Erano sfavillanti i fuochi d'artificio che si libravano sopra il maracanã quella sera, come colorati uccelli tropicali. Il Brasile aveva vinto il mondale sfidando in finale gli Inglesi che, a quanto sapevo, avendo incassato un gol all'ultimo minuto si erano visti sfuggire il sogno di tutta una vita, quello che ogni calciatore spera di coronare prima o poi. La gente era impazzita, correva per le strade intonando cori, lanciando tutto ciò che trovava a terra o che poteva staccare contro auto e lampioni. Era il caos. Io stavo tornando in bicicletta a casa mia, nel quartiere popolare di Jenuzão, poco lontano dal maracanã. Mia madre mi stava probabilmente apettando fuori casa con il suo grembiule rosso da cucina fra le mani, ansiosa. Gliel'avevo detto mille volte  di non preoccuparsi, cosa mi sarebbe mai potuto succedere infondo? Sentii uno sparo. Senza nemmeno accorgermene il proiettile, partito da una piccola calibro 22, mi trapassò il cranio, scaraventandomi violentemente giù dalla bicicletta, ero quasi arrivato a casa. Sentii delle urla disperate. Mia madre mi si avvicinò con le lacrime che le incorniciavano il viso, proprio come gli inglesi quella sera, arrivando a mischiare le sue lacrime alla leggera pioggerellina che c'era quella notte. I fuochi d'artificio illuminavano la mia favela più di quanto gli, ormai fracassati, lampioni non avessero mai fatto. Più che una luce erano scintille, migliaia di scintille colorate che davano risalto, con sinistra vividezza, alla mia morte, ormai inesorabile.
Null'altro che un fiore mai sbocciato della Tijuca.