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Autore: Melitot Proud Eye    08/09/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo VII
La giovane tigre e la giungla



“La vita è una candela davanti al vento.”

Proverbio giapponese.




Ci volle del bello e del buono per liberare Sano, colpevole d’aver minacciato una carrozza piena di ufficiali. Lì non erano sotto la giurisdizione dell’ispettore Urayama, sempre troppo indulgente.
Sano arrivò persino a dirgli di mollarlo lì, tanto prima o poi sarebbe venuta Megumi. Kenji era più importante.
Ma Kenshin stesso fu trattenuto come possibile complice e, in men che non si dica, per quanto dicesse e facesse, la giornata era tragicamente scivolata via.
Tornarono a casa al tramonto, stanchi come dopo un vero giorno di viaggio.
«Oy Kenshin.»
«Sì, Sano?»
«Mi dispiace.»
Lui scosse la testa. «Stavi facendo del tuo meglio.»
Continuarono per un pezzo senza parlare.
«Kenshin?»
Kenshin lo guardò, socchiudendo le palpebre contro il bagliore rossastro del sole.
«Perché non hai denunciato la scomparsa di Kenji?»
Non fosse stata la questione così seria, avrebbe riso.
«L’ho fatto. Ma non alla polizia.»
«Vuoi dire che la tieni fuori? Il suo potere si è allargato parecchio da un decennio in qua.»
«Non mi fido. Troppi personaggi della Bakumatsu sono entrati nel governo e nella gestione della giustizia, e non tutti sono stati amici miei. Se dovessero sapere che mio figlio è a piede libero…»
«Ah, andiamo. Chi vuoi che pensi ancora al passato? Sono cose sepolte, dovresti avvertire più gente che puoi e basta.»
«Potrebbe stupirti il numero di persone che la pensano diversamente. Persino mio figlio, nato nella nuova era, tiene il passato in considerazione più del presente.»
Tacque, stringendo le labbra all’intensa fitta di dolore.
Kenji. Kenji, Kenji, Kenji. Dov’era? Come stava? Era in pericolo? Forse in quel momento aveva bisogno di lui, stava scappando, cercava di difendersi, veniva sopraffatto e uomini senza volto gli tiravano indietro la testa, scoprendogli la gola―
«Hey!»
La robusta presa di Sano lo stabilizzò, tenendolo in piedi.
Kenshin si toccò la fronte col dorso della mano.
«Stai bene? Ti ho visto ondeggiare di brutto.»
«Sì, ho solo» deglutì «solo avuto un po’ di vertigini. Sto già meglio.»
«Mh» fece l’amico, scettico.
“Meglio” era un eufemismo, anzi, una menzogna bell’e buona (cosa avrebbe detto a Kaoru? Quando avrebbe rivisto il loro bambino?), ma salutò comunque con un finto sorriso l’uomo che proseguiva, diretto alla clinica.
«Riposa, Kenshin. Domani partiamo. E lo troveremo.»
Avrebbe voluto crederci con altrettanto ottimismo.

Kenji non stava più nella pelle. Quella sera, dopo aver ascoltato le brevi istruzioni del maestro (partenza all’alba, bagaglio leggero) ed essersene andato a letto, non riuscì a chiudere occhio.
Fu una pessima cosa. Distrutto dalle fatiche emotive e fisiche del viaggio, piombategli addosso in un giorno solo, crollò durante la mattina ancora buia e l’unica cosa a svegliarlo furono gli scrolloni di Omasu.
«Kenji, Kenji, che stai facendo? Hiko è già uscito!»
Scattò a sedere di riflesso, gli occhi chiazzati di rosso.
«Cosa?!»
Fuori, il sole era sorto.
Uscì e corse a perdifiato, la sua piccola sacca a tracolla, ritrovando il maestro solo grazie alle previdenti raccomandazioni di Okon, rimasta all’Aoiya.
Era già a una buona distanza dalla città.
«Ma… e… stro, aspetta!»
«Sei in ritardo, granello di riso. Ti avevo detto l’alba» fu il laconico commento dell’uomo. «Non sopporto l’imprecisione.»
«Beh» non riuscì a trattenersi dal dire, «ieri ho pur sempre attraversato mezzo Giappone!»
«Non sopporto nemmeno le lagne. Sei venuto di tua spontanea volontà, mi hai costretto a portarti con me e ora accampi scuse? Cresci, poppante. E accelera il passo, sei lento come una lumaca.»
Davanti a quella pioggia d’insulti, Kenji spalancò la bocca.
Come si permetteva? Ma chi si credeva di essere? Avrebbe potuto almeno voltarsi mentre gli parlava! Forse aveva paura di guardarlo negli occhi?
Stava per mandarlo a quel paese quando il cervello gli impose uno stop. Meglio andarci piano.
E’ pur sempre un grande maestro, qualche licenza deve essergli concessa. Non prendere ad esempio tuo padre, Kenji, chi chiamerebbe “maestro” uno che finge di abbandonare la spada per non insegnare?
Il ricordo del volto sempre sorridente portò con sé rabbia, ma anche il pensiero di casa. Per un attimo rivide sua madre e i suoi fratelli e si chiese se si stavano preoccupando almeno un po’.
Probabilmente no. Ormai Kenji Himura era un caso perso.
Si accorse di essere rimasto indietro e si mise a correre.
Adesso aveva una missione precisa, uno scopo che veniva prima di tutto. Doveva impegnarsi in quello.
E di tanto impegno avrebbe avuto bisogno, perché una volta arrivati allo spartanissimo rifugio, la vita con Seijuro Hiko seguitò a peggiorare di minuto in minuto, rivelandosi per quel che era il tradizionale rapporto allievo-maestro: ovvero, di semi-schiavitù.

Quella mattina, mentre il momento di partire si avvicinava, Kenshin strinse forte Kaoru contro di sé.
La casa era silenziosa. A quell’ora, di solito, Shinta sarebbe sgattaiolato nella loro camera per dire che doveva fare pipì, oppure si sarebbe rivolto a Kenji, che adorava nonostante il fratello fosse tutto tranne che entusiasta di lui.
Inoi poi aveva l’abitudine di battere forte le mani nel mezzo della notte, per spaventare i pipistrelli che, a sua detta, infestavano la veranda. Era qualcosa destinato a far nascere pazzeschi litigi al buio, tra lanterne fracassate e piedi sbattuti contro gli stipiti, perché immancabilmente Kenji si svegliava.
Ma ieri i bambini non erano riusciti ad addormentarsi fino a tardi, consci dell’anormalità delle cose. E Kenji non c’era.
Il giorno giungeva quieto, irreale.
Sentì Kaoru mormorare qualcosa e le sospirò nella spalla. Poi cominciò lentamente a districarsi dal suo abbraccio.
«Torna presto» gli disse lei dalla soglia, il sole appena nato sui capelli.
Kenshin le carezzò una guancia, annuendo, e raggiunse Sanosuke. Ci sarebbero voluti almeno quattro giorni fino a Shinshu, se procedevano a tappe forzate.
Il suo cuore era diviso. Era fuori di sé per Kenji e inquieto per il resto della famiglia, sola con strani tizi in giro che guardavano troppo i bambini.
«Abbi cura di loro; e di te.»
«Lo farò.»

Nel pomeriggio, le persone cui Kenshin aveva accennato con Sanosuke (contattate per ottenere aiuto al posto della polizia) ricevettero un telegramma.
Il postino lo consegnò direttamente al padrone dello stabile, che stava rincasando dopo una breve assenza.
L’uomo accettò la missiva, entrò fra i saluti del personale e si diresse ai piani superiori per cambiarsi, aprendo la busta mentre saliva le scale.
Sul pianerottolo incontrò un vecchio, ancora in forma nonostante la settantina.
Mosse impercettibilmente il capo.
«Okina.»
«Bentornato, Aoshi. Com’è andato il viaggio?»
«…»
«Misao e il piccolo sono alle terme, se li cerchi.»
Aoshi gli spiaccicò in mano il telegramma, proseguendo verso la propria camera.
«Comincia a raccogliere informazioni.»
Il vecchio Okina osservò incuriosito il pezzo di carta, poi lo lesse e corrugò la fronte.
Ah, come temeva.
Ma il caso era già risolto.

Kenji scomparso. Pensiamo diretto Shinshu. Per favore aiutateci.

Pulisci questo. Rassetta quello. Ramazza l’ingresso. Vai per l’acqua. Sposta la legna.
Kenji rifletté che, se avesse stretto i denti ancora un po’, presto sarebbe stato incapace di muovere le mandibole.
Era inammissibile. Quello non era allenamento. Che gli venisse un colpo, in tutto ciò che aveva fatto finora ― ed era già al secondo giorno ― non c’era il più piccolo collegamento col kenjutsu. Seijuro Hiko lo stava solo usando come schiavo personale.
E lui era a tappo.
«Basta» dichiarò dopo l’ennesima corvée. «Non sono venuto qui per queste stronzate.»
Dal suo posto davanti al focolare, quello del massiccio, tondeggiante forno da ceramica, il “maestro” gli lanciò un’occhiata. «Ohh, ma guarda. Sono impressionato.»
«Bene.»
«Era ironia, ragazzo, ironia.»
Kenji lo fulminò con lo sguardo, sperando di vederlo prendere fuoco.
Lui aveva avuto un sogno, e quell’uomo indegno gliel’aveva rovinato per sempre. In che razza di mani era caduto l’Hiten Mitsurugi? In quelle di un pallone gonfiato e di un bugiardo…
«D’accordo» sbottò Hiko in quel momento.
Si alzò, entrò nella casetta e tornò con due oggetti oblunghi in mano.
Due spade.
Gliene lanciò una e, nel prenderla, Kenji si sentì balzare il cuore in gola. Lo guardò, incredulo. Stava davvero succedendo? Lo stava sfidando a un incontro?
Guardò bene e, mentre l’uomo avanzava sino alla distanza prestabilita, colse nei suoi occhi una luce sinistra.
«Mostrami che sai fare, mezza pinta. Ma fallo bene» sguainò la spada con un unico, fluido movimento. Il tradizionale filo della lama riverberò alla pallida luce del sole. «Perché io non avrò pietà.»
Deglutendo, Kenji lo imitò.
«Allora nemmeno io.»
Il cuore gli batteva già a mille. Nel notare il peso della spada, maggiore rispetto a quello cui era abituato, fu invaso da uno shock adrenalinico.
Davanti a sé aveva un avversario vero. Lentamente, per prendere tempo, cominciò a girare in tondo.
Si inumidì le labbra, teso.
Era un maestro, non c’era dubbio. Osservava i suoi movimenti con una rilassatezza che avrebbe ingannato il principiante ma, per fortuna, Kenji non lo era.
Era però dotato di una conoscenza incompleta (eufemisticamente parlando) dell’Hiten Mitsurugi, quindi sapeva cosa aspettarsi solo fino a un certo punto. Cosa fare? Attaccare o aspettare d’essere attaccato? Puntare tutto su una bella mossa o andarci coi piedi di piombo?
«Avanti, che aspetti?»
Facile.
«Te ne pentirai» sussurrò.
Kenji non era tipo da starsene con le mani in mano.
Individuata quella che sembrava un’apertura, finse di compiere un altro passo e, all’improvviso, scattò diretto al fianco del nemico. Quella mossa non falliva mai. Era quella che conosceva meglio.
Ma il fianco di Hiko scomparve, sostituito dal vuoto.
Allarmato, il ragazzo ebbe appena il tempo di compiere una veloce rotazione del busto e levare la spada.
Tzann!
Quasi cedette sotto la forza del colpo (c’era un’enorme disparità di peso tra le loro braccia, dannazione!). Poi però la spada di Seijuro scomparve, e il padrone con essa.
La terra cominciò a cedere sotto i suoi piedi, friabile dalle piogge, mentre Kenji parava un colpo dietro l’altro, abbandonando progressivamente il calcolo per affidarsi al puro istinto. Accortosi di essere spinto con le spalle al muro, si abbassò e grazie alla propria agilità sgattaiolò lontano, di nuovo nell’erba.
Fece per sorridere.
Il maestro lo aveva già raggiunto. Lo colpì duramente alla spalla, di piatto.
«Ah!»
Kenji perse l’equilibrio e ruzzolò per un tratto, tirandosi in piedi a fatica.
«Tutto qui, poppante?»
«Certo che no!» rispose, inferocito. E attaccò con nuovo slancio.
Un’incursione. Un’altra. E un’altra. Diede fondo a tutte le proprie risorse, incurante del dolore alla spalla, smanioso di mettersi alla prova, di vincere. Schizzò da un lato all’altro della piccola radura, certo di essere invisibile.
Era degno di prendere nelle proprie mani l’Hiten. Era degno.
Lo era!
Portò a segno solo un colpo, strappandogli un lembo di pantalone. Poi lo vide sogghignare.
Allora si raddrizzò, tergendosi il sudore dal mento. Aveva il fiato pesante. Doveva concludere presto.
Ma il maestro non gli diede tempo di pensare. Con un roboante grido di battaglia, corse verso di lui.
Tutto ciò che Kenji poté fare fu scartare, inutilmente: Hiko gli colpì anche la spalla destra, scaraventandolo lontano.
L’impatto con un tronco gli tolse il respiro e gli strappò un grido.
L’aria riverberava ancora del colpo quando scivolò miseramente a terra, tra le radici.
«Urgh.»
Un’occhiata gli rivelò che la sua spada era svanita. Poi il maestro troneggiò su di lui.
Aveva perso.
Chinò il capo, ansimando con vigore. Per alcuni attimi quello fu l’unico suono oltre allo stormire dei rami. Alla fine, Seijuro gli pungolò il fianco con un piede.
«Beh, cosa ti aspettavi? Sei appena uscito dalla pancia di tua madre. Non avrai pensato sul serio di vincere.»
«Maledizione. Maledizione, maledizione.»
«Farà tanto. Avanti, in piedi. Questo non è niente.»
«Ni-niente? Mi hai quasi rotto―»
«Ah, piantala.» Di nuovo un piede nel fianco. «Primo insegnamento: la pazienza. Hai portato secchi e legna per più di un giorno brontolando senza sosta, e questo non va bene. Gli allenamenti per diventare un maestro della spada sono ben altra cosa, faticosi, ripetitivi e spesso noiosi; come pensi di diventarlo se due faccende di casa ti infastidiscono? Secondo, adesso: impara a perdere con dignità. Rotolare nella polvere come un suino non ti servirà a riguadagnare l’onore perduto. Per quello, devi rialzarti e provare con maggiore impegno. O puoi sempre ricorrere al seppuku.»
Kenji si voltò sulla schiena, tirandosi su malamente.
«Cosa? Seppuku?»
Era fuori di testa!
Lo vide ghignare, la spada appoggiata alla spalla.
«Terzo: sii meno credulo.» Si volse e incamminò verso la baracca, tranquillo, senza una goccia di sudore addosso. Pazzesco.
E come faccio a imparare da uno che mi dice di non essere credulo?, si disse Kenji, tra il costernato e l’imbestialito.
Ora cominciava a capire perché suo padre non parlasse volentieri dell’apprendistato da samurai.
«Adesso, se alzerai l’onorevole deretano da terra e preparerai una cena decente, forse mi sentirò in vena di proseguire con gli insegnamenti e correggere quella tua patetica, incompleta scusa di Hiten Mitsurugi.»
Kenji rimase immobile, ammutolito.
Quelle parole… significavano che aveva superato l’ultima prova. Significavano che l’aveva davvero impressionato.
Gli avrebbe insegnato l’Hiten Mitsurugi in ogni suo più piccolo segreto.
Adesso era a tutti gli effetti allievo di Seijuro Hiko XIII.
«Muoviti!»
Ma la prospettiva non lo entusiasmò come aveva pensato prima di partire.

Il pomeriggio tardi, a Tokyo, Kaoru ricevette un telegramma urgente, portatogli da un garzone delle poste.
Che sia da Kenshin?
Salutò gli studenti che uscivano e l’aprì.
«Da Kyoto?» mormorò, stupita.
Nell’uscire dal la palestra, Yahiko la trovò nel bel mezzo del giardino, gli occhi sbarrati, la bocca semiaperta come se fosse sul punto di lanciare un urlo.
«Che c’è?»
Lei abbrancò con forza un lembo della sua manica.
«Yahiko… per favore… vai a telegrafare.»

Ma tre giorni erano troppo pochi perché due uomini coprissero la distanza tra Tokyo e Shinshu e, la mattina dopo, quando un uomo uscì dal centro del telegrafo della meta chiedendo se qualcuno conoscesse un certo Himura, nessuno poté rispondere.
Così il telegramma fu messo da parte.
Non era destinato a durare a lungo, nella baraonda degli uffici.
Soprattutto senza che nessuno si presentasse a reclamarlo.

La notte del quarto giorno dalla scomparsa di Kenji, Kenshin e Sanosuke si accamparono per l’ultima volta prima di raggiungere Shinshu.
Grazie alla fortuna e a pochi spiccioli erano riusciti a fare un pezzo di strada sui carri da fieno, i cui ultimi covoni venivano venduti tra un paese e l’altro, nonché a dormire in qualche locanda economica. Sano diceva che se avessero proseguito, entro mezzanotte avrebbero raggiunto Shinshu, ma erano entrambi esausti. Non più giovane e disabituato a quella vita, Kenshin voleva essere padrone delle proprie forze al momento d’incontrare suo figlio.
Si mise più vicino al fuoco, tendendo le mani.
Notò che Sano aveva gli occhi cerchiati ― già, dopotutto erano dodici anni di più anche per lui ― e pensò che dovevano formare un bel paio.
Riprendere il kenjutsu e un movimento fisico regolare non gli aveva ridato poi quella gran forza.
Sospirò.
Kenji…
I miseri pesciolini piantati sul fuoco cominciarono ad annerire e s’affrettò a toglierli, allungandone tre all’amico.
Masticarono in silenzio, come avevano fatto per la maggior parte del viaggio.
Non era di conversazione che Kenshin aveva bisogno, ma di supporto morale, e Sano lo sapeva benissimo. Non per la prima volta nella sua vita si rese conto di avere in lui un vero amico.
«Grazie, Sano» mormorò.
«Hm? E di che?»
«Per avermi accompagnato.»
L’ex-attaccabrighe scrollò le spalle, corrugando la fronte. «Non dirlo neanche. In questi casi ti è proibito andare da solo. E poi nessuno di noi vorrebbe farsi strangolare dalla signorinella» sogghignò.
Suo malgrado, Kenshin sorrise.
«Piuttosto… mi chiedevo una cosa.»
«Cosa, Sano?»
«Secondo te, perché Kenji è andato con mio fratello?»
Ah. Bella domanda.
Se l’era chiesto fino a impazzire.
«Sempre che ci sia.»
«Beh, è partito lo stesso giorno, è un po’ strano no? Forse voleva cambiare aria, vivere qualche avventura.» Sanosuke sghignazzò. «Poveraccio. Non conosce ancora bene Ota!»
Kenshin non rispose, la cena intatta.
Vivere avventure? Era un desiderio pericoloso. E una parte di lui, per quanto volesse negarlo, sapeva che suo figlio era il tipo da avere quel genere di idee, sebbene non ne avesse mai parlato apertamente.
Cosa gli avrebbe detto Kenji, quando l’avesse visto? Avrebbe gridato? Avrebbe taciuto, come nelle ultime due settimane in cui l’aveva costretto in casa (la sua ultima azione! Forse la sua ultima azione di padre!), rifiutandosi di guardarlo? Sarebbe scappato? E se fosse riuscito a riportarlo a casa (doveva riuscirci), cosa sarebbe venuto dopo?
L’avrebbe scoperto presto.
Il suo Kenji. Il loro Kenji. Non potevano rinunciare a lui.
Chiuse gli occhi, sopraffatto dall’ansia.
Sempre che ci sia.
Sempre che ci sia…
E la mattina del quinto giorno, quando incrociò lo sguardo stupefatto e innocente di Ota, seppe subito che non c’era.
Aveva sbagliato tutto.

Kaoru aprì gli occhi, trovandosi in cucina.
Si sollevò sui gomiti e si tolse di grembo il gi che aveva cominciato a rammendare la mattina. Guardò verso le paratie di carta di riso per calcolare l’ora corrente ― doveva essere primo pomeriggio ― e sospirò. Aveva di nuovo dormito tutta la mattina, riversa sul tavolo.
Una breve occhiata le rivelò che Inoi e Shinta l’avevano raggiunta e imitata, la bambina accoccolata sui cuscini destinati ai commensali e il fratellino vicino, stretto in un abbraccio contro il freddo.
Il suo cuore si strinse.
I suoi poveri bambini.
Per quanto cercassero di mostrarsi normali (almeno Inoi), era chiaro che si sentivano spaesati.
Si stropicciò gli occhi e si chinò su di loro, avvolgendoli nel gi rammendato. Shinta uggiolò qualcosa, poi si strinse più vicino alla sorella. Carezzò le loro piccole teste e si alzò ad attizzare il fuoco della stufa, che faceva di quella stanza il posto più accogliente della casa.
Scaldatasi a sufficienza le mani, fece un salto in camera, dove in quella settimana non aveva dormito neanche una volta (il letto sembrava troppo vuoto senza Kenshin, e dopo la prima notte aveva preso l’abitudine di dormire nella stanza dei piccoli, stringendoli a sé). Recuperò un grande asciugamani, un cambio e si diresse alla baracca del bagno.
Non scaldò neanche l’acqua, preferendo sciacquarsi con qualche secchio d’acqua fredda.
Il contatto la svegliò definitivamente, prospettandole un altro giorno di deliri.
Kenji mancava da una settimana. Kenshin da cinque giorni.
E, il giorno prima, era arrivato un telegramma da Shinshu, per farle sapere che il ragazzo non si trovava lì e i due uomini partiti alla ricerca tornavano momentaneamente a Tokyo.
Kaoru c’era rimasta di sasso. Pensava avessero già proseguito per Kyoto, ma all’improvviso fu dolorosamente chiaro che non avevano ricevuto il suo telegramma. Dalle le scarne righe trasudava tutta la disperazione di Kenshin.
Doveva credere suo figlio disperso, sparito nel nulla.
Era subito corsa al centro telegrafi, lasciando Inoi e Shinta alla palestra con Yahiko, per rispondergli, pregando che fosse ancora a Shinshu.
Le si spezzava il cuore al pensiero della faccia che doveva avere, scarpinando sulla via del ritorno, senza la più pallida idea di cosa fare.
Sperava in una risposta oggi, la conferma che Kenshin aveva saputo.
Ma era ormai pomeriggio, nessun garzone aveva bussato alla sua porta; e i telegrammi arrivavano in fretta, molto più in fretta delle lettere.
Ormai poteva dire perduta ogni speranza.
Torna presto, Kenshin. Ti prego. Ti prego.
Tornò in casa e si rivestì di tutto punto. Poi recuperò la borsetta, svegliò Inoi e Shinta, pulì loro il viso e dopo averli ben coperti annunciò che andavano al mercato.
«Ma mamma, oggi non c’è lezione?»
«Lo zio Yahiko ha le chiavi» rispose, cercando di mostrarsi allegra. «Non c’è bisogno che rimaniamo in casa. E poi dobbiamo fare la spesa per la cena.»
Di recente aveva cucinato sempre lei, non c’era qualcun altro che potesse farlo; oggi voleva dar e a tutti una tregua comprando un pasto pronto o attraccando all’Akabeko (ma scartò subito l’idea ― non era in vena di starsene in giro nel baccano).
Uscirono e si diressero con calma verso l’area del mercato stabile, avvolti dal freddo e dalla condensa del loro respiro.
Passarono vicino alla stazione, ma Kaoru era talmente concentrata su ciò che doveva comprare, per non dire generalmente confusa, che non notò il rinnovato viavai di gente.
Se l’avesse fatto, forse si sarebbe fermata.
Giunta nel bel mezzo dei banchi carichi di frutta e verdura, cominciò a cercare il fidato venditore di pollame.
Progettava di preparare un bel ramen caldo con carne, verdure e magari un uovo (quello almeno era capace) per scacciare i primi rigori dell’inverno e allontanare il brutto senso di vuoto che sovrastava la casa.
Inoi e Shinta gironzolarono nei paraggi, sempre sotto il suo vigile sguardo.
Non aveva dimenticato gli ammonimenti di Kenshin. E Tokyo era molto più grande e attiva rispetto a dieci anni prima, quindi anche più pericolosa.
Meglio starsene attenti e tranquilli.
Ma non poté fare granché quando, usciti dall’area commerciale, lei i figli si trovarono nel bel mezzo di una bolgia pazzesca.
Tra nitriti di cavalli, enormi carri puzzolenti e gente che sbraitava a destra e a manca, si tirò contro un muro.
Alcuni passanti la imitarono.
«Ma che diavolo succede?» esclamò, tenendo Inoi per mano.
«Il circo, signora» rispose una vecchietta curva ― un’anziana geisha. «Oggi lascia Tokyo, chissà dove vanno.»
Oh. Già, il circo.
Non riportava bei ricordi… se non il fatto che erano stati tutti insieme, felici e senza preoccupazioni.
Dai carri vide spuntare il muso di qualche animale esotico e storse il naso, riconoscendo da cosa proveniva la puzza. Letame, foraggio marcito, parassiti. Bleh. Le pulivano ogni tanto, quelle povere bestie?
Attese che i carri fossero passati, poi disse a Inoi di tener ben stretta la mano di suo fratello. E attraversarono la strada di corsa.
Fu un egregio errore.
Il corteo circense, infatti, non era terminato e la sua comparsa improvvisa fece imbizzarrire gli scalcagnati palafreni del secondo gruppo.
Kaoru sgranò gli occhi e lanciò un grido, impietrita.
Le bestie nitrirono, sfuggendo al controllo dell’acrobata che li guidava e facendo cozzare il massiccio carro contro quello vicino.
Il carro colpito ondeggiò, muggendo. Un urlo isterico si levò dalla folla mentre i suoi cavalli scivolavano, resistevano in precario equilibrio per alcuni terribili secondi e poi cadevano su un fianco, portando con sé anche il traino. La struttura di legno di aprì come una vecchia botte: ne balzarono fuori alcune zebre e una giraffa, impazzite per lo spavento e ancora più spaventate quando si trovarono in mezzo a una folla ululante.
Da quel momento, tutto fu confusione.
Kaoru strinse forte i figli e cercò una via di fuga, mentre altri carri del circo venivano coinvolti nell’incidente, bloccati dalla gente che un po’ scappava un po’ accorreva per vedere. Saltimbanchi, domatori e clown struccati saltarono fuori da ogni dove per fermare lo scempio.
Altri animali scapparono.
La strada si trasformò in un inferno.
«Inoi, Shinta! Tenetevi stretti!»
Kaoru si sentiva in balia di una forza superiore. Non si era mai trovata in un tumulto, ma ora capiva perché le persone che c’erano state ne parlavano in modo traumatizzato. Non c’era via di scampo. Corpi premevano da tutte le parti, i calcagni pestavano i piedi di quelli dietro, gomiti affondavano nei fianchi e nei ventri, e non si riusciva a respirare.
«Aiuto» gridò.
La sua voce si perse nel frastuono.
Credeva di esser sul punto di morire ― e i suoi bambini con lei ― quando, all’improvviso, la pressione diminuì e furono sputati in una via laterale.
Rimase a terra, stordita.
Dopo un po’, quand’ebbe ripreso fiato, vide gli autori della divina intercessione: i poliziotti, che grazie al loro tempestivo intervento avevano smosso la folla curiosa e liberato lo spazio dell’incrocio.
I domatori stavano legando i primi animali, altri raccoglievano resti di oggetti o aiutavano i feriti.
Si passò una mano sulla fronte, accorgendosi di tremare. C’era mancato poco.
Stupida, stupida, stupida! Perché non aveva guardato? Non meritava di essere madre!
E Tokyo era davvero diventata una città pazzesca.
Stava per rialzarsi e controllare i figli, quando una voce ― o meglio, due voci la strapparono all’orrore della situazione.
«Hey signorinella, che diavolo è successo qua?»
Sano…
«Kaoru, tutto bene?!»
Si voltò di scatto, gli occhi già pieni di lacrime.
E Kenshin.
Kenshin, Kenshin, Kenshin!
Ma non poteva essere lui. Era arrivato a Shinshu due giorni prima, a piedi. Avrebbe dovuto metterci altrettanto per tornare.
Lui la raggiunse e abbracciò, rivelando da vicino tutto il proprio pallore.
«La ferrovia ha ripreso a funzionare stamattina e abbiamo preso il primo treno. Ma qui cos’è successo?»
«I-il circo…»
«Papà!» gridò Inoi, buttandosi in mezzo a loro.
L’uomo la strinse, sorridendole.
«Ciao, Inoi-chan.»
«Papà… non te ne vai più ora, vero? Vero?!»
Kaoru lo vide carezzarle la testa, triste, e non poté aspettare.
«Kenshin, Aoshi ha mandato un telegramma. Kenji è a Kyoto! A Kyoto, c’è stato per tutto questo tempo!»
Sia lui sia Sano la fissarono di scatto. Poi il bruno, bilanciando la sacca logora su una spalla, corrugò la fronte.
«Ah. Allora avevamo ragione.»
Kenshin sedette in terra accanto a Kaoru e Inoi, stanco.
«Sono un idiota. Avrei dovuto pensarci subito. Non aspettare di essere a Shinshu.»
«Oh, Kenshin, non―»
«No, avrei dovuto saperlo. Fidarmi di più del mio istinto, non rifiutare l’idea a priori.»
«Dai, Kenshin» mormorò Sanosuke «almeno sai che è al sicuro. Misao e il Grande Buddha sono responsabili.»
L’uomo emise una risatina.
«Dovrebbe consolarmi? Quel ragazzo sarà già da Hiko. E lui gli insegnerà l’Hiten Mitsurugi.»
O quel poco che non sapeva, comunque.
Ci fu un attimo di silenzio, interrotto solo dal fruscio degli hakama di Kenshin, che si alzava e aiutava Kaoru a fare altrettanto.
E poi, Sano che si guardava intorno perplesso.
«Oggi niente mercato per Shinta?»
«Uh?»
«Non l’hai portato. Poverino, lo sai che Yahiko lo annoia a morte con tutti i suoi discorsi di kenjutsu…»
«Ma che dici, non vedi che―»
Kaoru si voltò.
Trovò la figlia, che stava già guardando tutto intorno, spaesata.
«Shinta? Tesoro, non è il momento di giocare a nascondino» chiamò, facendo qualche passo avanti. «Shinta?»
Il suo cuore cominciò ad accelerare.
Nella via con loro c’erano solo pochi anziani. Andò a controllare oltre gli angoli, mentre Kenshin e Sano facevano altrettanto.
«Shinta?!»
«Shinta!»
«Hey, barattolo Himura!»
Presto si diressero verso quello che restava della folla, inoltrandosi tra carri e poliziotto scontrosi.
«Avete visto un bambino? E’ alto così, coi capelli neri, un gi verde…»
Non era possibile.
Un ufficiale cercò di fermarli, dicendo che l’area era ancora chiusa.
«Non trovo più mio figlio!»
Allora li fecero passare. Setacciarono la zona, diventando sempre più disperati, finché non tornarono al punto di partenza.
«Shinta…» gemette Kaoru, coprendosi il volto.
Kenshin la prese per le spalle, ancora più smorto di quand’era arrivato.
«Non è il momento di farsi prendere dal panico. Pensa! Quand’è stata l’ultima volta che l’hai visto? Cosa gli hai detto di fare?»
«Io… io gli ho detto di tenersi stretto. L’ho preso forte per il gi e gli ho detto di stringere anche la mano di Inoi, e poi―»
«No, mamma» interloquì Inoi, gli occhi sbarrati. «No, ero io. Tenevi me.»
«Cosa
La bambina sembrò addirittura spaventata dalla sua reazione e indietreggiò nel padre, lottando per non piangere.
«Io l’ho tenuto stretto. L’ho tenuto stretto davvero, ma quando siamo caduti non sono riuscita. Ho battuto la testa…»
Subito Kenshin le controllò delicatamente la fronte, trovandovi un piccolo bozzo. Kaoru se la baciò, stringendola forte.
«Scusami, tesoro.»
«Dobbiamo trovarlo» concluse il marito, lo sguardo duro.
La sera stessa crollarono.
Kaoru pianse selvaggiamente, odiandosi e insultandosi mentre Kenshin sedeva in un angolo, Inoi addormentata in braccio.



   
 
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