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Autore: Melian    28/07/2014    3 recensioni
Dopo tremila anni una nuova Ombra si è ridestata e questa volta non basterà un duello a fermarla.
Ma anche nelle Tenebre c'è una Fiamma che brilla ed essa è destinata a rischiarare la notte.
Forze segrete infiammano le ombre, duelli contro il tempo per salvare chi si ama, ma sopratutto ricordi che emergono dalle nebbie del passato...
[Storia in revisione]
Genere: Avventura, Azione, Comico, Erotico, Fantasy, Introspettivo, Mistero, Romantico, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri personaggi, Dark/Yami Yuugi, Nuovo personaggio, Seto Kaiba, Yuugi Mouto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 25 – GHAVALHON

 

 

Nelle cave d'insondabile tristezza
dove il Destino già m'ha relegato,

dove mai entra raggio roseo e gaio,
dove solo con quell'ospite rude ch'è la Notte,

sto come un pittore condannato
da un beffardo Dio a dipingere sulle tenebre,
dove, cuoco di funebri appetiti,
faccio bollire e mangio questo cuore.
[...]”

(Le tenebre - Baudelaire)

 

 

 

Il Vuoto Atemporale era un mondo sospeso nei recessi dei cieli, oltre lo spazio e il tempo. Alle volte sembrava estendersi all'infinito, altre diventare minuscolo, come se si comprimesse.
C'era solo l'assoluta e violenta monocromia della luce accecante o del buio soffocante che si alternavano in modo brusco e casuale, scimmiottando il giorno e la notte.
Il tempo lì non esisteva e tuttavia si aveva l'impressione che tutto il passato e tutto il futuro fossero presenti nello stesso istante.
Tutto esisteva e, contemporaneamente, non esisteva; ma dove esistenza e non esistenza si sommano e si scontrano, il risultato è il nulla.
Questo sarebbe stato l'unico mondo in cui Ghavalhon avrebbe potuto vagare, ormai.
Si lasciava trascinare da correnti invisibili, con gli occhi fissi su un soffitto inesistente, occhi talmente scuri in cui si poteva leggere solo un odio e un rancore senza fine, una rabbia che travalicava lo scibile umano e si trasformava in qualcosa di atavico, bestiale, totalmente selvaggio.
Un picaro condannato a guardare il mondo da lontano, senza farne parte, come spettatore indesiderato, un disturbatore qualsiasi prontamente cacciato, il Primordiano vagava sull'onda di quei venti innaturali e non muoveva un muscolo, nemmeno quando le immagini della sua perduta umanità gli scorrevano davanti.
Ghavalhon era stato felice. Tremila anni fa, nella sua amata Kemet, in Egitto, lo era stato.
Lo testimoniava l'immagine di ragazzino sorridente con il capo rasato e la lunga treccia dell'infanzia a dondolargli sulla spalla, mentre si aggrappava forte al cocchio legato ad una pariglia di cavalli e suo padre faceva schioccare la lunga frusta con un gesto sapiente.
Lo testimoniava quella danza al suono dei sistri e dei tamburi per il suo compleanno, quando si teneva per mano alle sue sorelle e ai fratelli, con l'allegria degli adolescenti.
Era stato felice anche quando era stato spedito alla Casa della Vita e aveva imparato a studiare, ad allenare la sua mente abile, astuta, e così dinamica: amava circondarsi di quella conoscenza che solo i Sacerdoti potevano vantare ed incrementare, segreti che solo gli adepti del tempio potevano anelare a svelare.
Probabilmente era stato questo ad attrarlo, tra tutto: la possibilità di essere iniziato ai Misteri, di poter conoscere le Parole di Potere e pronunciare il nome degli dèi, un giorno.
In definitiva, era stato il potere, il suo goloso miraggio, ad avere su di lui il maggior ascendente, un potere che avrebbe potuto travalicare quello di qualsiasi umano, sfidare quello del Dio Incarnato, il Faraone stesso.
Tale era la grandezza stipata nella sua anima, tale la sua ambizione: la totale distruzione e la violazione della Maat, l'Eterno Equilibrio, se l'anima si fosse asservita alle tenebre profonde che si annidavano in lui come orrendi ragni; o l'elevazione, se l'anima si fosse incamminata su sentieri di luce: divenire Gran Sacerdote, uno dei Custodi degli Oggetti del Millennio e operare per il benessere delle Due Terre.

Ma la sua felicità si era incrinata quando aveva scoperto di amare quella che era stata la sua migliore amica e di non sopportare che lei andasse in sposa la Principe d'Egitto, quando anche le sue mire di conquistare uno degli Oggetti del Millennio erano andate in fumo; quando si scoprì debole, geloso, roso dall'invidia e dalla convinzione di aver subito delle ingiustizie e gli venne in odio il fatto di essere come un burattino tra le mani degli dèi che ne muovevano i fili a suo discapito.La sua felicità era scomparsa quando era divenuto un Vampiro, annullata nel desiderio di vendetta e dalla sete sconfinata di sangue.
Il Primordiano sorrise amaramente.
Conosceva fin troppo bene la sua prigione, le correnti asfissianti del destino che si intrecciavano e che lui non poteva afferrare, né cambiare, ma che aveva imparato ad odiare, esattamente come quando era vivo.
La sua prigione era modellata dai suoi desideri, dell'ondata dei suoi capricci: almeno, dava forma al suo mondo.
In cosa aveva sbagliato? In cosa aveva fallito? Il suo stesso tentativo di trascinare alla rovina i propri stessi nemici era stato sventato. Yuugi gli era scivolato dalle mani e la sua vendetta era stata ridotta a polvere. E ora masticava quella cenere come un boccone avariato.
Ghavalhon in quel momento avrebbe voluto sbranare una preda in pochi secondi, macellarla e ridurla ad una poltiglia sanguinante senza fare troppi complimenti, una belva allo stato brado.
Ma anche la sua Sete, la condanna stessa dei Vampiri, lì nel Vuoto non poteva trovare soddisfazione: non c'erano prede in cui affondare le zanne, visceri palpitanti da spremere, carni da dilaniare per diletto e vanto d'artista immortale.
Stavolta, doveva recriminare quell'insuccesso solo a se stesso, alla sua avventatezza, al fatto di aver così ignobilmente sottovalutato i propri nemici: in quest'epoca erano solo ragazzini, con un Seto Kaiba che rifiutava totalmente quell'anima antica che si portava dietro, ignaro persino di quella celata dal Drago Bianco Occhi Blu; con il Faraone che era ridotto ad uno spettro inquieto, errabondo e privo di memoria; con una Melissa che era pallidissima ombra e imitazione sbiadita della vera Nefertiti; con tanti facili bersagli da colpire, punti deboli da pungolare: Yuugi, Mokuba, Anzu, Honda, Jonouchi, l'intera Domino City.
Ma li aveva visto lottare gli uni per gli altri, così legati, così profondamente determinati a difendere quei legami umani, labili, terreni, fallaci... o forse non lo erano?
Lui che vi aveva rinunciato, ne riscopriva il senso, l'enorme potere e forza che potevano donare, perchè l'aveva provato sulla sua stessa pelle.
Non era solo l'orgoglio dei duellanti ad averlo sconfitto, non solo quel Cuore delle Carte che millantavano di poter evocare come spada e scudo, ma l'amore ad averlo trafitto, ad aver creato un solco nuovo e insuperabile tra sé e i suoi nemici, anche se lui aveva tentato di usarlo e ritorcerlo contro di loro, come un'arma crudele.
Ghavalhon non avrebbe trovato pace, non l'aveva mai avuta e non avrebbe mai potuto ammettere che era tutto ciò che gli occorreva.
Forse ci sarebbero voluti altri tre millenni, ma sarebbe tornato: aveva tutto il tempo per decidere la sua nuova strategia, pianificare la vendetta.
Non poteva soccombere alla Sete, però, non poteva permettersi di impazzire e divenire una bestia feroce che avrebbe finito per sbranare se stessa: il torpore sarebbe stata l'unica soluzione adottabile. Si sarebbe raccolto nel Sonno dei Vampiri, un sonno vigile, dove avrebbe avuto piena coscienza di tutto ciò che lo circondava, persino del passato che tornava a chiedere il suo conto.
Il Primordiano concentrò la sua stessa Volontà e scivolò nel torpore, la sua mente andò alla deriva e ogni singola funzione del suo corpo cessò, come se fosse null'altro che un cadavere, pur avvolto nella bellezza ingannevole che solo il Sangue di Vampiro era capace di conferire.
Non poteva parlare, non poteva muoversi... era indifeso, ma nel Vuoto non doveva guardarsi da nessun avversario.
Sapeva che, man mano che sarebbe trascorso il tempo, privato del suo nutrimento, sarebbe divenuto asciutto, incartapecorito, rattrappito come una vecchia mummia lasciata nei sali di natron più del dovuto. Come un leggero guscio di noce avrebbe trascorso il suo esilio.
Eppure, Ghavalhon non poté ignorare il richiamo antico di voce gentile e familiare: era la voce del passato, l'eco di tutto ciò che ancora di umano poteva restargli.
E prese a sognare.

 

***

 

Da lontano gli giungevano gli inequivocabili suoni di tamburi da guerra, ritmi tribali e regolari, profondi come versi gutturali nella gola di un dio selvaggio e senza nome. Fece il suo ingresso nell'accampamento nemico, solo e armato della propria sfrontatezza. Immediatamente venne circondato dai temibili guerrieri nubiani.
Ghavalhon tenne le mani sollevate in segno conciliante: «Vengo nel nome del Faraone, Signore dell’ Alto e Basso Egitto, e chiedo di parlare con il vostro capo.»
«Seguici.»
Lo scortarono al centro del campo, accanto ad uno dei falò, dove qualcuno lo stava già aspettando: l’anziano sciamano camminava lentamente, curvo e pieno di rughe, così numerose che non si potevano contare; si accompagnava con un bastone di legno nodoso.
Il vecchio lo guardò a lungo: «Lasciami indovinare, egizio, sei qui per sedare la rivolta.»
«Hai indovinato.», replicò Ghavalhon con la medesima calma del vecchio.
I due si fronteggiarono, una lotta di nervi, e alla fine voltarono lo sguardo nello stesso identico momento. Quel vecchio era un osso duro, ma Ghavalhon era fin troppo determinato.
«Faresti meglio a tornare indietro, ragazzo.», lo avvertì lo Sciamano, «Questo non è il tuo Egitto, dove tutti ubbidiscono allo schiocco delle tue dita. Questa è la nera e selvaggia Nubia, forgiata dal sangue stesso dei suoi guerrieri e dagli dèi che camminano nelle foreste. Torna indietro o muori!»
«Il Faraone sarà clemente, purchè smettiate le ostilità e vi consegniate a lui, in una resa incondizionata», replicò Ghavalhon irremovibile, come se non avesse udito una sola parola.
Non si mosse di un passo, anche se sapeva benissimo che il resto della tribù li circondava. Scorse le facce arcigne, gli occhi neri come la diorite e la punta delle lance e delle frecce già incoccate nei forti archi.
«Il Faraone manda un uomo solo per combatterci. O è uno sciocco, o un arrogante. In entrambi i casi, ci sottovaluta.», il vecchio riprese a camminare, passi scanditi dal rumore del suo bastone, con la mano libera piegata dietro la schiena. Sembrava meditabondo, ma alla fine si fermò e sentenziò: «Hai scelto: morte.»
Smosse il bastone con una agilità imprevista e il fuoco ubbidì a quel gesto, allungandosi come una mano ardente verso il Sacerdote.
Ghavalhon non se lo aspettava e sentì il tocco rovente di quelle grinfie direttamente sul braccio sinistro, prima di riuscire a scostarsi con un balzo di lato.
Ma la fila di guerrieri nubiani era fitta e impenetrabile, una gabbia migliore di quella fatta da solide sbarre: non c'era via d'uscita.
Lo Sciamano ruotò il bastone e una seconda lingua di fiamma guizzò come una frusta, costringendo il suo avversario a gettarsi per terra, ansimando.
Ghavalhon sentì il dolore e l'odore di carne bruciata mentre la frusta di fuoco gli serrava la caviglia e lo trascinava verso il falò, mentre le urla selvagge dei nubiani lo assordavano. Annaspò, scalciò e poi, d'un tratto, fu percosso da una violenta luce dorata e il suo Kha si manifestò: lo Stregone delle Ombre si sollevò come una marea di nebbia e soffocò la fiamma che stringeva la caviglia dell'uomo.
Lo Sciamano digrignò i denti e sputò qualche parola in un dialetto aspro e belluino, sollevando il bastone ancora una volta. E di nuovo il fuoco rispose e si allungò come le spire di una serpe.
Ghavalhon stava riprendendo fiato, il volto contratto dal dolore e dalla paura e odiò se stesso per essersi lasciato giocare a quel modo e per quel timore che lo rendeva debole dinanzi ai suoi nemici e alla sua stessa anima. Non poteva accettarlo!
Si rialzò e raccolse la sua forza spirituale, indirizzandola tutta sullo Stregone che, ancora una volta, gli vale come scudo e arma.
Lo Stregone, infatti, liberatosi dalle spire di fuoco, assorbì tutto il calore delle fiamme, estinguendole con uno sfrigolio sinistro.
Le fiamme allora presero a crepitare più solenni e rabbiose e una nuova fiammata tentò di attaccarlo come le fauci di una belva dai denti affilati.
Ma Ghavalhon rimase calmo, stavolta. Raccolto in un silenzio totale, gli occhi serrati, diede fondo a tutta la sua energia e lo Stregone delle Ombre ingigantì, fino a torreggiare sullo Sciamano e il resto della tribù; gettò il suo manto d'ombra sul falò e lo spense.
C'era solo l'odore acre del fumo che saliva in ampie spirali capricciose, adesso. E gli occhi dei nubiani puntati sul Sacerdote venuto da Kemet.
Il vecchi Sciamano era stato sconfitto e giaceva a terra con accanto il suo bastone, spezzato. Era vivo, ma molto debole.
Ghavalhon lo fissò e non seppe trattenere un'ondata di disprezzo e di odio: quel vecchio non avrebbe esitato ad ammazzarlo e allora perchè lui avrebbe dovuto provarne pietà? Tutti quelli lì attorno erano dei dissidenti, ribelli che avevano osato sollevarsi contro il Faraone, Horus Incarnato, colui che regge Maat.
E, più di tutto, lo Sciamano l'aveva messo con le spalle al muro, mostrandogli la sua debolezza, la sua indecisione e la sua paura.
Ghavalhon se ne disperò e, anche se il suo viso provato non dava cenno di quella lotta interiore, dentro di sé avvertì la vampa della rabbia e della vergogna arderlo molto più del fuoco nubiano.
La debolezza non era per lui, non doveva esserlo. E in quel momento giurò che avrebbe trovato il modo perchè nessuno avrebbe mai più potuto osare piegarlo.
Il vecchio si mise a sedere a fatica, ansimando, gli occhi scivolarono sul bastone spezzato, per un momento le pesanti palpebre calarono sui suoi occhi: si chiese com’era possibile che fosse stato battuto da un Sacerdote egizio.
«Questa rivolta si ferma qui!», Ghavalhon alzò la voce in modo che tutti i nubiani potessero udirlo, la sua voce apparve aspra al suo stesso orecchio. «Ma prima, per punirvi del vostro tradimento alla Doppia Corona d’Egitto, dieci uomini della vostra tribù verranno giustiziati!»
Era la prima volta che ordinava una cosa simile, il perché lo stesse facendo, non sapeva spiegarselo. Forse, voleva punire quella gente non solo per aver levato le armi contro Keme, ma soprattutto per prendersi un’ulteriore vendetta e sperava di spazzare via quel senso di frustrazione che l’aveva accompagnato.
«Non puoi farlo, egizio!», obiettò lo Sciamano, rabbioso, tossendo sangue.
Ghavalhon non battè ciglio: «Io parlo per bocca del Faraone delle Due Terre! Nelle mie mani è stato posto il Sigillo del Falco. E questo significa che ogni ordine che esce dalle mie labbra deve essere eseguito senza discutere!», fece una pausa e lo Stregone delle Ombre svettò accanto a sé, gli occhi due fiammelle azzurre come gli spettri dell'Amenti, l'Aldilà. «Se oserai ancora pronunciare una sola parola di protesta, vedrai morire uno ad uno tutti i membri della tua tribù! Dieci uomini saranno giustiziati!»
Lo Sciamano digrignò i denti, strinse convulsamente ciò che rimaneva de bastone di legno nella mani nodose e alla fine cedette, abbassò lo sguardo.
Ghavalhon restò a fissare lo Sciamano in silenzio, scrutò la sua figura divenuta ad un tratto curva, come se fosse schiacciata da eventi troppo grandi, e tale vista lo inquietò, poiché gli parve di vedervi riflesso se stesso.
Voltò improvvisamente il capo, si scrollò dal cuore un simile pensiero. «Quando Ra salirà alto nel cielo, i miei uomini verranno ad eseguire i miei ordini. Ora, questo territorio non è più sotto il dominio di Kush1, ma del Faraone! E il mio re ha il braccio lungo e implacabile, anche più del mio!»
Fu l’ultimo avvertimento che diede, quindi si lasciò alle spalle lo Sciamano, le guardie, l’accampamento.

Il verso di un falco lo accolse quando, alle prime luci dell'alba, raggiunge il campo egizio.
«Sommo Sacerdote! », esclamò il mer mes, il generale, stupito e sospirò sollevato quando lo vide arrivare e gli andò incontro. «Per le potenti braccia di Montu2! Sono contento che tu sia tornato sano e salvo!»
«Aser, credevi forse che mi avessero infilato in un pentolone e cotto a fuoco lento?», chiese Ghavalhon con un accenno di ironia. Afferrò una borraccia in pelle e bevve a sazietà I sui gesti erano inspiegabilmente lenti, più misurati e ponderati del solito.
«Che hai, Ghavalhon?» chiese Aser. «Cos’è successo nella foresta?»
«Torniamo a casa. E' finita. Ma prima...» finalmente il Sacerdote parlò, «Dieci uomini della tribù ribelle verranno giustiziati.»
A mezzogiorno, nel campo nubiano la terra si tinse di rosso. Dieci cadaveri erano stati impalati laddove prima brillava il falò, nudi e ricoperti di sangue e polvere. Dieci cadaveri come monito per chi avrebbe osato ribellarsi all’Egitto.

La tempesta del suo animo a Ghavalhon divenne sopportabile solo quando tornò al Palazzo Reale e ritrovò tutto quello che vi aveva lasciato intatto. La vista di Nefertiti, però, gli ricordava la sua pena, ogni volta che la vedeva passeggiare col principe.
Infine, prese una decisione: si sarebbe recato al Tempio di Amon-Ra, il più antico che vi fosse in tutto l'Egitto, e avrebbe chiesto all'Oracolo la risposta alle sue domande.
Il lungo viale costeggiato da imponenti Sfingi conduceva proprio alle porte del Sacrario del dio, e lui condusse la pariglia di cavalli fino all’entrata del tempio, fermò i destrieri e scese dal carro.
Non v’era nessuno a quell’ora, il sole era al suo zenit e la calura era troppo forte: il ritrovarsi all’ombra fu un sollievo.
Le porte d’oro era socchiuse, il Sommo Sacerdote le spinse ed esse si aprirono docilmente. Ghavalhon entrò nel vestibolo del tempio di Amon-Ra, interamente affrescato e ricoperto di geroglifici, che altro non erano che inni, preghiere e racconti della vita dei Dèi.
«Benvenuto Ghavalhon, colui il cui destino è diverso da quello di qualsiasi altro essere umano!», una voce di donna lo accolse, riecheggiando dolcemente.
Ghavalhon si guardò attorno per capire da dove venisse, credette di aver immaginato la voce e avanzò.
«Io so perché hai deciso di venire.»
«Chi sei?», chiede d'un tratto il Sacerdote.
«Io sono la Voce di Amon-Ra, le cui parole sono vive e vere. Vieni, raggiungi la casa del dio, ti sto aspettando.»
E Ghavalhon giunse nella parte più nascosta del tempio, la cella del dio, il luogo sacro per eccellenza. I suoi occhi si posarono sulla figura di donna vestita di bianco lino plissettato e adorna d’oro, inginocchiata dinanzi all’alta statua di Amon-Ra, interamente dipinta, vestita e ornata di fiori.
L’altare era colmo d’offerte: pane, birra, frutta, oro e argento; l’incenso bruciava spandendo il suo profumo per l’aria.
L’Oracolo s’alzò e si voltò verso di lui, e Ghavalhon s’avvide c’era bella, d’una bellezza virginale. La Voce del dio fece qualche passo verso il Sacerdote: «Sei tornato vittorioso dal Kush, ma il tuo Kha è agitato da demoni oscuri che non riesci a sedare: lo leggo nei tuoi occhi.», la sua voce era quasi un sussurro.
«No, non so di cosa tu stia parlando.» mentì il ragazzo.
L’Oracolo fissò i propri occhi in quelli del giovane: «Io conosco passato, presente e futuro: non puoi mentirmi, né a te stesso.», fece una breve pausa, poi aggiunse con tono grave «Hai conosciuto per la prima volta quella che si chiama paura, paura per la tua vita, paura per Kemet. E' per questo che sei qui.»
Ghavalhon avvertì un brivido lungo la schiena: possibile che fosse tanto visibile tale sentimento nei suoi occhi?
«Tu volevi risposte, adesso dovrai avere la forza e il coraggio di accettarle.», continuò l'Oracolo. «Ti recherai dal Faraone e reclamerai per te uno degli Oggetti del Millennio, la Barra, per esattezza. So che il pensiero ti si è affacciato al cuore. E’ costume che i Custodi di questi Oggetti vengano scelti tra i migliori, a seguito di una battaglia in cui confluiscono i Kha più elevati.», fece una pausa, mentre continua a guardarlo, ma senza vederlo realmente: i suoi occhi erano velati, come se fosse caduta in una profonda trance. «Uno è l’artista, una è l’opera delle sue mani, ed uno il tempo in cui tale opera viene consacrata e posta nella Sala delle Potenze, nel tempio di Osiride, sotto la custodia della Leonessa.», concluse, enigmatica.
«Mi stai dicendo che dovrò andare nel Tempio di Osiride?», domandò Ghavalhon.
«L'Oggetto che era custodito lì, la Barra, è stato già conquistato. Ma lì, nel santuario, troverai altro. Qualcosa di potente, qualcosa di grandioso, uno dei Misteri più grandi che i Sacerdoti possano ambire a conoscere.» La Voce di Amon tornò a guardarlo e spalancò gli occhi, divennero enormi e vitrei, pieni di angoscia, mentre la sua voce si alzava d'intensità: «Tu puoi fare grande l’Egitto, puoi fare in modo che l’Equilibrio di Maat resti inviolato. O puoi sprofondare nelle tenebre e divenire il flagello più grande che si sia mai abbattuto su queste terre e succhiarne il sangue, fino ad divorare anche l'ultimo bambino!»
L'Oracolo tremò vistosamente e Ghavalhon dovette sostenerla perchè non cadesse. La vide piangere: cosa vedeva? Forse la rovina di Kemet? Forse la sua, di rovina? Renetutet3 aveva tessuto per lui un fato simile, dunque?
Ghavalhon sentì nodo alla gola.
«Possibile che Amon voglia indicarmi il modo per trovare un potere inimmaginabile che potrebbe significare il crepuscolo di Kemet?», ma si pentì subito di quelle parole così avventate, perchè rabbrividì violentemente.
L'Oracolo tremò ancora più forte, poi di colpo si afflosciò sul pavimento, preda di un flusso incontrollabile di visioni che la schiacciarono.

Ghavalhon teneva gli occhi fissi sulla strada battuta, aveva lanciato i cavalli in un galoppo esasperante: voleva raggiungere Abido il più in fretta possibile e lì avrebbe capito cosa lo stava attendendo. E, una volta scopertolo, sarebbe tornato indietro e avrebbe sfidato Seth, il Custode della Barra del Millennio.
Era a un quarto del suo viaggio quando si accampò. La temperatura s’era abbassata improvvisamente e, adesso, il giovane era avvolto nel suo manto scuro, ma non accese nemmeno un fuoco perchè voleva restare in silenzio e al buio.
Le stelle brillavano algide e lontane, parevano occhi intenti a spiare quello che accadeva sulla terra, sembravano gli occhi irridenti degli Dèi.
E lui provò un moto di rabbia indicibile e avvertì un odio latente sollevarsi a grandi ondate, un fuoco oscuro infiammò il suo cuore.
Il mattino seguente, quando riprese il viaggio, udì un rombo lontano che man mano s’avvicinava: una violenta tempesta di sabbia stava per abbattersi su di lui.
Senza fiato, Ghavalhon si guardò attorno in cerca di un riparo. Mentre il Khamsin turbinava furioso e la sabbia gli sferzava la pelle, il giovane scorse l’entrata di una vecchia tomba che si infossava nel terreno, scavata anni e anni prima e depredata dai ladri. Anzi, lui non lo sapeva, ma lì aveva lasciato la sua firma Bakura, il Saccheggiatore di Tombe. L’aria era pesante, v’era odore di morte antica, ma era meglio essere lì, al coperto, che in balia della tempesta.
Per quel giorno, Ghavalhon dovette fermarsi. Adirato, comprese che tale ostacolo gli era stato posto innanzi di proposito dalle stesse divinità d’Egitto che lui stava sfidando impunemente.

Ghavalhon giunse ad Abido, la città sacra ad Osiride, di notte, la gola riarsa, poiché aveva finito l’acqua durante l’ultimo tratto del viaggio.
Attraversò in fretta le strade buie, lasciandosi dietro il chiacchiericcio delle taverne e dei quartieri più poveri, tra i rifiuti e qualche cane che abbaiava in un cortile.
Raggiunge la periferia, i recinti sacri del tempi e si fermò davanti al Tempio dei Milioni di Anni e ne contemplò la facciata. Penetrò al suo interno come un ladro, ma nessuno gli sbarrò il passo.
Conquistò la stanza più profonda del Tempio, dove le pareti erano interamente affrescate: Osiride dalla pelle verde, avvolto in bende come una mummia, ma con i simboli del potere regale in pugno, il bastone e il flagello, e subito dopo Horus dalla testa di falco che stringeva l'Ankh nella mano sinistra.
Una scanalatura faceva capire che, però, c'era una porta nascosta, la stessa che aveva trovato Seth tempo prima e che aveva aperto, dopo aver battuto Sekhmet. Ma, quella volta, la Dea Leonessa non si presentò e Ghavalhon si studiò con cura i geroglifici incisi in alto rilievo.
Quel passaggio conduceva alla Sala delle Potenze e a nessuno, se non al Faraone, era concesso visitarla.
Quando Ghavalhon toccò i geroglifici, la scrittura sacra sembrò prendere vita sotto le sue dita e ogni simbolo parve riscaldarsi fiocamente. Erano antiche e terribili parole di potere; un incantesimo gravava su quel luogo e Ghavalhon avvertì tutta la potenza degli dèi e di quei testi sacri risuonare in lui: anni e anni di preghiere avevano reso quel luogo temibile, la pietra aveva assorbito ogni invocazione e ora quella magia si espandeva contro l'intruso.
Provò un senso di vertigine e di stordimento, un affaticamento che gli dava l'impressione di non riuscire a respirare.
Staccò la mano dalla parete, come se la pietra ora bruciasse. E lesse:

 

«La Porta è chiusa.
La Porta è stata costruita da coloro che celebrano Osiride, Signore dell’Occidente.
La Porta è chiusa ai cuori tenebrosi.
La Soglia della Sala delle Potenze può essere varcata solo dal Faraone,
il cui cuore è più leggero della piuma di Maat.
Il Potere che qui è custodito, tu non puoi avere.
Sbarrato ti è il passo, torna indietro!»

 

Gli apparvero crudelmente ironiche quelle parole: era arrivato fin lì, ed adesso era senza risposte e sapeva che gli dèi non desideravano che lui scoprisse il segreto oltre la pietra.
In quel momento, Ghavalhon aveva solo voglia di urlare e ridurre in polvere quella maledetta porta che sembrava prendersi gioco di lui. Prese grandi boccate d’aria per cercare di controllarsi, ma qualcosa nel suo Kha si era incrinato: una forza oscura prese forma e gli suggerì pensieri e azioni.
Lì dietro c’era quello che voleva e se lo sarebbe preso.
Lo Stregone delle Ombre, il suo Kha, apparve accanto a lui e Ghavalhon gli ordinò di usare tutto il suo potere.
Le pietre gemettero, stridendo più volte, e si spezzarono di colpo, con uno schianto e un fragore che fece tremare l'intero tempio.
Ghavalhon era stremato, madido di sudore e coperto di polvere; sputò sangue, ma finalmente potè vedere il segreto che gli era stato profetizzato.
La sala nascosta era un trionfo d'oro e su un basamento era posta una boccetta.
Pareva un oggetto da niente, eppure Ghavalhon gli si avvicinò tremante e, quando vide il contenuto rosso e denso, le parole gli salirono alle labbra da sole, tremanti: «Il sangue di Osiride.»5

 

***
 

Ghavalhon aveva il viso contratto in una smorfia di concentrazione e dolore, una maschera grottesca di sudore impastato a polvere e sangue.
Governava le redini del piccolo e agile carro lungo la piana desertica, battuta solo per la caccia agli animali selvatici in cui si dilettava il Faraone. Tuttavia, oltre il velo della stanchezza, trasudava determinazione e combattività. Spingeva i cavalli ad una corsa folle tra sassi e arbusti rinsecchiti.
Dall'altro capo del campo di battaglia, sudato e rabbioso quanto Ghavalhon, Seth guidava il proprio carro incontro all'avversario, gli occhi blu ardenti e il piglio volitivo. Ma lui mostrava al mondo, come una sfida, il suo sorriso sottile e un po' arrogante, quello di chi sa di essere in vantaggio, nonostante la fatica.
Le ruote sfrecciavano, sobbalzavano e si scheggiavano quando incontravano i massi dal profilo aguzzo, modellati dal vento del deserto per anni. Nugoli di polvere si sollevavano in ondate continue, saturando l'aria, fino a renderla quasi del tutto irrespirabile.
Le armi incastrate nelle rastrelliere dei due carri da guerra erano lasciate a prendere la polvere, perchè i due combattenti erano occupati in uno scontro diverso, ma ugualmente inteso e pericoloso, che metteva a nudo i loro Kha.
Il Khamisin risalì come una marea bollente dal deserto remoto, si arrampicò lungo le dune e poi prese a soffiare vorace, caldo e pungente, accompagnato da onde di sabbia rossa che si infransero contro il profilo di enormi tavole di granito scolpite.
Finalmente, i carri inchiodarono di colpo, dando tregua ai cavalli ansimanti. Ghalvalhon e Seth si guardarono a lungo, si studiarono, mentre il muro di polvere di disperdeva a poco a poco.
Dios, un'enorme creatura dalla pelle scura come la notte e imponente come solo un guerriero può essere, teneva sollevato lo spadone ricurvo, dalla lama larga e affilata. Inflessibile, il guerriero si lanciò in un rinnovato e violento assalto appena Seth urlò il suo ordine: spicco un balzo e sollevò la propria arma con entrambe le mani al di sopra del proprio capo, pronta a calarla sulla testa del proprio nemico.
A contenerne l'avanzata, Ghavalhon teneva schierato il suo Stregone delle Ombre: una figura alta, severa e crudele, avvolta in un ampio manto nero e di cui non si scorgevano le reali fattezze, eccezion fatta per gli occhi che brillavano come braci sotto il cappuccio, su un volto invisibile ornato da una aguzza corona d'osso. Brandiva, in più, una spada simile a una fiamma azzurra e spettrale.
I due combattenti si scontrarono, incrociarono le lame e il suono di quel cozzare fu simile al crepitio delle fiamme di un incendio. Erano testa a testa, entrambi sorretti dalla volontà stessa dei Kha di Seth e Ghavalhon.
Ghavalhon non poteva lasciarsi sconfiggere, non dopo aver lavorato così a lungo e tanto duramente per giungere a quel fatidico momento: aveva lanciato la sua sfida al Custode e doveva solo stendere la mano e afferrare la vittoria. E il premio.
Gettò uno sguardo assorto e corrucciato agli angoli del campo di battaglia: tutto attorno al perimetro della piana, erano riuniti i Sommi Sacerdoti di Kemet, vestiti di bianco lino e oro; e d'oro erano anche gli Oggetti del Millennio che ciascuno di loro custodiva.
Sotto ad un baldacchino di sottili tende candide, c'era il Faraone Akunankamon ritto sul proprio carro da guerra. Portava la Doppia Corona, bianca e rossa, e reggeva il Pastorale e il Flagello con una severa regalità. Al suo fianco, il Principe serrava i pugni mentre seguiva le alterne sorti dello scontro: Atemu aveva lo sguardo acceso dal furore della battaglia, sembrava sul punto di voler gettarsi a capofitto nel combattimento.
Akunadin era alla sinistra del cocchio reale e seguiva con apprensione – pur se mascherata dietro ad una maschera di freddezza – il susseguirsi dei colpi dei due mostri e fissava Seth di sottecchi, con impazienza: in cuor suo, infatti, sperava che quel figli, ignaro di avere su di sé lo sguardo orgoglioso del padre, vincesse.
Di colpo, Dios e lo Stregone delle Ombre si disimpegnarono e indietreggiarono: un attimo di tregua, un modo per riguadagnare fiato.
In quell'istante di calma surreale, il silenzio sembrava un lungo respiro prima di un balzo nel vuoto o dello scoppiare di una fragorosa tempesta. Il sole si affacciò, invincibile e beffardo di quel contenzioso squisitamente umano, e i suoi raggi fecero brillare la Barra del Millennio posta in uno scrigno ai piedi del Faraone: era quell'Oggetto il vero protagonista della sfida, il premio ambito.
Ma Ghavalhon fu il primo a ricominciare le ostilità e diede fondo alle proprie arti magiche: stese la mano e, al suo comando, una seconda tavoletta di granito s'erse come un dente aguzzo tra la sabbia, facendo tremare la piana e ticchettare i sassolini, che rotolarono confusamente qua e là.
La tavoletta coperta si rigirò e rivelò il proprio contenuto: vi era un intrappolato un sortilegio e un lampo di luce crepò la pietra e si abbatté su Dios.
Dios liberò un urlo selvaggio, più alto e roco di quello di Seth cui era intimamente connesso e si ingobbì, mentre si aprì una ferita obliqua lungo tutto il braccio destro del Sacerdote; il sangue corse lungo la mano di Seth e gocciolò per terra. Ma Seth rifilò all'altro Sacerdote uno sguardo colmo di furore e lanciò il proprio carro in una corsa più serrata di prima: Dios lo seguì, liberandosi dall'effetto di quella magia.
Allora la tavoletta si sgretolò, ma Ghavalhon sorrideva trionfale: «L'ultimo colpo! L'ultimo colpo e la vittoria sarà mia!» e inseguì Seth, ordinando nel contempo l'attacco: «Stregone delle Ombre, finiscilo!»
Accadde tutto in pochi secondi.
E quel giorno venne ricordato persino dopo molti anni, perchè ciò che accadde fu inaspettato.
Lo Stregone delle Ombre avrebbe infilzato Dios da parte a parte, se non fosse stato per due enormi catene che sbucarono dalle sabbie e che lo imprigionarono, trascinandolo in una voragine di sabbie mobili: venne inghiottito sempre più velocemente, nonostante si dibattesse con la forza di un coccodrillo del Nilo.
Seth rise, la sua risata era fragorosa e selvaggia, sprezzante e arrogante mentre osservava il mostro avversario sparire: la sua trappola era scattata e sul campo di battaglia restavano solo Dios e una tavoletta di pietra che prima era occultata e che, ora, aveva rinchiuso lo Stregone delle Ombre.
Ghavalhon era atterrito, aveva fatto un enorme passo falso e gli era costato tutto. Preda di uno spasmo, perse il controllo sul carro e cadde, ruzzolando pesantemente a terra. Malconcio e col fiato spezzato, si ritrovò immerso nella polvere, con gli occhi sbarrati e accecati dal bagliore del sole. Il sapore metallico del sangue gli riempiva la bocca e lui dovette sputarlo, colto da un conato di vomito. La vista gli si appannò e tutto iniziò a sfocare e girava, girava...
Quella sconfitta gli bruciava l'anima, quella sua debolezza gli instillò una rabbia violenta, l'odio che provò per Seth fu viscerale, ma poi divenne tutto nero e l'ultima cosa che Ghavalhon sentì fu la voce del Faraone che proclamava: «Seth ha vinto il Gioco delle Ombre! Gli dèi siano testimoni del suo valore: egli è degno e si conferma Custode della Barra del Millennio!»

***

Ghavalhon non era sempre stato il suo nome. Lo aveva adottato quando era rinato come Bevitore di Sangue e apparteneva ad un linguaggio oscuro, sussarratogli dalle tenebre stesse.
Un tempo, quando era solo un uomo mortale e aveva conosciuto la gioia, il suo Nome Segreto era Nefermaat, che significa: “Maat è splendida”, oppure “Perfetta è la Giustizia di Maat”.
Quando si era accostato al sacerdozio, Ghavalhon aveva serbato gelosamente il proprio Ren Sheta e gli sembrava che esso racchiudesse l'essenza stessa dell'Egitto. Maat era l'equilibrio, l'ordine cosmico, la via retta che tutti dovevano seguire e di cui il Faraone era il garante e lui, secondo l'augurio dei propri genitori, avrebbe dovuto incarnare quella regola.
Doveva fare i conti con quelle aspettative che altro non erano che l'eredità stessa di Kemet, della filosofia dei grandi saggi, dei pilastri su cui il regno si era sempre retto, e la sua stessa, smisurata ambizione.
La sua anima era sempre stata un delicato gioco di bilance: riempire troppo un piatto o svuotarne un altro, significava cambiare il suo percorso sulla via della rettitudine. E Ghavalhon tendeva a sviare con troppa facilità, se la Regola era in contrasto con i propri desideri.
Eppure, c'era stato davvero un tempo in cui il nome Nefermaat lo aveva descritto appieno, calzandogli come la più splendida delle tuniche.
C'era stato un tempo in cui, novizio nel tempio, ogni mattina salutava il sorgere del sole con un autentico slancio e un fervore palpabile: si immergeva nelle vasche di pietra come di acqua fredda, corroborante, si lasciava scivolare sul pelo dell'acqua, abbandonandosi ad occhi chiusi ai primi raggi dell'alba, e sentiva che il mondo riacquistava calore e bellezza, che il disegno dei dèi era buono e giusto e che lui avrebbe trovato ciò che cercava per dissetare la propria anima.
I riti lustrali gli davano l'occasione di purificarsi e di rinascere, giorno dopo giorno. La sensazione di sentirsi mondato, quando usciva dalla vasca, era autentica e lui riafferrava il verso significato del suo nome.
Poi tutto era cambiato e lui non era stato più Nefermaat, la via della Giustizia Cosmica era stata sviata e beffata come lo era stato Osiride che mai lo avrebbe ricevuto nelle sue aule.
Così, era nato Ghavalhon, nell'ombra di un cuore roso e indurito, di una mente instancabile e calcolatrice, e il nome di Nefermaat era stato cancellato dal papiro di Thot. Per sempre.
 

 

 

 

 

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Note dell'autrice

Eccomi qua con un aggiornamento e anche a breve distanza dal precedente. Quasi non mi sembra vero!
Questo capitolo è dedicato fortemente a Ghavalhon, perchè c'erano ancora cose non dette e, probabilmente, ce ne sarebbero ancora, ma direi che questi episodi sono significativi e disegnano meglio la sua figura, sopratutto il suo passato.

Non mi sento di aggiungere altro, tranne che nel prossimo capitolo ci sarà qualche altra piccola avventura dei nostri baldi... ehm, eroi. :P
Credo, infatti, che ci siano ancora un paio di idea che possa degnamente sfruttare per il gran finale della fanfiction, dopo tutti questi anni, in pieno stile Yu-gi-oh!
Grazie ai miei lettori invisibili e agli eventuali recensori.

Vi lascio un glossarietto, in calce.

Melian
 

1Kush è l'antico nome della Nubia.

2Montu: Divinità guerriera, patrono delle guerra, legato particolarmente a Tebe. Tra i suoi attributi c'era una grande forza con cui sottomettere i nemici dell'Egitto.

3Renenutet: Dea della fertilità e del raccolto, appellata con i nome di “Signora della Terra Fertile” e “Signora dei Granai”, rappresentata come donna dalla testa di cobra o, semplicemente, come un cobra, con suo figlio Nepri tra le braccia. Si diceva che controllasse il destino di tutta l'umanità. Veniva venerata nella regione di Fayum e a lei il faraone Amenemhat III dedicò un tempio a Medinet Ma’adi.

5E' qui svelato cosa beve Ghavalhon quando venne trasformato in Vampiro nel capitolo 11, anche se probabilmente verranno modificate le circostanze in cui avviene nella futura revisione della storia..

   
 
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