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Autore: Alexiel_Slicer    30/07/2014    3 recensioni
- Ripropongo, a distanza di tempo, questa mia storia rivisitata e debitamente corretta e mai finita di pubblicare su efp. -
"Quelle urla erano un grido disperato d'aiuto o forse l'unico modo di comunicare che avevano. L'unico modo per darle il benvenuto. Quelle urla erano sufficienti a far diventare pazzi.
La vecchia l'afferrò per un polso e la spinse bruscamente dentro la stanza, poi con un repellente ghigno la chiuse all'interno. " Benvenuta a Foggy Lane " disse con una risata sadica.
Marlene che era caduta con la faccia sul pavimento sudicio si sollevò. Ad arredare la camera vi era solo un letto di ferro. Si sedette con le gambe contro il petto sul materasso, scoprendolo terribilmente molle, e affondò il viso nelle ginocchia, mentre le urla, ormai cessate, lasciavano udire il lontano tintinnio della vecchia."
Genere: Avventura, Fantasy, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 1  -  "Il Cavaliere Smagliante"

Accarezzava i petali lilla di un fiorellino selvatico che, poco prima, aveva separato dal prato; li avvertiva morbidi e lisci sotto i polpastrelli. In quel mentre osservava il ragazzo che le sedeva vicino: il sole tiepido di quel mattino di fine estate gli illuminava il viso dalla pelle chiara e dai lineamenti dolci. I capelli biondi, lunghi per un ragazzo, ma che non arrivavano alle spalle, sembravano fili d'oro baciati dai raggi. Gli occhi azzurri come quel cielo che li sovrastava, la scrutavano con attenzione e curiosità. Lui era il Cavaliere Smagliante, o almeno lo era per lei. Era sempre stato al suo fianco, fin da quando ne aveva memoria, ma nonostante ciò non aveva mai saputo il suo vero nome, quindi l'aveva nominato in quel modo: Cavaliere per i suoi modi gentili e il suo bell'aspetto, Smagliante perché quando rideva sembrava illuminarsi di luce propria. Pensò alla prima volta in cui lo vide, aveva poco più di quattro anni. Era una mattina come quella, dal cielo azzurro spoglio di nuvole e con l'aria che odorava del profumo dei fiori che il leggero venticello portava al suo passaggio. Lei era uscita per giocare fuori e andare sull'altalena improvvisata da un vecchio copertone e una corda, appesa al ramo dell'albero secolare dietro casa, quando lì, seduto proprio sulla sua altalena, aveva visto un ragazzo bellissimo, di nero vestito con una lunga camicia aperta sul petto e una giacca corta che non gli arrivava nemmeno ai fianchi.
 << Sei un cavaliere? >> fu la prima cosa che gli chiese. Ne aveva sentite tante di fiabe che narravano di cavalieri, giovani eroi e principi dalle mirabili imprese, prima di andare a letto.
 Lui le aveva sorriso e con semplicità le aveva risposo << Si >>.
 Pensando a quel ricordo le sfuggì un sorriso carico di tenerezza. Erano già passati undici anni dal loro primo incontro.
 << Cosa c'è? Perché sorridi? >> le domandò curioso il giovane.
 << Oh, niente. Stavo solo pensando... >> rispose lei scuotendo la testa.
 << A cosa? >>.
 << Al fatto che sto torturando questo povero fiore >> disse guardando dispiaciuta la corolla sgualcita dalle sue dita.
 << Marlene, Marlene dove sei? >>. La voce della madre sopraggiunse improvvisamente, dall'interno della casa.
 << Sono qui, mamma >> urlò in risposta la ragazza.
 Il Cavaliere Smagliante si fece serio. << E' meglio che vada ora >>.
 << Di già? >> ribatté lei sorpresa e delusa << Ma sei appena venuto >> osservò, per poi abbozzare un sorriso << Va bene, ma domani vieni, vero? >>.
 << Si, certo >> rispose e andò via.
 Sembrava avesse fretta e non capiva il perché. Una delle cose che adorava era che il Cavaliere Smagliante non lo poteva vedere nessuno oltre lei, era solo suo. Allora per quale ragione era letteralmente fuggito al suono della voce di sua madre? Tante volte la donna era giunta quando era in sua compagnia. Lei non poteva vederlo.
 << Ah, eccoti tesoro >>.
 Marlene si voltò, incontrando il volto della madre incorniciato da lunghi capelli castani e con due smeraldi incastonati a farle da occhi. Era bella, bellissima per lei, ma stranamente qualcosa la turbava. C'era un non so che di diverso nei suoi occhi, una sfumatura che non aveva mai colto prima.
 << Con chi stavi parlando? >> le domandò.
 Quella domanda la stupì << Con il Cavaliere Smagliante, lo sai >>. La madre era al corrente del suo amico "invisibile". Nei primi anni i genitori avevano creduto che si trattasse solo del classico amico immaginario, che si creavano spesso i bambini fantasiosi. Credevano che fosse solo una fase, ma con il trascorrere degli anni il Cavaliere Smagliante non era svanito e le sedute dallo psicologo non servivano a granché, così erano stati costretti ad arrendersi e a lasciare alla figlia la compagnia di quell'amico senza fare troppe domande.
 << Ancora con questa storia? Hai quindici anni! >> sbottò inaspettatamente la donna.
Marlene l'osservava attonita.
 << Io non lo posso più sopportare! Non ce la faccio a continuare così! Non lo capisci che è devastante vederti in questo stato per me e tuo padre?! Dobbiamo farla finita con questa storia! >>.
 << Io... io non capisco... avevate detto che andava bene...che... >>.
 La madre la interruppe << Non va più bene adesso! Andiamo, tuo padre è già in auto che ci aspetta! >>. Detto quello l'afferrò per un braccio e la trascinò.
 Marlene sentiva quella presa stritolarla, quasi a volerle spezzare le ossa. << Mamma, smettila! Mamma, mi fai male! >> protestò impaurita, ma la donna la ignorò.
 La scaraventò nei sedili posteriori dell'auto, mentre la madre si accomodò davanti. Il padre poi mise in moto.
 << Dove stiamo andando? >> chiese con voce tremante.
 << In un posto che ti piacerà >> rispose l'uomo con freddezza ghignando.
 << Dove? Voglio saperlo! >> insistette.
 << Al manicomio di Foggy Lane >>. Il ghigno si fece più ampio.
In quell'istante Marlene ebbe davvero paura. Quelli non potevano essere i suoi genitori. No. Loro non l'avrebbero mai mandata in un manicomio. Mai! Loro la capivano e lei non era pazza. Inoltre non si sarebbero mai comportati in quel modo. Eppure quelli che vedeva lì, seduti sui sedili della loro auto, erano loro. O forse i suoi occhi la stavano ingannando, forse, forse... No! Si diede degli schiaffetti sulle guance. Se avesse continuato così sarebbe davvero impazzita. Quelli erano loro e si erano stufati di lei. D'altronde come biasimarli con una figlia che trascorreva le giornate parlando da sola, convinta della compagnia di un qualche cavaliere partorito dalla sua fervida immaginazione? Non doveva essere facile, non li odiava per questo. Solo che lei non sentiva di essere pazza, ma in fondo i pazzi non erano consapevoli di essere tali...
 Guardò indietro, per un'ultima volta, e cercò di imprimere nella mente meglio che poteva la sua casa, circondata dalla verde campagna con le montagne in lontananza, dalle vette coperte dai ghiacciai perenni. E il suo albero con l'altalena con il suo Cavaliere Smagliante seduto sopra. A quella vista spalancò gli occhi: perché non faceva niente per salvarla e se ne stava lì, con il viso privo di qualsiasi espressione a guardare quell'auto che la portava via?
 "Aiuto" mimò Marlene con le labbra.

 Il manicomio di Foggy Lane si ergeva su una collina e stranamente tutto intorno ad esso era cupo, perfino il cielo che lo sovrastava aveva assunto un colorito grigio, stonando con l'azzurro in lontananza. La struttura era imponente e antica, sembrava un vecchio convento se non fosse stato per le sbarre alle finestre e la mancanza di crocifissi. Sul tetto vi erano comignoli fumanti e corvi gracchianti. L'insegna annerita che ne riportava il nome stava appesa sopra il cancello cigolante, dal ferro arrugginito. Questo si aprì non appena arrivarono e una stradina di ciottoli li condusse attraverso una vegetazione selvatica, che aveva inghiottito ciò che un tempo sarebbero dovute essere panchine in pietra e fontane con nudi di fanciulle. Procedendo Marlene aveva l'impressione che tutto fosse sempre più morto.
 L'ingresso era formato da un pesante portone in legno, affiancato da due colonne addossate alla facciata, mentre su di esso due orribili finestre lunghe quasi fino al tetto, strette e leggermente curvate facevano da occhi a quel tetro edificio. Sulla soglia una vecchia donna li aspettava. Come potevano sapere del loro arrivo? Era stato tutto programmato già da tempo? Se si, perché, allora non ne avevano parlato? Si poteva evitare quella brusca scenata. Queste erano alcune delle domande che tormentavano l'animo di Marlene.
 << Vi aspettavamo >> disse la vecchia con un sorriso che mostrava i denti marci, disgustosamente neri. Aveva dei piccoli occhietti giallognoli, coperti per buona parte dagli ispidi capelli grigi spettinati e una serie di bitorzoli che le costellavano il viso raggrinzito.
 Il padre la spinse all'interno e in quello stesso istante un urlo disperato si levò nell'aria, per poi lasciare spazio ad un silenzio agghiacciante. Il pesante portone si chiuse alle sue spalle, facendo tintinnare gli anelli di bronzo intrappolati da teste di leoni dall'aspetto feroce. Marlene sentì un brivido percorrerle la schiena. Dov'era finita?
 Un lungo corridoio si apriva davanti ai suoi occhi, diviso a metà da delle scale che conducevano al piano superiore. Le pareti bianche erano annerite e il pavimento era formato da piastrelle lisce anch'esse bianche, ma nelle cui fughe lo sporco si era annidato, rendendole nere.
 << Andiamo >> le ordinò la vecchia donna strattonandola.
 Lei la seguì a malincuore. Avrebbe preferito scappare, ma l'unica cosa che glielo impediva era sapere che non sarebbe potuta tornare a casa. Vedendola i suoi genitori sarebbero rimasti delusi del suo comportamento, oltre che arrabbiati. Se era davvero matta avrebbe provato a guarire, per loro. Non ci sarebbe più stato il suo adorato Cavaliere Smagliante. Non li avrebbe delusi, per loro avrebbe rinunciato a tutto, anche a lui.
 Al primo piano si trovarono in un pianerottolo, così come al secondo, dove si fermarono. Su entrambi i lati vi erano due porte con una finestrella di vetro che lasciava intravedere due lunghi corridoi, mentre di fronte c'erano le strane finestre, gli occhi del manicomio, che si affacciavano sul giardino trasformatosi in una giungla morta. La donna varcò la porta sulla sinistra e la condusse per il corridoio rigorosamente bianco. Marlene osservava la fila di porte, anch'esse bianche, dove su ognuna in rosso c'era disegnato uno strano simbolo: un triangolo rovesciato, in cui da ogni lato fuoriusciva un altro triangolo più piccolo, tutto dentro un cerchio. Ma la cosa che la colpì maggiormente erano i pazienti che fugacemente vedeva passando, alle finestrelle sulle porte. Sembravano tanti cadaveri, tanti fantocci privi del calore della vita e di volontà propria. Stavano accovacciati nei loro letti, agli angoli o con il naso incollato all'uscio per scrutare chi passava, con uno sguardo vuoto e al tempo stesso pieno di compassione per quel povero sventurato che si sarebbe unito al loro triste destino.
 La vecchia si fermò davanti ad una porta e dal cinturone che le pendeva intorno alla vita, estrasse un mazzo di chiavi, che fino a quel momento, ad ogni passo, l'aveva accompagnata tintinnando. In quel mentre Marlene si accorse di essere osservata: nella stanza accanto vi era un uomo anziano, dal volto infossato e la testa priva di capelli che la fissava. Improvvisamente questo si mise ad urlare e con lui tutti i malati di quel corridoio, di quel piano, dell'intero manicomio. Marlene si portò le mani alle orecchie, con un'espressione sofferente. Quelle urla erano atroci, le perforavano i timpani. Quelle urla erano un grido disperato d'aiuto o forse l'unico modo di comunicare che avevano. L'unico modo per darle il benvenuto. Quelle urla erano sufficienti a far diventare pazzi.
 La vecchia l'afferrò per un polso e la spinse bruscamente dentro la stanza, poi con un repellente ghigno la chiuse all'interno. << Benvenuta a Foggy Lane >> disse con una risata sadica.
 Marlene che era caduta con la faccia sul pavimento sudicio si sollevò. Ad arredare la camera vi era solo un letto di ferro. Si sedette con le gambe contro il petto sul materasso, scoprendolo terribilmente molle, e affondò il viso nelle ginocchia, mentre le urla, ormai cessate, lasciavano udire il lontano tintinnio della vecchia.
 Da quel giorno erano passati tre anni.
  
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