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Autore: Haromi4o    26/07/2014    0 recensioni
Si sa, la vita di un innamorato non è affatto semplice. Le fasi di corteggiamento in cui uno fa di tutto per non rendersi completamente ridicolo, le pene d'amore e le interminabili domande che ci si pone la notte senza essere in grado di chiudere occhio, ripensando tutto il tempo a quell'unico altro essere vivente che è in grado di farci battere il cuore. No, non è semplice. Se poi si aggiunge il fatto di essere grandi come un chicco di riso, avere un paio d'ali, sei zampette pelose e occhi come palline da golf catarifrangenti la situazione non migliora di certo!
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Col passaggio della pestilenza il mondo aveva cambiato volto.

La quiete irreale nelle campagne aveva l'amaro sapore della malattia mentre i roghi contro la diffusione del morbo avevano dato luogo a incendi che avevano arso buona parte dei campi circostanti. In quella triste desolazione pure il sole sembrava non riuscire a brillare più nello stesso modo.

I superstiti andavano avanti con quello che trovavano, prede dell'istinto primitivo di sopravvivenza, si erano sparpagliati nelle fattorie abbandonate spostandosi come animali randagi da un posto all'altro alla continua ricerca di cibo. Non c'erano più regole civili o morali tra quelle rovine, solo la legge del più forte regnava incontrastata mentre la voglia di rimboccarsi le maniche e ricominciare ancora stentava a sbocciare.

 

Dall'abbandono della villa anch'io avevo cominciato a vagare per le campagne svuotate in completa solitudine. All'inizio cercai di tornare in quella che era stata la casa dei miei genitori, ma fu un tentativo vano e quantomai doloroso. Non avevo più nessuno ad attendermi tra quelle mura né un altro posto in cui andare. Ero completamente solo e senza meta. Fu forse a causa di questo che senza accorgermene in un momento imprecisato della mia disperazione scivolai anch'io in quello stato d'animo comune a tutti i sopravvissuti e mi abbandonai completamente a quell'istinto primordiale con l'unico scopo: tirare avanti, un giorno dopo l'altro.

 

La salvezza sopraggiunse sotto forma di un colorato e rumoroso tendone da circo in una fredda mattina di inizio inverno.

 

Il mio errare mi aveva portato nei pressi di una cittadina ancora affollata e ridente che non sembrava aver subito le influenze venefiche della pestilenza. Quel posto era ricco di cibo e di vestiti e di tanti altri oggetti di cui nessuno notava la mancanza e non fu difficile per me, piccolo e svelto come ero, imparare a soffiare sotto il naso di fornai rubicondi e massaie indaffarate ogni genere di mercanzia. Mi ero fin creato un rifugio sotto una vecchia stalla in disuso con l'obiettivo di fermarmi in quel paese della cuccagna il più a lungo possibile.

Ma non avevo tenuto conto dell'inverno.

Le gelate che fino ad allora avevano risparmiato la mia vita da vagabondo cominciarono a presentarsi repentine una notte di metà dicembre, cogliendomi impreparato nel sonno. Coi piedi congelati e la tosse che mi scuoteva i polmoni sempre più di frequente mi resi conto che le uniche cose che mi avrebbero salvato, un posto caldo e asciutto e un buon guaritore, non potevano essere rubate.

 

La mattina in cui arrivò il circo ambulante di Madame Petunia la temperatura era addirittura più bassa del solito. Il gelo delle notti precedenti mi era penetrato fin nelle ossa e la febbre mi gonfiava la testa come un pallone. Sapevo che non avrei resistito un'altra notte e quel grande radunarsi di gente distratta dalle esibizioni dei saltimbanchi era forse l'unica occasione che mi era rimasta.

Entrai di soppiatto nel circo mentre le persone erano rapite dalle evoluzioni degli acrobati e cercando di tenere a freno i colpi di tosse cominciai a tagliare borse e tasche facendo scivolare in silenzio monete di tutte le forme e dimensioni nella mia saccoccia. Ero concentrato al massimo per conservare abilità e velocità contro gli effetti debilitanti della febbre. Troppo concentrato.

Una mano grande come una padella calò su di me e mi sollevò da terra come se non pesassi niente. -Qui non si ruba!- tuonò con accento russo la voce possente del suo proprietario, un uomo grande e grosso con tanti muscoli che sembrava avesse solo quelli. Mi tolse la refurtiva di mano e la consegnò al pagliaccio al suo fianco mentre il suo sguardo severo non mi si scollava di dosso. Io non opposi alcuna resistenza, avevo gli occhi sbarrati dal terrore e con tutti i muscoli improvvisamente molli mi sentivo uno straccio appeso che stava per essere strizzato.

L'omone mi portò nel retro rinchiudendomi in una puzzolente gabbia per animali in attesa della mia punizione. L'ultimo pensiero che formulai fu la viva speranza che non arrivassero animali feroci a farmi compagnia, poi la febbre ebbe la meglio e tutto divenne buio.

 

Mi risvegliai sotto calde coperte morbide in una stanza di tende color del sole.

Avevo un panno fresco sulla fronte e nell'aria aleggiava un profumo di zuppa che non sentivo più da molto molto tempo. Mi alzai faticosamente con le ossa che dolevano ad ogni movimento e mi guardai intorno spaesato alla ricerca dei miei ultimi ricordi. Una delle tendi cangianti si mosse rivelando un donnone tanto largo quanto alto, dall'espressione truce su un volto barbuto ma dalla voce di burro.

-Vedo che va un po' meglio.- mi disse con un sorriso dolce che stonava con il resto della faccia porgendomi una ciotola di zuppa fumante.

Senza rispondere agguantai il cibo offerto e lo trangugiai con una voracità animalesca.

La donna attese con pazienza che avessi finito (non che dovette aspettare molto), poi con fare materno riprese la ciotola vuota e mi ripulì con un fazzolettino.

-Io sono Madame Petunia, matriarca e direttrice di questo circo. Come ti chiami e perché stavi derubando i miei ospiti?-

Rosso di vergogna non seppi cosa risponderle fin quando assieme a lacrime troppo a lungo trattenute venne fuori tutta la storia di malattia e solitudine che mi aveva accompagnato negli ultimi mesi.

La donna dal volto truce non batté ciglio e rimase ad ascoltare in silenzio tutto quello che avevo da dire, alla fine la sua espressione era uguale, solo gli occhi avevano un inclinazione leggermente più gentile e con mio grande stupore la sua voce di burro mi chiese se mi sarebbe piaciuto lavorare in un circo.

Accettai senza pensarci. Per la prima volta da quando avevo lasciato la villa mi sembrò di scorgere uno spiraglio di luce su quello che poteva essere il mio futuro. E non sarebbe di certo stato in una tana gelata sotto una vecchia stalla.

L'espressione di Madame Petunia si allargò in un sorriso soddisfatto, ma non meno truce, e se ne andò lasciandomi riposare in quel morbido giaciglio mentre sognavo sogni da circo.

 

Grazie alle amorevoli cure ricevute non ci misi molto a tornare in piena forma.

Come fui in grado di rimettermi in piedi venni caricato su un cavallo per mettere alla prova le mie doti ginniche e l'equilibrio. Il susseguente eclatante capitombolo fu tutt'altro che inaspettato. Ma non dovevo preoccuparmi “con qualche anno di serio allenamento diventerai un perfetto cavaliere equilibrista, hai la stoffa, si vede!” mi fu assicurato.

Ma quanto serio non l'avevo neanche immaginato.

Tutti i giorni, TUTTI, cavalcavo, cadevo, mi rialzavo e cavalcavo di nuovo. Tutti i giorni, dall'alba fino al tramonto, cambiavano il cavallo perché era stanco poverino, ma io no, dovevo continuare! Era così estenuante da farmi rimpiangere i giorni passati all'addiaccio col gelo che mi risaliva dai piedi fino alle viscere e la fame che mi contorceva lo stomaco quando non ero riuscito a procurarmi niente. Almeno quest'ultima non era più un problema. I fantastici pranzi preparati da Madame Petunia erano così celestiali da far dimenticare ogni stanchezza. La donna, che decantava sempre le proprie origini italiane, aveva il mare che le scorreva nelle vene e qualunque cosa preparasse scaldava il cuore con il suo sapore mediterraneo. Fu proprio grazie a questo che suo marito, il simpatico nano che presentava gli artisti coi loro numeri, si era innamorato di lei.

Si erano conosciuti a Verona, città di Romeo e Giulietta, mentre lui girava il mondo in cerca di fortuna. Lì contro il volere del padre di lei si erano sposati e avevano deciso di fuggire insieme tirando su qualche moneta esibendosi per strada. E proprio per strada avevano raccolto man mano tutti i membri di quella che ora era la loro grande famiglia circense.

Questo almeno fu quello che mi raccontò lui, quanto di tutto ciò fosse reale o leggenda credo che non lo scoprirò mai.

Oltre a loro c'erano i funamboli gemelli Flick e Flock, totalmente identici e assolutamente decisi a non andare mai d'accordo, dovevano quegli strani nomignoli ad un gioco che facevano da piccoli e a causa del quale avevano dimenticato i loro veri nomi. C'era Boris o il “Macigno”, l'omaccione con la testa pelata e i baffi a spazzola che mi aveva beccato mentre rubavo, nonostante l'aspetto titanico e la capacità di sollevare ogni genere di peso straordinario era incredibilmente gentile. E c'era Adrien un pagliaccio pelle e ossa con un eccezionale allegria interiore, non si struccava mai per non mostrare le cicatrici da ustione che aveva sul volto e portava sempre abiti più grandi perché fossero da incentivo alla sua pancia ad ingrassare un po'.

A completare lo strambo quadretto c'erano Ruben, giocoliere di 83 anni, Odette, cartomante sordomuta che prediceva il futuro a gesti, Lucien, che con la sua voce angelica ammansiva anche gli animali più feroci e l'esotica Tiana, la ragazza dei serpenti, una giovane di un paio di anni più grande di me, dalla pelle scura e gli occhi verdi come smeraldi incandescenti, era fuggita agli schiavisti ed era approdata non si sa bene come sulle coste francesi dove Madame Petunia l'aveva raccolta.

Nonostante la differenza dei suoi membri e l'assenza di veri legami di parentela la combriccola circense poteva vantare una coesione e una complicità in cui raramente ci si imbatteva e la cosa mi lasciò piacevolmente sorpreso.

Fu una sera di quelle, mentre a cena come sempre imperversava il delirio, che capii.

Capii che avrei passato il resto della mia vita con quella banda di fenomeni da baraccone e che li avrei amati come una vera famiglia.

  
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