stata puzza di chiuso.

Siete titubanti per come disporvi in aula. Oggi non si fa lezione. Non c’è uno schema di banchi da rispettare, che poi quasi mai veniva seguito.

Appoggiate le borse dove capita e si iniziano a tirare fuori le cibarie per festeggiare.

Ma cosa c’è da festeggiare? Il fatto che la maggior parte di voi non si vedrà mai più? Che da questo giorno in avanti sarà tutto diverso? Che ora il futuro è più incerto che mai? Che avrete a breve un esame che si crede in grado di giudicarvi?

Così crucciata nei tuoi pensieri, ti siedi in un angolo e osservi i tuoi compagni di classe, guardando con attenzione i loro volti.

Citando la tua prof di filosofia, ti viene spontaneo pensare che la vita è una cosa meravigliosa.

Guardatevi.

Siete persone talmente diverse. Con la maggior parte di loro non hai nulla in comune. Eppure siete stati insieme cinque anni. Non sono pochi. Sono tutta l’adolescenza, quel periodo tanto difficile, che alla fine pensi non sia stato poi così male.

Siete stati una grande famiglia. Vi siete amati e odiati. Vi siete insultati e abbracciati. Avete litigato e vi siete consolati.

Li ami tutti.

Dal primo all’ultimo. Dal più timido al più estroverso. Dal più secchione al più svogliato. Dal più simpatico al più stronzo. Dal più politicizzato al più menefreghista.

Senza di loro, anche senza uno solo, tu non saresti stata la stessa. E lo sai.

Una delle tue compagne di classe ti si avvicina e ti abbraccia. Le mancherai tanto. Anche lei ti mancherà. Mormori parole di conforto. Le dici che vi rivedrete, che quella è solo la fine della scuola e non della vostra amicizia. Poco importa se studierete in città diverse, vi terrete in contatto. Eppure, quelle parole non ti convincono. Conosci i brutti i scherzi della lontananza.

Per mandare via quell’ombra di tristezza, iniziate ad osservare l’aula e i poster e i fogli che avete appeso negli ultimi nove mesi.

Dalla tua bocca escono parole di una banalità sorprendente. Il tempo è volato. Già, è terribilmente vero. Era ieri, te lo ricordi, era proprio ieri. Eravate nella vecchia sede, in quell’aula magna che cadeva a pezzi. Eravate l’ultima classe ad essere chiamata. Quando anche la penultima classe se n’era andata, vi eravate guardati con occhi pieni di curiosità ed ansia. Ecco le persone con le quali avresti diviso i prossimi anni della tua vita. Ne sarebbero stati all’altezza? Eccome se lo erano stati.

La vostra attenzione viene poi catturata dalla foto appesa alla porta. Ti ricordi bene dov’era stata scattata. Quell’esatto istante si era impresso nella tua mente in contemporanea al flash della macchina fotografica.

Barcellona.

Come dimenticare Barcellona?  Forse il viaggio più bello della tua vita.

Ricordi ogni dettaglio di quella gita. Le meraviglie della città e Gaudì. La delusione di camminare nella Rambla, perché esageratamente turistica. L’immancabile Sundee al cioccolato dopo cena al McDonald poco lontano dall’albergo. Le serate in quell’orrida discoteca dentro al Mare Magnum, la cui unica nota positiva era che si potevano prendere due drinks al prezzo di uno. Ma soprattutto quelle splendide nottate insieme, in quindici su tre letti. Tra massaggi, risate, abbuffate di schifezze, birra e cazzate. Notti di cazzate. Notti che ripeteresti all’infinito. Notti insieme alle persone più importanti della tua vita.

Prima però che tu ti perda definitivamente nell’abisso dei ricordi, i tuoi compagni richiamano la tua attenzione.

E così passano le ore di quella mattina. Passano come al solito. Siete voi. Siete sempre voi. Sembra un giorno come un altro.

Sembra.

Perché giunge immancabile il tuono della campanella.

Il mondo improvvisamente si ferma.

Vi guardate negli occhi tra voi. Ma non c’è tristezza, no. Solo incredulità. Alcune domande vi accomunano tutti: e ora? È la fine? Che ne sarà di noi?

Il futuro è un grande buco nero, nel quale dovrete buttarvi, non importa se tuffandovi a pesce o calandovi con una corta. Dovrete farlo. È il vostro destino inevitabile.

All’improvviso le grida festanti dei ragazzi delle classi inferiori vi riportano alla realtà.

“I soliti bambini,” mormorate tra di voi.

Che poi, volendo essere sinceri, anche voi eravate i soliti bambini. E urlereste di gioia anche ora se davanti a voi non ci fosse il baratro.

Ti volti un attimo e le vedi. Le prime lacrime. Non le tue. Ma quelle di una compagna di classe, che alla fin fine era sempre stata la più emotiva. Tu trattieni il pianto strenuamente. Non ti hanno mai vista piangere e non sarà di certo questa la prima occasione. Non che dentro di te non ti stia disperando. Le tue lacrime di rado arrivano agli occhi, perché più profonde continuano a macerare dentro di te.

E poi abbracci, baci e lacrime furtive asciugate velocemente con la manica della maglia.

I “ci vediamo domani” muoiono sulla punta delle labbra. E non ne resta che un vago “ci vediamo…” Un giorno, presto, mal che vada alla Prima Prova.

Pian piano l’aula si svuota. E siete rimaste in quattro. Voi quattro che siete sempre state le ultime ad uscire.

Lanci un’ultima occhiata alla classe, alle sedie sparse a caso, alla cattedra ormai vuota, alla vostra adolescenza spesa lì dentro, insieme a quella di altre centinaia di studenti passati di lì-

Stacchi la foto dalla porta ed esci.

A passi lenti attraversate il corridoio. Lanci sguardi ovunque, come per scattare più istantanee di ricordi possibili. E da un momento all’altro ti aspetti che la regia metta su Jeff Buckley e la sua “Halleluja”. Perché, davvero, quella scena sembra presa da un telefilm.

Ad un certo punti la scorgi, la tua fidata amica: la fotocopiatrice. Quante volte ti aveva salvata negli ultimi cinque anni? I compiti di latino la mattina, i bigliettini l’ora prima di un compito in classe (prima rimpicciolire a 50 poi a 70), e gli appunti infiniti di filosofia e Dante, gentilmente sempre offerti dalla tua migliore amica.

Infine, l’ultima persona da salutare: la bidella. Lei che è sempre stata dalla vostra parte. Che suonava cinque minuti prima il sabato, perché sapeva che matematica all’ultima ora era un suicidio. Che veniva a leggere le circolari solo durante le ore che chiedevate voi. Che ti intratteneva a chiacchierare venti minuti ogni volta che uscivi dalla classe. L’abbracci con calore, e le prometti che la verrai a trovare il prossimo anno. Lei fa finta di crederci.

E alla fine iniziate a scendere lentamente le scale.

Tra voi quattro c’è un silenzio pesante di pensieri. Butti lì una battuta, com’è nel tuo stile. Ma la voglia di ridere è poca e la malinconia, invece, è tanta. Ammutolisci e continuate a scendere senza parlare.

Giungete finalmente alla porta d’uscita, la spingi per aprirla, e quando la senti chiudersi alle tue spalle, ti rendi conto che anche un capitolo della tua vita è ormai giunto al termine.

 

  
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