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Autore: mise_keith    08/09/2008    3 recensioni
“Lessi della nascita di Draco sul Daily Prophet, che si congratulava con l'antica e nobile casata dei Malfoy per l'acquisizione di un erede. Non c'erano foto, solo qualche felicitazione formulare nella pagina degli annunci, proprio accanto ai necrologi. Non mi riuscì di concepire il viso appena corrugato di Narcissa chinarsi su una culla per scrutare il piccolo Malfoy mentre dormiva, né il suo fisico asciutto e sottile sformato dalla gravidanza. Fu per questo che, probabilmente, smisi di pensare a lei: perché con quell'evento era sfuggita alla portata della mia immaginazione.”
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Andromeda Tonks, Narcissa Malfoy
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ghiaccio Sottile

 

Autrice: mise_keith.

Disclaimer: Madama Rowling si prenda pure il giusto merito delle sue creazioni. Non ho mai avuto intenzione di usarle per lucro, ma a volte mi sono utili per tornare al mio amore sviscerato, carnale, per le parole, e nient’altro.

Beta-reader: Thilwen.

Rating: Questa fan fiction è PG13 (giallo). Semplicemente perché i temi ed il tono non sono propriamente digeribili, e prima che qualcuno mi accusi di “disorientare i lettori”.

Data di creazione: Concepita la notte tra l’11 e il 12 Agosto 2008. Completata la notte tra il 30 ed il 31 dello stesso mese.

Tipologia: One-shot.

Genere: Malinconico, Introspettivo.

Personaggi: Andromeda Tonks, Narcissa Malfoy. Draco Malfoy e Nymphadora Tonks sullo sfondo.

Note: Spoiler, Nomi originali, One Shot.

Sintesi: “Lessi della nascita di Draco sul Daily Prophet, che si congratulava con l'antica e nobile casata dei Malfoy per l'acquisizione di un erede. Non c'erano foto, solo qualche felicitazione formulare nella pagina degli annunci, proprio accanto ai necrologi. Non mi riuscì di concepire il viso appena corrugato di Narcissa chinarsi su una culla per scrutare il piccolo Malfoy mentre dormiva, né il suo fisico asciutto e sottile sformato dalla gravidanza. Fu per questo che, probabilmente, smisi di pensare a lei: perché con quell'evento era sfuggita alla portata della mia immaginazione.”

Note dell’autrice: Questa fan fiction è ambientata a Dicembre del 1980, e l’età dei personaggi ne consegue, in base alle informazioni fornite dall’Harry Potter Lexicon. Può definirsi come una personale riflessione sull’amore, o meglio, sull’affetto, che è spesso qualcosa di più duraturo, certo, gratificante. Mi sono sempre chiesta cosa derivasse da questo vizio della Rowling di fare sposare i propri personaggi a diciotto/diciannove anni, e cosa ciò comportasse per loro emozionalmente. Non è stata una scrittura divertente, né soddisfacente. Ma è qui, adesso, e sono contenta che sia così.

Le bustine stanno alle foglie da tè come la porcellana cinese sta alle mugs spaiate e sgargianti, o almeno credo. Niente recriminazioni di forzature, dunque.

Ringraziamente e dediche: L’idea che mi ha spinto a scrivere Ghiaccio Sottile è dovuta ad un interessante suggerimento datomi da Anise mentre leggevo la sua fan fiction “Bound”. Il suo era un appunto un po’ peregrino e inesplorato, ma i credits per quest’incontro sono suoi.

Inutile dire quanto di mio ci sia in queste righe. Inutile specificare perché sono state scritte, perché so che chi deve capire, stavolta, capirà.

A Chiara, sempre. A mia madre, a ciò che amo e che, per via delle mie scelte e delle mie possibilità, sarò costretta a lasciarmi dietro (almeno per un po’).

 

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Non ho mai saputo se sarei stata una buona madre.

Mi capitava spesso di pensarvi, da bambina, proprio quando la maternità mi possedeva prepotentemente con una generosità di sentimento che da adulta ho ritrovato solo con l’esperienza, mentre mi prendevo cura delle mie bambole con la quieta reverenza che mi era stato insegnato a usare. Era questo indomabile slancio, suppongo, che quando rimanevo sola mi spingeva, non vista, a stringerne al petto le minute membra rigide, infagottate negli abiti friabili ed antichi come carta stagionata che frusciasse col quieto stropiccio delle foglie autunnali.

Non era un gesto che i miei genitori facessero; probabilmente a quel vago sentore di colpa che mi costringeva il petto durante tali atti era dovuta tanta spontanea segretezza. Infatti, qualcosa nella loro alienata, altera noncuranza mi suggeriva che non avrei mai conosciuto il calore della loro stretta. Non ho idea del modo in cui sarebbe stato accolto, se visto, quell'impulsivo istinto di protezione; certamente ne sarebbe stato disdegnato il trasporto.

Eppure, in fondo, nonostante la voce prepotente dei miei istinti, non conoscevo allora il significato ed il peso della maternità. Col tempo ho capito che i figli sono per una donna la più complessa e rischiosa tra le ristrette opzioni creative che ci sono riservate e che essi sono ben lontani dall'essere balocchi cui spazzolare i capelli o abbassare le palpebre dipinte per metterli a dormire; piuttosto, credo che siano la possibilità di mettere alla prova ciò che abbiamo imparato dalla vita.

È un lavoro faticoso, capace di porre in discussione tutto ciò in cui si reputa di credere. Ed è doloroso, quando comprendi che il caso ha altri piani per il futuro sereno che auspicano i tuoi insegnamenti.

Guardando in retrospettiva, oggi sono consapevole del fatto che il fato, in fondo, è stato generoso con me. Ho avuto molte bambole insignificanti, ognuna di esse candida, riccamente vestita e coronata di riccioli morbidi, ma persi presto interesse per loro quando ebbi l'età giusta per occuparmi di mia sorella.

Ho insegnato a Nymphadora tutto ciò che potevo perché fosse felice. Ho dimenticato d'impartirle una lezione che avrei imparato più tardi: l'amore è soprattutto infinita prudenza.

Ho fatto ammenda raccomandando a Ted, mio nipote, ogni volta che mi fosse possibile, di non dimenticarlo.

 

Narcissa da piccola veniva sempre vestita di bianco. Non posso fare a meno di ricordarlo perché ero io ad aiutarla ogni mattina ad abbottonare il colletto inamidato ed a stringere i lacci invisibili del corpetto che indossava attorno al minuto busto magro. Il candore degli abiti esaltava il pallore del suo incarnato e, nella sua obbediente immobilità, assomigliava al fantasma di una piccola annegata.

Mi sforzo spesso d'immaginarla il giorno del suo matrimonio. La vedo come se fossi davvero stata presente; la sua figura che fluttua verso l'altare trascinando l'organza in una stanza avvolta in un silenzio surreale, le labbra strette innaturalmente in quella sua perenne, desolata concentrazione.

Non so se fosse innamorata di Lucius. Negli anni di Hogwarts la preservazione disperata della mia felicità mi distrasse dal mio affetto per lei e ciò mi ha impedito di conoscere la presenza, nella sua ovattata quotidianità, di una qualsivoglia inclinazione; ma, se avessi potuto parlarle prima che avesse raggiunto l'altare, avrei voluto dirle quel poco che di certo avevo imparato in quegli anni: amare è proteggere qualcuno. Pensavo non avrebbe mai potuto amare Lucius, la cui forza vitale era di tanto superiore a quella di lei, e che il suo fosse il triste destino di chi non conosce il sentimento perché niente è capace di risvegliare in sé il potente incanto dell'arma a doppio taglio della tenerezza.

Ma vi era una fra le tante cose che non avrei potuto prevedere potessero accadere. Il fatto che Narcissa sarebbe arrivata ad afferrare qualcosa d’importante, una volta che avesse dissipato quell’intensa, ostinata volontà di autopreservazione a cui si teneva aggrappata, quasi, terrorizzata ma vigile, i suoi giorni fossero uno specchio infinito di ghiaccio sottile su cui ogni pressione inattesa, ogni passo non calcolato, significa la fine. Qualcosa che io sono arrivata a comprendere solo con la morte di mia figlia.

Si ama con la stessa cautela con cui lei aveva amato se stessa. Con l'attenta, profonda virtù della circospezione.

 

Lessi della nascita di Draco sul Daily Prophet, che si congratulava con l'antica e nobile casata dei Malfoy per l'acquisizione di un erede. Non c'erano foto, solo qualche felicitazione formulare nella pagina degli annunci, proprio accanto ai necrologi. Non mi riuscì di concepire il viso appena corrugato di Narcissa chinarsi su una culla per scrutare il piccolo Malfoy mentre dormiva, né il suo fisico asciutto e sottile sformato dalla gravidanza. Fu per questo che, probabilmente, smisi di pensare a lei: perché con quell'evento era sfuggita alla portata della mia immaginazione.

 

Accadde dopo la prima gelata dell'anno. I fuochi fatui di foglie scarlatte accesi dal vento umido che aveva spazzato le strade per l'intero novembre si erano spenti nella calma immobile di un'intempestiva prima neve; essa si era sciolta in ventiquattr’ore, lasciando il ghiaccio a ricoprire ogni cosa come una patina di glassa.

Un pomeriggio tra i primi di dicembre, mentre ogni cosa riposava fuori della finestra sotto un velo leggero di brina di vetro, una figura ammantata di nero comparve con un tonfo attutito all'estremità del vialetto di casa, con lo stesso intenso, inatteso senso di rivelazione di una luna crescente nel cielo fondo e scuro di novilunio.

Fui sorpresa solo per la durata dell'attimo che precedette il suo avanzare, lento e morbido come di chi galleggiasse sul terreno; il passo certo di chi percorre un strada conosciuta, eppure guardingo, con la cura di chi tiene con sé qualcosa di fragile e prezioso. Come di un bimbo che custodisca il suo giocattolo più caro.

Aprii la porta per richiuderla subito dopo che ebbe varcato la soglia, senza che mostrasse alcuna esitazione, risentita o dubbiosa o intimorita, con la sicurezza spiccia di un'occorrenza collaudata.

Sottrasse con un gesto il proprio viso dall'ombra del cappuccio e cercò a tentoni con la stessa mano la spilla che le fermava il mantello sotto al collo. Mi avvicinai per aiutarla e la stoffa, tiepida per il lieve affanno del suo corpo, si raccolse con un fruscio tra le mie braccia.

Rimanemmo così per qualche momento, a scrutarci come due estranee convinte di essersi conosciute altrove, ma non si sprigionò tra noi alcun abbraccio liberatorio, o pianto trattenuto, come ci si aspetta da molte riunioni inattese. Niente, se non un sordo e palpabile silenzio il cui significato sembrava sfuggire ad entrambe.

Non l'aspettavo, tuttavia neanche lei sembrava aspettarsi di trovarsi lì. Sembrava essersi svegliata proprio in quell'attimo da una strana trance: i capelli lisci e sottili erano sciolti e le nascondevano la nuca sprofondando dietro alla linea delle spalle, il suo vestito lilla era così chiaro da far apparire la sua pelle ancor più spettrale di quanto non si ripresentasse nelle mie evocazioni e stringeva al petto con il braccio destro un fagotto color panna, con l’aria stordita di chi si fosse appena alzato dal letto dopo un sonno inatteso.

La bocca socchiusa tradì lo sconcerto per poi richiudersi in una piega severa, come prendendo nota di un errore di distrazione.

- Narcissa. – mormorai. La giovane donna di fronte a me chinò il capo, ma fu come se i suoi occhi attenti non mi avessero lasciata.

- Bella sa che abiti qui. – la udii informarmi. Ripetei il suo cenno di assenso, mantenendo un'espressione neutra. Il nome di Bellatrix aleggiò per un attimo nello spazio tra l’ingresso e la tromba delle scale, come un’ombra anomala nella luce diffusa, perlacea, del pomeriggio.

- Dice di aver visto la bambina. – aggiunse.

Non risposi immediatamente. Passò qualche momento, sospeso in un limbo temporale ove passato e presente sembravano lottare fra loro dentro alla mia mente disorientata, e poi acquietarsi, simili ad aloni sovrapposti di due luci intermittenti. Feci un breve respiro, mentre Narcissa cominciava a guardarsi attorno con velata discrezione, l’educata espressione d’interesse di chi soppesa ogni cosa per aristocratica abitudine.

- Nymphadora è a letto. – sussurrai. Ebbi l’impressione che la mia voce, per quanto bassa e roca, venisse trasportata più lontano di quanto desiderassi – E Ted al lavoro. – lo sguardo di lei si posò definitivamente su di me, spoglio di ogni disagio. Quasi avesse udito quella nota di colpa che avrei voluto lasciar fuori, la estraesse dal suo involucro da convenevolo casuale e la sezionasse davanti a me, con incaratteristica precisione. Ed un vago, clinico trionfo, ponderai, appena celato dal suo cauto silenzio. Non sorrise.

- Davvero? Mi chiedevo se fossi arrivata in tempo per il tè.

 

Quando mi mossi, con l’intento di guidarla in cucina, mi seguì a testa bassa, tenendosi a qualche passo di distanza, e si sedette sulla sedia che le indicai con un cenno distratto, in una quiete e meticolosità tanto rigorose da far pensare a un segreto cerimoniale. Misi sul fuoco il bollitore per il tè, posizionandomi poi a braccia conserte accanto ai fornelli, la schiena inclinata in una posa tanto abusata da sembrare distesa, dominante.

Non mi guardava; continuava ad esplorare ciò che la circondava in maniera furtiva, assestando la propria presenza nello spazio sconosciuto. Si spostò quasi impercettibilmente sul sedile di legno chiaro, scomodo, solido e pesante, e il vederla nel noto disordine di quella stanza piena di anni trascorsi, invisibili ma familiari come il cauto ticchettio di un timer da cucina, mi fece rammaricare delle mie tazze spaiate e sgargianti, così estranee tra le sue dita infantili, odorose di toeletta.

Appariva del tutto fuori luogo in quell’ambiente. I suoi capelli, che ora fluivano morbidi su un seno, restituivano il bagliore paglierino della luce elettrica ed il suo viso aveva l’alone untuoso e innaturale di una maschera di cera. Ciononostante, mi sembrò che proprio allora emergesse in lei un che di fiero e resistente di cui non mi ero mai accorta prima; un qualcosa di selvaggio e indomato, come di un’orchidea tesa verso un unico fiotto di sole nella penombra densa dell’equatore. Una sorta di innominata sicurezza che le conferiva un calore assai lontano dall’alterità e dal distacco che ero convinta avrebbe oramai maneggiato, come un oggetto affilato d’uso comune, che eppure stonava nel quadro della sua compostezza; come la severa precisione con cui immaginavo tenesse la tazza di porcellana cinese del proprio servizio da tè, durante l’irrinunciabile rito pomeridiano.

L’improvviso fischio del bollitore ebbe l’effetto di ridestarci entrambe dallo spaesato, meditabondo torpore in cui ci eravamo immerse. Feci per voltarmi, ma venni nuovamente paralizzata dalla sorpresa di udire il pianto affranto provenire dal fagotto che Narcissa aveva seguitato a stringere nella stupita attesa del nostro silenzio.

Draco aveva iniziato a vagire, il piccolo volto schiacciato corrugato dalla sorpresa del risveglio, e, nella mia mente, ogni cosa assumeva di colpo una nitidezza sconcertante, un ordine logico, innegabile per le sensazioni nebbiose che aveva suscitato in me la vista di quella sorella che non conoscevo e che non ero riuscita ad associare alla bambina che avevo visto diventare acerba e taciturna adolescente. Narcissa, mentre cullava suo figlio in un accesso di stupito, ma certo affetto, che riconobbi nel bizzarro palpito che mi occorreva nell’abbraccio di mio marito e mia figlia, mi si presentava ora come un intero composto di parti che non avrei avuto modo di nominare, ma che si manifestavano ai miei occhi come un tutto compiuto, in un’armonia che allontanava da me quel sentore di torbido presagio che aveva la sua presenza ai tempi di Hogwarts.

Mi accorsi più tardi del dovuto della concitazione della sua espressione e delle sue parole. Lo stridere acuto del vapore soffocava la disperazione del bambino; chiusi la manopola del gas con un colpo affrettato di bacchetta. Feci levitare il bollitore sul tavolo, per poter cercare le bustine da tè. Narcissa mormorò qualche nenia che non riconobbi. Mentre l’acqua raffreddava nelle tazze, il lamento di Draco si acquietava come un temporale estivo.

- Ti somiglia. – le dissi, osservando i radi capelli sulla testolina nuda accendersi come pagliuzze sotto la fievole luce della lampadina.

- Assomiglia a Lucius. – replicò, accarezzando una guancia paffuta – Ha il suo naso appuntito. – sollevò lo sguardo, velato nella rozza infamiliarità degli oggetti che la circondavano – Ma tutto sembra stranamente smussato in questa stanza. – fece con voce dubbiosa, come se si trovasse di fronte a un particolare specchio deformante.

Pensai di ridere, piano, come mi riusciva quando la osservavo, bambina, corrucciarsi per un imprevisto nei suoi tranquilli giochi da salotto, ma qualcosa di lei, ancora fieramente in tensione in attesa di difendersi, mi trattenne. La guardai, di nuovo, con la curiosità malcelata di scoprire in lei i segni del tempo: la strana piega rigida che avevano assunto le sue sopracciglia in quegli anni; i fianchi, più larghi di quanto li ricordassi, ma non tanto da definirli floridi, come erano i miei; l’impressione, per quanto malsana, di colore, che quella luce dava alle guance sue e di suo figlio.

Mi resi conto che aveva ragione. Sembravamo entrambe più indifese di quanto la vita non ci avesse rese.

- Forse è semplicemente la luce delle candele che fa apparire tutto più affilato. – mi ritrovai a dire in un sussurro prima che potessi fermarmi. Vidi il suo viso contrarsi appena, denudare un trattenuto scetticismo.

- Può darsi. – la sua voce non fece trasparire nulla. Cullava il bambino dondolando piano le spalle, come ballando stretta a qualcuno sulle note di una melodia per me inudibile – Ma è anche vero che essa può portare alla luce cose altrimenti non visibili. – la piega severa che avevano preso le sue labbra mi mise sulla difensiva, in attesa dell’accusa.

- Ad esempio? – domandai.

- L’infelicità.

La risata che uscì, studiata, dalla mia gola, fu più roca e colpevole di quanto desiderassi. – Ma io sono felice, Narcissa.

Si era voltata verso la finestra. Senza rivolgersi dov’ero seduta, rassettò con calma la coperta perché incorniciasse il viso del bimbo, poi prese la tazza fumante, arancione, e la portò alle labbra. La luce gialla risplendeva contro i pannelli di vetro e gli infissi di legno d’acero, ed una goccia d’acqua s’infranse in un attimo cristallino su due piatti sporchi abbandonati nel lavello; l’orologio scandiva i piccoli, consueti rumori della cucina babbana, scrigno di quotidianità reiterate ed attese.

- Sì. – sospirò allora. La tazza riposava di nuovo sul tavolo – Ho sempre pensato che tu saresti stata la più felice di noi.

Dovetti raccogliere tutto il mio coraggio per chiederle perché.

- Perché eri la più facile da amare, suppongo.

Forse fu la neutralità del suo tono a ferirmi, più che le sue parole.

- E tu? – sussurrai, chiedendole ciò che per anni la mia gola aveva conservato. L’interrogativo ne uscì usurato, raschiato dal tempo – Sei felice, Narcissa?

I suoi zigomi si sollevarono in una muta, genuina sorpresa. Gli occhi si riscaldarono come braci di vetro e riposarono amorevolmente sul neonato dormiente, tenero, fra le sue braccia.

- Sì. – disse – Non c’è bisogno del rischio o della rinuncia per esserlo. – fece una pausa, breve, pungente come uno spillo – La felicità è un compromesso, Andromeda.

Non aggiunse altro, e fui sicura che fosse venuta da me solo per dirmi questo. Per stringere suo figlio davanti a me come non osava fare davanti a nessuno e insegnarmi come si potesse amare ed essere madri lontano da ciò che amavo io. Lontano da me, dalle mie scelte.

O, forse, per mostrarmi cosa aveva imparato a fare, senza che io le indicassi quale fosse la strada migliore per arrivarvi.

 

Mi resi conto che non ero riuscita ad abbracciarla solo non appena ebbi richiuso la porta dietro di lei. Non lasciai con gli occhi la sua figura mentre scivolava sul ghiaccio davanti casa e scompariva senza uno scricchiolio nell’aria dura come una gemma.

- Mamma? – sentii il pugno urgente di mia figlia stringere le unghie nella stoffa dei miei pantaloni, aggrapparvisi come a un’ancora.

Aveva lo sguardo intimorito che assumeva dopo un sogno finito male.

- Era un fantasma quello che ho visto camminare sullo specchio di ghiaccio?

Presi la sua mano nella mia e mi abbassai sulle ginocchia per scostarle un ciuffo madido dalla fronte, con una lenta, vischiosa malinconia che non avevo mai conosciuto tra le mura guardiane, amate, di quella casa di periferia.

La strinsi a me per rassicurarla. Restammo immobili, ad occhi chiusi, in equilibrio sul terreno precario dei nostri dubbi, finché non ci fummo stancate del silenzio.

 

  
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