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Autore: SofiaAmundsen    27/07/2014    0 recensioni
Sta per suicidarsi, ma prima, ha qualcosa da dire a sua madre. E così le scrive una lettera. Una lettera che è una vita intera.
Genere: Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cara mamma,
 
mi sono sorpresa spesso a chiedermi da dove venisse tutto quell’odio.
 
Per odiare, bisogna essere forti. Bisogna avere coraggio, costanza, tenacia. L’odio non è un sentimento facile da provare. È un sentimento che richiede impegno, che ti logora da dentro, come un tumore, che fa male a te prima che agli altri. È un sentimento che prende tutto e lo trasforma in petrolio: nero, appiccicoso, maleodorante, ma potente.
L’odio a volte è potere, ti permette di andare avanti, per odiare un altro giorno, per cercare vendetta.
Io lo so bene, lo provo da così tanto tempo che non mi ricordo neanche come si vive senza.
 
Tu sei troppo debole per questo. Sei sempre stata incredibilmente debole e incredibilmente forte.
Non mi viene in mente nessuno al mondo che sarebbe riuscito a sopportare tutto quello che hai visto tu, tutti quei colpi, tutti quei ti prego, tutti quei pianti, tutti quei bicchieri rotti, tutti quei vetri taglienti e andare avanti come se nulla fosse, fingendo di non avere lividi in faccia, fingendo di non avere paura, fingendo che io non esistessi. Non so davvero dove tu abbia trovato la forza di alzarti ogni mattina, accanto a lui.
Non so neanche come tu sia potuta essere così debole. Come mai tu non sia riuscita a trovare da nessuna parte il coraggio di prendermi e portarmi via, senza niente da possedere se non la libertà, la possibilità di respirare senza che la paura ci chiudesse la gola.
 
Non sei stata abbastanza forte per odiare. Come avresti potuto? Non avevi la forza di amarmi, dove avresti potuto trovare quella per odiarmi?
 
Il tuo odio non era altro che lo strascico di quello di qualcun altro. Come tutto in te, del resto.
La tua sessa vita era l’eco, l’ombra di quella di un altra persona e i tuoi sentimenti non potevano fare eccezione, non potevano non essere plagiati.
 
Quell’odio, quello che ha generato tutto, che ci ha logorate entrambe, fino allo sfinimento, fino alla morte (la mia). Il suo odio. L’odio del mostro.
La cosa devastante è che non era solo un odio grande, potente, malvagio. Era un odio dettagliato.  A un odio immenso riesci a sfuggire: a volte è così grande che acceca, spesso è così concentrato su sé stesso che te ne accorgi solo quando è troppo tardi.
Ma un odio così preciso, minuzioso, non ti dà vie di scampo.
 
Non c’era una cosa che potessi fare senza essere odiata. Ogni cellula del mio corpo scatenava in lui delle reazioni di ira e fastidio che raggiungevano l’assurdo.
Non andava bene come mangiavo la mela. Lui lo odiava.
Non andava bene la lunghezza delle mie unghie. Lui la odiava.
Non andava bene come camminavo. Lui lo odiava.
Non andava bene come rispondevo al telefono. Lui lo odiava.
Non andava bene neanche come urinavo. Ricordo di averlo sentito da dietro la porta decretare qualcosa di orribile, mentre ero in bagno, su quanta pressione mettessi nel fare pipì. L’ho trovato così disgustoso e umiliante.
 
Tutto questo odio, forse, ha corroso quel poco che c’era di ancora umano in lui. Quanto deve essersi impegnato, per odiarmi così tanto. Detestava cose che io neanche sapevo di fare, parti di me che non sapevo di avere.
 
Lui è stato contaminato da quest’odio, ma io ne sono stata distrutta.
La mia vita è stata quella di un ebreo in un mondo governato da nazisti.
Non potevo fare nulla senza essere minacciata, senza che qualcuno minasse alla mia dignità. Vivevo come un fuggitivo in punta di piedi sui rovi.
 
Alla fine ho smesso di mangiare mele. Era il mio frutto preferito, lo sai mamma? No, come potresti saperlo. Non me l’hai mai chiesto, non ti è mai interessato.
Ho smesso di mangiarle perché ogni volta che mi avvicinavo a una di esse, qualcuno urlava Sembri una scimmia, Guardati, non ti fai schifo?, Non osare prendere una mela se andiamo a cena fuori, mi fai vergognare, animale. Non potevo più mangiarle dopo i pasti, perché c’era lui, ma non le ho più mangiate neanche quando non c’era, nei momenti in cui finalmente dormiva, perché anche solo l’immagine di quel frutto così tondo e bello e dolce mi faceva sentire inadeguata.
 
Avevo iniziato a chiudere le dita in una specie di pugno raggrinzito, come se avessi avuto qualche terribile malattia alle mani, per nascondere le mie unghie. Non ho mai avuto le unghie belle ed eleganti delle ragazze. Non potevo limarle, ovviamente e non potevo mettere lo smalto: chi mai mi avrebbe comprato queste cose?
Però odiavo la sensazione delle unghie tagliate alla radice, fin da piccolissima. Mi davano un senso di debolezza, fragilità.
Ma non si possono tenere le dita piegate per sempre. Prima o poi devi allungare una mano per prendere una bottiglia d’acqua o raccogliere qualcosa che qualcuno ti ha tirato. E lui le vedeva.
Un episodio, in particolare, mi è rimasto scavato nella memoria. Eravamo nella nostra casa vacanze, al mare, e c’erano le zanzare. Mi pizzicavano e io non avevo unghie per grattarmi. Era come se un essere umano a cui è stata tagliata la lingua cercasse di urlare nel vuoto. Frustrazione. Mortificazione. Umiliazione.
Poi mi sono ricresciute, poco, quel tanto che bastava perché non avessi la costante impressione di avere le dita fasciate. Ero così contenta di essermi tolta quel fastidio.
Sono durate due giorni, due soli giorni. Lui le ha notate in una di quelle giornate in cui io ero più sbagliata del solito per lui. Quelle giornate in cui il mondo gli faceva schifo ed era automaticamente colpa nostra, come se lo avessimo costruito noi e non lo avessimo fatto a sua immagine e somiglianza.
Le urla.
Il mio cuore che batteva forte.
Lui che andava in bagno, prendeva il tagliaunghie.
La sua forza contro la sua, mentre mi teneva ferma e me le tagliava quasi a sangue.
La mia paura.
 
Quando ebbe finito, c’era solo una parola che poteva descrivere come mi sentivo, anche se probabilmente ero troppo piccola per conoscerla: mutilata.
Mutilata.
Mutilata.
Mutilata.

Mi sembra di sentirti, mentre leggi questa lettera, sulla mia tomba forse, e dici erano solo unghie.
Ma non lo erano, mamma.
Mi sentivo come se non fossi stata più in grado di afferrare oggetti, come se non avessi potuto stendere più le dita completamente. Erano così corte che mi facevano un male terribile e qualsiasi superficie toccassi mi urtava cento volte tanto, perché quella piccola porzione di pelle creata per essere protetta dall’unghia, era indifesa e scoperta a tutto.
 
Ti stai chiedendo dov’eri, tu, mamma, in tutto questo?
Eri lì, proprio accanto a noi. E non hai fatto nulla.
 
Per questo so che quell’odio non viene da te. Non sei riuscita ad alzare un dito mentre tua figlia subiva quella che per lei era una tortura, sotto i tuoi occhi, come avresti potuto odiare così tanto?
Semplicemente, non l’hai contrastato quell’odio.
Hai lasciato che crescesse sempre di più, che ti passasse attraverso, ti penetrasse, ti facesse sua, finché non sei stata anche tu catrame con il quale hai cercato di soffocarmi.
 
Non hai avuto la forza di amare (me).
Non hai avuto la forza di odiare.
Ora avrai la forza di seppellirmi? Avrai la forza di seppellire tutto questo?
 
   
 
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