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Autore: MJBlack    30/07/2014    8 recensioni
| GerIta | AU | Germania!dottore; Italia!paziente |
Le sue giornate erano tutte uguali, tutte bianche.
Bianca era la macchina con cui andava a lavoro.
Bianco era il camice che indossava ogni mattina.
Bianche erano le pareti di ogni corridoio all’interno dell’ospedale.
Bianco. Tutto bianco.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Titolo: Wir zählen die Sterne.
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Germania/Ludwig Beilschmidt, Nord Italia/Feliciano Vergas; accenni Francia/Francis Bonnefoy, Giappone/Kiku Honda, Sud Italia/Romano Vergas.
Rating: Rosso
Genere: Angst, Malinconico, Romantico, Sentimentale, Triste.
Conteggio parole: +4000
Avvertimenti: AU, Lemon, Tematiche delicate.
Beta:  Un grazie speciale a neversaythree  ​
Note: Ho in mente questo progetto da un po', più o meno da quando ho cominciato a guardare di nuovo Scrubs e, beh, l'idea di un Germania che fa il medico è stata troppo appetitosa per non realizzarla. 
Il titolo è in lingua tedesca (ma va, non lo avrei mai detto!) e significa "Contiamo le stelle". 
Spero che la storia vi piaccia (=ヮ=)೨
ps. Dedico questa storia a ZiaEnneperché le avevo promesso una GerIta ed le promesse si mantengono sempre (?)
 


Wir zählen die Sterne.
 
 
 
 
 
Le sue giornate erano tutte uguali, tutte bianche.
Bianca era la macchina con cui andava a lavoro.
Bianco era il camice che indossava ogni mattina.
Bianche erano le pareti di ogni corridoio all’interno dell’ospedale.
Bianco. Tutto bianco.
 
Si alzava sempre presto, faceva una doccia e sceglieva cosa indossare. La scelta ricadeva sempre in un pantalone e una maglietta a maniche corte. I colori potevano variare.
Scendeva poi al piano di sotto e faceva affidamento sulle sue scarse abilità culinarie per prepararsi qualcosa per colazione. Con gli anni aveva imparato a cucinare un buon uovo alla Moritz, per il cappuccino doveva sperare che la macchina per il caffè non fosse di nuovo rotta. L’avrebbe portata a riparare, un giorno.
Anche la cucina era per la maggiore bianca ed illuminata dai primi raggi del sole lo sembrava più di quanto in realtà fosse.
 
Se era fortunato, al suo ritorno, avrebbe trovato un piatto preparato dalla moglie di suo fratello, evitando l’ennesima salsiccia. Viveva con loro, non perché non si potesse permettere una casa propria, ma perché il tempo che stava in casa era talmente limitato da riuscire con facilità ad evitare il proprio fratello per giorni, benché avesse trasformato la camera degli ospiti nella propria stanza.
Il letto era comodo e le lenzuola, rigorosamente bianche, profumavano di limone.
 
Poi, arrivato all’ospedale, timbrava il cartellino d’entrata e iniziava la vera giornata. Restava lì fino a tardi sei giorni su sette, perché il lunedì era il suo giorno libero. Aveva scelto il lunedì, invece che domenica, sabato o venerdì perché lo facevano tutti. Era suo compito, come medico, non lasciare i pazienti con qualche troppo sfruttata infermiera, sacrificando il proprio week-end per il bene altrui. E poi, nel fine settimana, sarebbe rimasto a casa da solo.
Non aveva molti amici, anzi quasi nessuno.
Ai tempi della scuola non era tra i suoi principali interessi, preferendo studiare o leggere. Al college questo suo comportamento non aveva fatto che peggiorare. Era rimasto in contatto con il suo compagno di stanza dell’università e, spesso, decideva di fargli visita.
 
Non aveva fatto amicizia con nessuno nell’ospedale; non era un posto per le amicizie, quello.
Lavorava nel reparto di oncologia, lui; aveva colleghi, un’equipe con cui si occupava di casi particolari, ma non definiva nessuno di questi un vero amico. Erano persone con cui condivideva responsabilità e incarichi, nulla di più.
Con i pazienti era amichevole e gentile, ma non si fermava mai a chiedere se erano appassionati di sport o il loro cantante preferito. Un dottore non può affezionarsi.
 
C’era questo assistente, Kiku Honda, così delicato nei lineamenti e nelle forme da apparire molto più piccolo di quanto fosse. Se fosse stato una donna, questa sarebbe stata una qualità ben apprezzata. Ma Kiku era un uomo e non gli interessava se lo scambiavano per un novello studente di medicina, quando si era guadagnato la laurea già da qualche anno.
Era diventato il suo assistente due anni prima, quando il ragazzo era al primo anno della specializzazione e lui aveva appena ottenuto un posto fisso.
Era un bravo ragazzo, dagli occhi scuri e l’aria seria; estremamente stakanovista. Concordò con se stesso che non avrebbe potuto avere un assistente migliore.
Però indossava un camice bianco.
 
 
 
Era un venerdì, un giorno come gli altri.
Lo stesso uovo alla Moritz, gli stessi abiti.
Tutto bianco, tutto uguale.
 
L’infermiera di turno gli passò una sua tazza di caffè caldo mentre dava un’occhiata alle cartelle dei suoi pazienti. Alcune volte il suo cappuccino non prendeva abbastanza seriamente il suo compito di svegliarlo completamente. Si concesse un lungo corso prima di tornare ad occuparsi di quelle carte. Era rimasto a lavoro oltre  l’inizio del turno di notte, molto oltre il suo turno. Si era dedicato allo studio di un carcinomio basocellulare che aveva colpito una donna ricoverata nel suo reparto ed aveva perso cognizione del tempo.
 
« Dottore, lei dovrebbe prendersi una vacanza.» Gli ripeteva sempre l’infermiere Bonnefoy. « Se non per lei, lo faccia per i suoi pazienti, non posso avere un medico semi-cosciente che si prenda cura di loro e, per quanto io sia magnifico, non posso occuparmi di tutto.»
 
« Quando il cancro smetterà di far del male allora mi prenderò una vacanza.» rispondeva sempre, poi congedava la questione entrando nella camera del seguente ricoverato.
 
Non era il tipo d’uomo che si prende un giorno libero per ogni tipo di futilità. Il suo lavoro era importante, era in grado di salvare vite, di salvare famiglie.
Accadeva però anche il contrario e in quei casi non puoi farti prendere dal senso di colpa, perché una volta che ci sei dentro non ne esci più. Cercava allora di tenersi distante degli ammalati di cui di occupava, ma non poteva evitare di mettere una buona parola per un budino in più nel pranzo di Alan Hoffman, stanza B11, o lasciare il telecomando del piccolo televisore nella camera vicino al letto della signora Weber, stanza B06.
 
Aveva memorizzato la camera di ogni singolo paziente del suo reparto. Non si era mai segnato nulla, non aveva imbrogliato chiedendo alle infermiere, non tirava ad indovinare; il trucco era semplice: bisognava associare al numero infisso sulla porta di ogni stanza con la gravità del suo abitante. Se a questi presentava un caso che – da 1 a 10 – presentava un 2, gli veniva assegnata la stanza B13. Avevano a disposizione tre camere singole e otto con due posti letto ciascuna.
Erano tutte con pareti bianche e luminose; i progettisti dell’ospedale avevano inserito grandi finestre rettangolari in ogni camera, in modo che, chi fosse ricoverato lì, potesse ammirare il giardino che si espandeva intorno all’edificio.
Non era tutto bianco nei mesi estivi, allora; il verde delle piante spuntava rigoglioso dagli angoli delle finestre ed erano visibili alcuni fiori piantati dai bambini dei reparto di pediatria.
Ma quanto era inverno la neve ricopriva tutto, dagli alberi spogli alle giostre. Così quando si affacciava vedeva solo altro bianco, proprio come quella mattina.
 
Iniziò presto il giro delle sue visite: sorrideva ai miglioramenti, annotava i peggioramenti; ordinava a qualche infermiera di cambiare il drenaggio toracico della signorina Meyer, stanza B05, ed chiedeva una nuova sacca per la flebo per il piccolo Jonathan, stanza B03. Non poteva fare altro per lui, ma almeno poteva accertarsi del suo stato sperando in un miglioramento che non sarebbe avvenuto.
Alla lista di persone presenti nel reparto era stato aggiunto un nuovo nome. Un piccolo segno, proprio accanto, stava ad indicare che Kiku aveva già visitato il novello paziente. Si fidava ovviamente del suo parere, ma per poter combattere al meglio una malattia doveva vederla di persona, così andò a visitare il signor Feliciano Vergas, stanza B12.
 
Entrando nella stanza fu accolto da un: “Buongiorno!” in lingua italiana. Era normale per l’ospedale avere ricoverati che provenivano da regioni o stati diversi, per questo venivano assunti molti dottori ed infermieri capaci di dialogare in lingue straniere, in modo tale da dare ai pazienti una mano in campo linguistico. Lui faceva parte di questo gruppo medici.
Rispose al saluto e andò dritto verso i piedi del letto per prendere la cartella nella quale erano scritte tutte le informazione legate alla sua malattia. Il ragazzo riportava un caso particolare di tumore intraoculare primario all’età di quattordici anni, con conseguente operazione che lo aveva privato di un occhio.
 
« Come la posso chiamare, dottore?»
 
« Mi ha appena chiamato “dottore”, credo vada bene.»
 
« È troppo formale, mi dica il suo nome.»
 
Istintivamente alzò lo sguardo per osservarlo meglio. Pelle rosea, bocca sottile, naso leggermente all’insù. La caratteristica più particolare di quel ragazzo non era l’occhio di vetro che portava al posto di quello destro, era invece il simpatico ciuffo arricciolato che sembrava non aver intenzione di accomunarsi con gli altri capelli.
Trasmetteva un senso di giovialità e allegria; sembrava tutto fuorché un malato di cancro.
A prima occhiata, gli diede diciotto anni; perse contro la cartella per un anno.
 
« Beilschmidt, doktor Beilschmidt.»
 
« Ma è lungo e difficile da pronunciare!»
 
« Se lo faccia bastare, o torni pure a chiamarmi solo dottore.»
 
Tutti i sintomi che venivano riportati avevano a che fare con gli occhi: vista offuscata, improvvisa perdita della vista o comparsa di macchie nere nel campo visivo, lampi di luce. Non sentiva dolore.
Il ragazzo era stato controllato ogni anno dal suo intervento senza mai presentare segni di ricomparsa del virus. Sfortunatamente questo tipo di malattia non presenta sintomi fino al raggiungimento di stadi avanzati, quindi probabilmente il suo precedente medico non aveva fatto a pieno il suo lavoro.
Gli chiese, per cortesia, di raccontargli una sua normale visita nella sua vecchia clinica. La risposta fu deludente, come aveva intuito.
 
« È sposato, dottor Beschmict?»
 
« Nein.»
 
Fece un check rapido delle pupille; la pupilla era ingrandita.
Chiamò l’infermiera per fargli fare al più presto una lastra.
 
« Ha una fidanzata?»
 
« Nein.»
 
« In questo caso nessuno dovrebbe offendersi se le chiedo di farmi compagnia, vero?»
 
Fu la sua ultima visita, per quella giornata.
 
 
 
Il nuovo arrivato suscitò parecchio scalpore.
In un paio di giorni dal suo arrivo aveva ottenuto con facilità il favore delle infermiere e dei medici che si occupavano di lui. Aveva il viso tenero e riusciva a guardarti con quello sguardo visto al quale riesce del tutto impossibile dire “no”. Non c’era voluto molto quindi a passare dall’avere una doppia razione di pasta al poter scorrazzare in giro per la struttura senza eccessivi rimproveri.
Sfortunatamente, quel ragazzo era riuscito a colpire persino lui.
 
Si perse più volte nei vari corridoi e fu compito suo riportarlo nel suo letto. Doveva caricarselo in spalla perché, ovviamente, il diretto interessato trovava più divertente esplorare la zona che restare chiuso nella sua stanza.
Quando nessuno lo vedeva trascinarsi allegramente per i corridoi voleva dire che il fratello maggiore del ragazzo era venuto a fargli visita. Erano molto simili, se non per il colore più scuro dei capelli e della carnagione dell’altro. Non poté fare a meno di evitare di notare lo stesso ciuffo che, arricciato, faceva capolino anche dal suo cuoio capelluto.
Non veniva spesso, ma quando lo faceva restava fino alla fine dell’orario delle visite, scambiava due parole con il dottore di turno e poi tornava a casa.
 
« Ti piacerebbe l’Italia, dovresti venire a farmi visita!»
 
Quando parlava, arrivava all’orecchio un dolce accento straniero. Era passato con molta naturalezza a dargli del tu e lui, con molta naturalezza, aveva finto di non accorgersene.
Era quasi una settimana che si fermava oltre il suo turno a tenere compagnia a quel ragazzo.
La prima volta si lasciò convincere dal suo tono mellifluo, la seconda da un sorriso, alla terza non ebbe bisogno di alcuna spinta per sedersi al suo capezzale.
La maggior parte delle volte veniva riempito di domande senza alcun collegamento logico tra loro, alle quali si apprestava a rispondere il più sinceramente possibile. Non toccavano mai argomenti quali malattia, ospedale o politica. Le prime erano troppo ordinarie, secondo Feliciano, mentre non aveva molti interessi per l’ultima.
C’erano volte, invece, in cui rimanevano in silenzio: il ragazzo, matita alla mano, disegnava curvo sull’album che il fratello gli aveva portato qualche giorno prima; il dottore si riposava cercando la posizione più comoda che permetteva quella scomoda sedia. 
 
« Ti potrei cucinare la pasta e farti da guida per le strade di Roma.»
 
Lo sente sospirare nel silenzio in cui era caduto l’ospedale. Durante la notte c’erano sempre pochi medici e le attività rallentavano allo stesso modo dei respiri dei pazienti addormentati.
Aveva terminato il suo turno già da un’ora. Era diventata un’abitudine lasciare come ultima visita quella del ragazzo della camera B12, una brutta abitudine. Lasciava l’ospedale ad ora tarda, incurante del turno mattutino che gli sarebbe spettato, la sua alimentazione variava con il menù della mensa e beveva sempre più caffè.
 
Gli sarebbero servite dodici ore di riposo e una doccia ma lì, con gli occhi speranzosi di quel ragazzino puntati su di lui, non riusciva a pensare ad altro che ai colori che presentava nel bianco della camera.
Era rosso, era blu, era rosa, era verde. Non li aveva dipinti sul viso, sui capelli o qualunque altra parte del suo corpo; erano i colori che spezzava in ogni suo piccolo modo di fare, i colori che servivano ad andare avanti e di cui, una volta visti, non potevi fare a meno.
Così si giustificava per il suo comportamento. Era assuefatto a quelle tinte ed ormai non riusciva più a farne a meno.
 
« È mai stato innamorato?»
 
« Non ho mai avuto molto tempo da dedicare all’amore.»
 
Alzò lo sguardo su di lui: era seduto sul materasso, ginocchia contro il petto e il lenzuolo ricadeva malamente dal lato sinistro del letto. Appoggiava la testa sulle braccia incrociate e guardava in direzione della finestra. Era notte e non si riusciva a scorgere nulla oltre le luci della città vicina.
 
« Io sì, una sola volta ma ero molto piccolo, quindi non so se si potrebbe considerare amore vero
 
Rimase in silenzio ad ascoltare la storia del suo primo amore. Sorrideva mentre lo sentiva raccontare di giocattoli regalati al posto di fiori e merendine condivise durante l’intervallo a scuola.
Poi un singhiozzo.
Delle lacrime gli rigavano il viso, scendevano verso il basso e bagnavano il tessuto del pantalone che indossava.
Si inginocchiò davanti a lui e tenne strette le mani nelle sue. Cercò di calmarlo con semplici parole; non capiva la ragione del suo sfogo improvviso e dovette ricorrere a frasi banali, dette e ridette.
Sembravano funzionare: Feliciano si rimise dritto e lo guardò fisso negli occhi, arrossati e ancora lucidi. Disegnava piccoli cerchi con la punta del pollice sul dorso della sua mano, attendendo che l’altro rispondesse in modo positivo al suo tocco.
 
« Grazie, dottore.»
 
« Ludwing, chiamami Ludwig.»
 
« Grazie, Ludwig.»
 
Era la prima volta che osava toccarlo più che come suo medico.
 
 
 
Dopo quella sera si videro una solo due volte prima del rilascio del ragazzo.
La prima fu proprio la mattina seguente. Feliciano gli diede il benvenuto nella sua nuova abitazione con un sorriso e un’espressione ebete sul viso; il dottore sembrava immune ad ogni gesto amichevole che il minore gli regalava.
Era silenzioso, era schivo, era teso. Lo fissava per alcuni secondi quando vedeva l’altro distratto, storceva le labbra e ritraeva lo sguardo. Nascondeva il viso in quella cartellina che aveva in mano, aiutato ad essere perso di vista dagli occhiali che portava sul naso.
Scosse la testa – doveva essere sua la quarta volta – ed uscì in fretta dalla stanza, senza aver nemmeno salutato quell’irritante ragazzino sempre così sereno.
 
Aveva già parlato con il fratello prima di lui ma non ce la face a dire cosa stava accadendo. Continuò il suo giro giornaliero come fosse un giorno qualsiasi. Più le ore passavano, più ogni singolo paziente che visitava lo osservava con il suo stesso tenero sguardo, tanto da farlo sentire male.
Passò da lui anche quella sera, non poteva evitare di perdere quella che sarebbe potuta essere la sua ultima occasione per vederlo e lasciarsi vedere; sarebbe andato via dall’ospedale il giorno seguente, portato via dal fratello fino al giorno dell’operazione, prenotata per il mese successivo.
 
« Sono arrivate le lastre, vero?»
 
Annuì e guardò altrove. Non aveva la cartellina che per distrarsi e gli occhiali erano diventati un fastidio, più che un’agevolazione. Se li tolse e li posò sul piccolo mobile vicino al letto. Strofinò le dita contro le palpebre chiuse; pensò a cosa fare, pensò a cosa dire. Era la prima volta che si trova in una situazione del genere, la prima volta che si era lasciato coinvolgere troppo ed ora stava perdendo tutto: il sorriso, la professionalità e i colori che la sua vita stava cominciando ad assumere.
In un soffio di vento tutto era tornato nella pallida tonalità del bianco puro.
 
« Sto per perdere anche l’altro occhio, vero?»
 
Annuì nuovamente.
Non sapeva come, ma si trovò inginocchiato di fronte al suo letto, proprio come la sera prima, testa poggiata sul suo grembo.
Piangeva, piangeva e si sfogava. Aveva voglia di urlare, spaccare le finestre, rompere quei macchinari così costosi da far impallidire.
Dava spiegazioni e chiedeva perdono per qualcosa di cui non ha colpa, per qualcosa con cui non aveva niente a che fare.
Piangeva per sé, piangeva per lui. Non una lacrima era scesa lungo le sue guance. Gli accarezzava, silenzioso, la testa con fare materno ed affettuoso.
Si sentiva impotente e dannatamente stupido. Doveva essere la sua roccia, cercare di tenerlo calmo e rassicurarlo quando invece stava avvenendo il contrario.
 
Strinse il suo viso tra le mani, palmo contro guancia, e piano gli baciò le palpebre chiuse di entrambi gli occhi, sia quello vero che quello di vetro.
L’altro non si muoveva: labbra tirate, fronte lievemente aggrottata, mani ricadute, flaccide, sulle cosce coperte dal lenzuolo.
Avrebbe tanto voluto baciare anche le guance, il collo, le labbra; avrebbe tanto voluto baciare ogni centimetro di quel corpo perfetto in tutti i suoi errori.
Stava per farlo, stava per cedere a quella sensazione infida che si stava facendo spazio in lui lasciandogli credere che era la cosa migliore da fare.
Stava per farlo, ma riuscì a ragionare e a capire che farlo ora avrebbe significato farlo senza il suo consenso. Era debole e ancora scosso dalla nefanda notizia che lo riguardava.
 
Gli baciò la fronte, come ultima spiaggia, e poi si allontanò.
Feliciano lo fermò mentre stava per uscire dalla stanza con un flebile “Ludwig”, detto con quel suo adorabile accento italiano di cui non poteva più fare a meno. Non disse nulla, semplicemente allungò la mano verso di lui nell’istante in cui fu girato nella sua direzione.
Prese posto su quella sedia, camice spiegazzato ancora addosso e puzza di naftalina e disperazione che non aveva intenzione di andarsene via con poco. Passò tutta la nottata al suo fianco, nel silenzio ottenuto al calar del sole e le mani che si stringevano.  
Quella notte, in cielo, non vi era alcuna stella.
 
 
 
I giorni bianchi si accavallavano.
In cielo le nuvole si erano addensate e formavano una cupola oltre la quale non passava nessun raggio di sole.
I colori si erano ingrigiti e il bianco divenne quasi perlaceo, ma per lui sarebbe rimasto un semplice ed omogeneo bianco, poco importava se la luce al neon della sala d’attesa irradiava la sua immacolata camicia di un tenuo giallo limone.
Era il suo giorno libero, quello, ed ovviamente non avrebbe dovuto passarlo lì, seduto con un imbarazzante orsetto di peluche in mano.
 
 Aveva avuto una soffiata, il pomeriggio prima: qualcuno aveva chiamato per anticipare di qualche giorno un’operazione molto delicata. Nessuno disse apertamente che si trattava proprio di quella operazione, ma nessuno disse il contrario.
Non molti erano a conoscenza dello stretto legame che si era creato tra Ludwig ed il ragazzino, un legame che, parlando burocraticamente, non sarebbe mai dovuto venire alla luce.
Primo per la professionalità dell’ospedale.
Secondo per il rapporto medico-paziente.
Terzo per la differenza d’età.
Pensando al suo sorriso non era mai riuscito ad arrivare alla quarta ragione per cui si sarebbe dovuto tenere lontano da lui.
 
Rivolgeva spesso la mente a lui, immaginandolo dormire, mangiare e passare in rassegna tutti i posti che aveva amato e disegnato tante volte.
Prima di andarsene gli aveva lasciato una lettera: all’interno non vi era nessun biglietto ricolmo di frasi strappalacrime, bensì un esorbitante numero di fogli trattati a matita. Per un breve istante si chiese in che modo era riuscito a farli entrare tutti.
Erano puliti, nei punti vuoti, ma quelli dove ostentava il tratto della mina erano nettamente superiori, tutti rappresentavano lo stesso viso ripetuto più e più volte. Alcune volte era accompagnato da un tonico corpo nascosto dai vestiti, altre era semplicemente un volto tirato dalle più fervide espressioni umane: stanchezza, amorevolezza, apprensione.
Tutti rappresentavano lo stesso viso ripetuto più e più volte: il suo.
Non aveva mai conosciuto qualcuno così bravo e così dannatamente condannato alla muta espressione artistica.
 
Arrivò nel primo pomeriggio. Varcò la sogna dell’ospedale con la stessa naturalezza che occorre per entrare in una casa di cui conosci la sistemazione di ogni camera.
E probabilmente sarebbe entrato nella stanza B12 se non fosse stato che ora la sua stanza era la B02.
Sarebbe dovuta essere la B03, essendo l’altra singola e molto più costosa, ma Ludwig fece di tutto per metterlo a proprio agio, per quanto ci si possa sentire a proprio agio qualcuno che sa di perdere la vista.
Pagò di propria tasca, si rifiutò di accettare anche il più misero spicciolo dalla famiglia dell’altro.
L’intervento si sarebbe tenuto l’indomani.
 
Passò l’intero pomeriggio a fargli compagnia nella suo comoda nuova camera, ricca più confort e dai muri su cui ocra sostituiva il banale bianco.
Disegnò la maggior parte del tempo. Parlò poco, giusto per il minimo indispensabile. Sorrideva con le labbra, ma gli occhi non erano della sua stessa opinione. Erano tristi, erano pieni di voglia di continuare a vivere, di continuare a vedere. Uno dei due era già addormentato e piangeva ugualmente il fratello che stava per perdere a sua volta tutto.
Rimase a fissarlo non lontano dal letto, viso appoggiato placidamente sulla mano e occhi che si chiudevano per le poche ore di sonno che aveva accumulato a causa dei pensieri che rivolgeva a lui.
 
Si ridestò improvvisamente con il volto di Feliciano davanti al suo e il braccio che scuoteva piano la sua spalla.
Andiamo”, diceva e credette di star ancora sognando. Venne tirato per l’orlo della manica per le scale dei vari piani che dovettero salire per raggiungere il tetto. Vide l’altro tremare, accusando in silenzio il freddo che si stava ristagnando nelle ossa.
Si tolse la giacca dalle spalle e la poggiò sulle sue. Aveva due coperte in mano che non servivano per coprirsi da una fredda serata d’inverno come quella; vennero adagiate entrambe sul suolo, seguite a loro volta dei corpi dei due. Quelle coperte erano l’unica barriera che li divideva dal freddo pungente del pavimento innevato.
 
« Ho paura del buio.»
 
Rimasero entrambi in silenzio, sentendo le parole che si congelavano nel poco spazio che vi era tra i loro corpi.
 
« Ho paura che tutti quelli che amo mi lasciano, ora. Ho paura che tutta la mia vita cambi.»
 
Girò la testa verso di lui. Osservava le stelle senza la minima traccia di voler cambiare il soggetto del proprio interesse, almeno per ora. Rimasero così per un po’ di tempo: Felciano che guardava le stelle, Ludwig che guardava la cosa più bella che avesse visto.
Con le dita fece pressione contro il suo mento e fece abbassare il capo, trovandosi a pochi centimetri dal suo viso. Nella posizione in cui si erano stesi, il suo volto era molto più in alto rispetto al proprio, tanto la bocca di uno poggiavano sulla fronte dell’altro.
 
« Non ti mentirò, la tua vita cambierà ma non devi temere né il buio, né che i tuoi cari ti abbandonino. Tuo fratello starà al tuo fianco, tuo nonno starà al tuo fianco...»
 
Esitò un secondo.
 
« Io starò al tuo fianco.»
 
Le labbra di uno scattarono su quelle dell’altro; in seguito non seppero dire se il bacio era partito da entrambi o se era partito da uno dei due in particolare.
Continuarono a baciarsi ed accarezzarsi dolcemente per molto altro tempo ancora, fino a che il gelo non era diventato tanto pungente che costrinse i due a dover accettare la sconfitta contro il tempo.
 
« Una curiosità, perché mi hai portato sul tetto?»
 
« Come si dice “contare le stelle” in tedesco?»
 
« Wir zählen die Sterne
 
« Wir zählen die Sterne
 
Quella notte, però, di stelle non ne contarono nemmeno una.
Tornarono in camera molto presto, quasi subito in effetti.
Mentre si baciavano, Feliciano lo pregò più volte di lasciarsi vedere nudo almeno una volta. Era una delle cose che avrebbe voluto vedere prima di domani, se non lo avesse fatto sentiva che si sarebbe pentito per sempre. Allora Ludwig lo portò di nuovo al secondo piano, lo aveva fatto distendere delicatamente sul letto.
 
Si spogliò davanti a lui e lo fece lentamente, senza fretta; avevano tutta la notte davanti. Si tolse il camice, la camicia e i pantaloni, lasciando scoperta più pelle di quanto la temperatura gli permettesse.
Vide Feliciano, lì, steso davanti ai propri occhi che lo fissava con impetuosità e lussuria. Aveva la mano vicino l’elastico del pantalone del pigiama che indossa ed è vicino a calarselo del tutto.
Avrebbe voluto accarezzare quelle lunghe gambe e quell’addome piatto, e la sola idea di poterlo avere lo faceva eccitare come poche altre cose nella vita. Sentì un’ebbrezza nascergli da dentro, un’ebbrezza che non riusciva a controllare, troppo occupato a tremare di piacere per le carezze che la sua stessa mano gli stava procurando.
 
Il suo intimo era dimenticato a terra già da un po’ e lui si stava toccando davanti al ragazzo. Lo vide trattenere il respiro e coprirsi il volto con una mano; riconobbe di aver ottenuto un primato e se ne vantò allargando appena le gambe.
L’imbarazzo iniziale venne presto lascito da parte, sostituto da una sempre maggiore curiosità nei confronti del corpo dell’altro. Non si erano ancora toccati reciprocamente: guardavano, studiavano, imprimevano nella loro mente quei piccoli atti.
La lampada illuminava la stanza, rendendo più facile agli occhi vagare e scoprire nuovi particolari.
Si mise in ginocchio sul letto, spoglio di tutto tranne della luce che lo copriva e lo mostrava nudo.
 
Si avvicinò, Feliciano; gattonò sulle coperte e lo raggiunse. Fece scontrare i loro sessi più e più volte, e riuscì a strappare più di un mugugno compiaciuto dalle labbra del medico.
Gli baciò le labbra, gli baciò il petto, gli baciò il ventre.
Vedeva quella testolina scendere sempre più in basso e sentiva la lingua che si muoveva lentamente sulla sua pelle.
Era ebbro di quelle labbra, era ebbro di lui.
Si avvicinò pericolosamente alla sua erezione svettante, ma non si preoccupò di questa. La leccò velocemente, per poi spostarsi a torturarlo baciando il suo interno coscia.
 
Aveva i suoi palmi che gli cingevano e fermavano i suoi fianchi. Si spinse in avanti mentre Feliciano spostava le sue attenzioni all’altra gamba; i suoi piani furono rovinati quando si ritrovò il sesso pulsante del suo compagno davanti al viso.
Strinse la mano alla base del membro e lasciò fugaci baci sulla punta.
Ludwig stava perdendo la testa per quella lenta tortura che gli stava infliggendo. Aveva ancora addosso le sue mani che tentavano di immobilizzarlo, e questo servì solo ad eccitarlo maggiormente.
Quando, finalmente, Feliciano esaudì le sue mute preghiere, strinse le forti dita tra i suoi capelli e lo costrinse a prendere tutto ciò che gli dava.
Cominciò a spingere il bacino contro la sua bocca ed affondare con più decisione nella sua gola. Gli tenne ferma la testa e si riverso in quell’altro caldo, mentre il compagno veniva a sua volta aiutato dalla propria mano.
 
Persero il loro interesse per le stelle, quella notte.
 
 
 
Quella sera il tempo era sereno.
Erano passati cinque giorni dall’operazione, cinque giorni d’inferno.
Doveva restare in ospedale un’altra notte ancora prima di poter tornare definitivamente a casa.
Ora Feliciano non usciva più per i corridoi a far amicizia con gli infermieri, erano gli infermieri che passavano per la sua stanza a fargli visita. Lo vedeva, frustato e insoddisfatto, mentre li salutava e li aggiornava sulla sua condizione con un “Bene” non abbastanza sentito per essere vero, ma sembrava l’unico ad essersene accorto.
 
Lo aveva visto più volte, tremolante, impugnare la matita e provare a disegnare sul suo vecchio album da disegno. Cominciava, e cominciava anche bene, ma nell’istante in cui intersecava la linea dell’occhio con quella del naso strappava il foglio e, accartocciato, lo lanciava contro un muro o il vetro di una finestra. In quei momenti sembrava quasi aver ripreso la vista, a causa del modo meticoloso in cui si accorgeva di aver commesso uno sbaglio nella sua opera.
 
Era nervoso, era diverso dal ragazzo di cui si era innamorato e sapeva che non era sua la colpa per quel comportamento freddo e distaccato verso tutti.
Voleva aiutarlo, voleva risollevarlo, ma lui faceva parte del ‘tutti’.
Non lo voleva vedere per metà della mattinata, non voleva essere visto in quelle condizioni, a suo parere, pietose. Lo assecondò, limitò le visite alla notte, quando era così stanco ed intontito dai farmaci da non far nemmeno caso alla sua presenza.
Non pronunciava più il suo nome con il consueto tono allegro che adoperava.
 
« Dove mi porti?»
 
« Se te lo dico mi togli il divertimento.»
 
Presero l’ascensore. Usavano sempre le scale quando era ancora in grado di poter camminare autonomamente, senza l’aiuto del braccio del suo ragazzo o del bastone che ora era costretto ad usare continuamente. Era come dire: “Stupida malattia, ti prenderai il mio stupido occhio, ma non ti prenderai il piacere che ottengo salendo queste scale ora!”.
La stupida malattia si era già vendicata per quell’affronto e gli tolse la possibilità di salire le scale nello stesso modo di prima, gli tolse la possibilità di fare tutto come prima.
 
Seguì le istruzioni che gli aveva visto fare l’ultima volta che erano stati lì: prese le coperte, le stese per terra e aiutò l’altro ad accomodarsi al suo fianco.
Gli baciò le palpebre socchiuse, come aveva fatto una delle prima notte in cui si erano conosciuti e non aveva mai troncato quel piccolo vizio che piaceva ad entrambi.
 
« Siamo sul tetto.»
 
« Ja, es ist.»
 
Braccia incrociate dietro alla testa si posizionò meglio sul tessuto sul quale era accomodato.
 
« Che ci facciamo sul tetto?»
 
« Wir zählen die Sterne
 
« Io non posso vederle, come faccio a contarle?»
 
« Le conterò io per te.»
 
Quella notte, di stelle non ne contarono più di cento.
 
   
 
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