Titolo: Roulette
Russa
Autore: LazySoul
Fandom: Originale
Pacchetto: Ibisco
Genere: Romantico, Triste,
Introspettivo
Rating: Arancione
Introduzione: Victoria non ha
quella che si può definire una vita facile. I suoi genitori sono morti quando
lei era ancora piccola e da quel momento lei ha il terrore di perdere le
persone che le sono più vicine come, per esempio, suo fratello Peter e il suo
migliore amico, Sam.
È la fine dell’estate e, col ritorno di vecchi
incubi lei cede a vecchie abitudini, ma per fortuna che Sam è sempre lì ad
aiutarla ed a sostenerla.
Lui gliel’ha promesso: non la abbandonerà mai.
Peccato che lei non sappia che questa sia solo
l’ennesima bugia.
Avvertimenti: Tematiche
delicate
Roulette Russa
Strinsi forte il labbro inferiore, pressandoci sopra i miei
denti bianchi.
Faceva male, ma non avevo intenzione di fermarmi perché per
quanto fosse doloroso mi faceva provare qualcosa di diverso rispetto alla
solitudine.
Spinsi maggiormente, ignorando il bussare insistente alla
porta del bagno e la voce di Peter che mi chiamava.
Guardavo con insistenza il luccichio sinistro della lametta
a contatto col mio polso, dal quale uscivano poche gocce di sangue che
scivolavano fino a macchiare il bianco immacolato del lavabo del lavandino.
Bruciava e lasciava una sensazione spiacevole di formicolio
alle dita, ma non volevo fermarmi.
Scostai la lametta e la premetti leggermente più in su
rispetto al taglio precedente, vedendo nuove gocce di sangue mescolarsi con le
altre.
I colpi alla porta aumentavano, ma fino a quando la porta
era chiusa a chiave potevo stare tranquilla: Peter era troppo pigro per anche
solo pensare di andare a prendere la chiave di scorta per aprire il bagno che
si trovava in cucina.
“Ancora uno” mi dissi: “L’ultimo”.
Premetti nuovamente la lametta, incantandomi a guardare le
gocce che scivolavano intorno al polso prima di aggiungersi a quelle già
presenti nel lavabo.
«Vee! Apri immediatamente questa porta! Porca puttana, devo
cagare!»
Alzai lo sguardo verso la porta, ma non degnai mio fratello
Peter di ulteriori attenzioni, prima di tornare a studiarmi il polso.
“E se ne facessi ancora uno? Uno piccolo piccolo...”
La tentazione era troppo forte, così sollevai nuovamente la
lametta per premerla vicino all’incavo del gomito.
Gemetti, insicura se a causa del bruciante dolore o se
dal desiderio di continuare all’infinito, fino a quando in me non fosse
rimasta nemmeno una goccia di sangue.
«Peter! Apri!»
Sussultai, riconoscendo la voce di Samuel e capendo subito
che dovevo nascondere tutto.
Lasciai cadere la lametta in un cassetto accanto allo
specchio, aprii l’acqua del lavandino, cercando di cancellare le prove di ciò
che avevo fatto il più in fretta possibile, fino a quando il lavabo non tornò
ad essere bianco ed immacolato.
Sentivo i passi di Peter che si avvicinavano alla porta
d’ingresso, mentre Samuel continuava a bussare e a suonare il campanello
alternatamente.
Avevo pochi secondi, e i tagli sull’avambraccio non volevano
smetterla di sanguinare – e pensare che non li avevo fatti nemmeno troppo
profondi – prima che Samuel entrasse in bagno.
Afferrai più carta igienica possibile e la premetti contro
la pelle dolorante, mordendomi ancora più forte le labbra per non gridare dal
dolore.
Samuel era entrato, sentivo i suoi passi diretti verso la
cucina e non riuscii a trattenere un «Cazzo», mezzo strozzato dall’uscire dalle
mie labbra.
Buttai la carta igienica nel cesso e tirai l’acqua, prima di
afferrare la mia felpa grigia a maniche lunghe e d’indossarla.
Riuscii giusto a controllare il lavabo un’ultima volta prima
che la porta del bagno si aprisse e un furioso Samuel, seguito da un
Peter piuttosto confuso mi si parassero davanti.
«Victoria, ma quanto cazzo ti ci vuole per fare la pipì,
eh?», chiese Peter, prima di scansare Sam e di buttare me fuori dal bagno: «Il
tuo amico ti vuole parlare e ora, se non vi dispiace, lasciatemi cagare in pace».
L’istante dopo ero nel corridoio con Samuel che continuava a
fissarmi dritto negli occhi, con uno sguardo che mi faceva sentire una bambina
sul punto di essere sgridata dal proprio padre.
Peccato che Samuel non fosse mio padre, ma il nostro vicino
di casa, nonché compagno di avventure e di disavventure di sempre.
«Ciao, Sam, come mai qui?», finsi indifferenza,
sorridendogli, mentre mi dirigevo in camera mia, ignorando il bruciore
all’avambraccio.
«Ciao, Tori», disse, seguendomi.
Sembrava più rilassato rispetto a quando me l’ero trovato di
fronte in bagno pochi secondi prima e questo mi rassicurava molto.
Questo significava che non avevo capito cosa avevo fatto,
quindi potevo star sicura di non ricevere sgridate da lui.
«Sai che odio quel soprannome», gli ricordai, sedendomi sul
bordo del mio letto: «Cosa fai qui? Vuoi copiare i compiti di matematica? O hai
finito quelli di storia e me li vuoi passare?»
Fingevo una disinvoltura che non mi apparteneva; temevo che
da un momento all’altro lui mi guardasse in quel modo accusatorio che tanto
odiavo, quello sguardo che mi diceva chiaramente quanto fosse contrario alle
mie vecchie abitudini mattutine che stavano tornando a galla.
«No, ho sentito tuo fratello urlare, mi sono preoccupato ed
eccomi qui», sollevò le spalle, facendomi uno di quei sorrisi dolci che tanto
amavo di lui.
Si sedette accanto a me sul letto, afferrando da terra il
mio vecchio cubo di rubik, cominciando a giocarci.
«Comunque ho anche finito i compiti di storia, quindi più
tardi te li porto», aggiunse, facendomi l’occhiolino.
«Bravo! Ora dovremmo solo trovare qualche anima pia che ci
aiuti con scienze e siamo a cavallo».
«Ho trovato un sito su internet dove gli studenti si aiutano
gratuitamente con i compiti, non è detto che ciò che otteniamo sia corretto al
100%, ma è sempre meglio di niente no?»
«Ti rendi conto che tra meno di una settimana inizia la
scuola e che noi abbiamo passato l’estate a lavorare per il vecchio Beau? Siamo
davvero dei poveri sfigati...», gli dissi, indicandogli in quale delle sei
facce si trovava il quadratino rosso che gli mancava per completare un lato del
cubo di rubik.
«Mentre Mandy-sono-più-bella-e-ricca-di-tutti passerà le
prime due settimane di scuola a vantarsi con tutti delle sue vacanze in Europa
e di tutte le sue conquiste estive», continuai, sfogando l’odio represso che
nutrivo per quella barbie umana.
«Mandy non è bella, in realtà è solo il guscio di una
conchiglia, ma se dentro il paguro è marcio, allora perde il suo valore», disse
Sam, esultando dell’esser riuscito a completare una facciata del cubo.
«Oggi che programmi abbiamo?», gli chiesi, ricordano a me
stessa che era martedì ed era l’unico giorno, a parte la domenica, che potevamo
dedicare a noi stessi e non al negozio di antiquariato del prozio di Samuel.
«Per il momento nulla ma, se riesci a preparati in dieci
minuti potrei prendere la macchina di mia sorella e potremmo raggiungere
l’oceano in due ore scarse», propose Sam, facendomi l’occhiolino mentre si
alzava e appoggiava accanto a me il cubo di rubik incompleto.
Analizzai l’idea, ricordando a me stessa che un giorno di
mare mi avrebbero fatto solo bene, anche se odiavo prendere il sole, amavo
l’acqua e l’odore della salsedine.
«Ci sto!», gli dissi, alzando lo sguardo verso di lui.
Il suo viso, pochi secondi prima sereno e spensierato si era
adombrato di colpo, la fronte ora era aggrottata e le labbra carnose erano
strette in una linea sottile e pallida.
«Cosa...?», iniziai a chiedere, ma trattenni
involontariamente il respiro e sussultai quando capii che cosa stesse
guardando: sul mio avambraccio la felpa grigia si stava pian piano colorando di
rosso scuro.
Mi alzai, pronta a correre a nascondermi da qualche parte,
ma Sam mi spinse di nuovo a sedere, prima di incitarmi a togliere la felpa per
fargli vedere cosa mi ero fatta questa volta.
Furono quella due parole, quel “questa volta” che mi fece
vergognare ancora di più, perché mi ricordava tutte le altre volte che aveva
visto i miei polsi o magari le mie cosce solcate da tagli poco profondi, che
lasciavano bianche cicatrici indelebili.
«Toglila», ripeté e, quando capì che non l’avrei fatto, si
sporse su di me e, afferrando il bordo inferiore dell’indumento lo tirò su,
denudandomi dalla vita in su.
Sembrava non notare i miei seni nudi e neppure la pelle
d’oca che vi si era formata sopra, aveva occhi solo per il mio avambraccio,
dove spiccavano cinque tagli poco profondi dai quali sgorgavano piccole gocce
di sangue.
Si voltò verso il mio comodino afferrando alcune salviette
che applicò con fin troppa dolcezza sulle mie ferite, dove il bruciore
continuava a tormentarmi.
C’era sempre stata, fin dalla prima elementare una forte ed
intima amicizia tra noi, ma negli ultimi cinque anni non avevamo più fatto il
bagno nudi nella vaschetta di plastica nel cortine del vecchio Beau e quel
ritorno al passato mi fece sentire ancora più a disagio.
Capii il momento in cui si accorse che ero nuda, perché lo
vidi bloccarsi di colpo e prendere un rapido e profondo respiro, prima di
voltarsi da un’altra parte.
«Copriti, per favore», sussurrò e io lo feci, troppo
spaventata dai miei pensieri e da quella vocina nella mia testa che mi aveva
consigliato invece di chiedergli se mi trovasse bella.
Una volta indossata la canottiera del pigiama, i suoi occhi
tornarono su di me e mi sentii sua complice nel notare il rossore del suo viso,
certa che lo stesso imbarazzo fosse ben visibile sul mio volto.
Poi quell’emozione sfuggente sul suo viso scomparve e vi
trovai di nuovo la delusione.
«Mi avevi promesso che non l’avresti più fatto», sussurrò.
Quel dolce torpore che il suo sguardo sul mio corpo seminudo
mi aveva provocato scomparve all’istante, sepolto sotto strati e strati di
vergogna.
«Ci ho provato», mormorai, stringendo a mia volta le labbra,
mentre affondavo le dita tra le coperte del letto: «Ma questa notte ho fatto di
nuovo quel sogno, ho pianto per ore e questa mattina è come se fosse stata
un’altra a controllare il mio corpo e farmelo fare...»
Affondai le dita tra i miei capelli scuri e cercai in tutti
i modi di trattenere le lacrime, ignorando le salviette sulle mie ferite che
ormai erano cadute, sporche di sangue, a terra.
«No, Tori, non fare così», mormorò, allungandosi fino ad
abbracciarmi in modo goffo, ma stranamente confortante: «Ancora quella stanza
rossa?»
Annuii: «Con i miei genitori che se ne vanno e non tornano».
Si sedette vicino a me e, con gesti impacciati ma precisi,
mi fece sedere sulle sua gambe, continuando a stringermi e ad accarezzarmi i
capelli.
«È successo tanto tempo fa, Tori... ci sono qua io con te e
non ti lascerò mai. Hai sentito, Tori? Mai».
Annuii, cercando di diminuire i singhiozzi e di smetterla di
piangere.
Aveva ragione, avevo otto anni quando i miei genitori sono
scomparsi dalla mia vita, entrambi alcolizzati, sempre fatti e mai presenti se
ne erano andati per colpa di un’overdose, affidandoci, a me e mio fratello,
alle cure della zia Ophelia.
Eravamo stati felici per cinque anni, prima che anche la zia
se ne andasse per colpa di un attacco di cuore, mio fratello, che in quel
periodo era al primo anno d’Università, aveva lasciato tutto per tornare a
prendersi cura di me; aveva trovato un lavoro, una babysitter per me (la
sorella maggiore di Samuel) e si era impegnato ad aiutarmi sempre e comunque,
qualunque cosa accadesse.
Sapevo che su Peter e Sam avrei sempre potuto contare.
Loro ci sarebbero stati sempre per me.
«Lo so», sussurrai, dandogli un bacio sulla fronte,
facendolo sospirare, probabilmente di sollievo.
«Allora, questo oceano?»
Sapevo di avergli detto di sì, nemmeno dieci minuti prima,
ma ora l’idea di stare in costume davanti a chissà quanti sconosciuti mi
metteva a disagio; avrebbero visto il mio corpo per niente bello, la ciccia
sulla pancia, la cellulite sulle gambe e le cicatrice sugli avambracci...
Affondai maggiormente le dita nella stoffa della maglietta
di Samuel e scossi il capo: «Non ce la faccio».
Sospirò di nuovo, questa volta sembrava di tristezza e
delusione però.
«Cosa vuoi fare allora?»
Come sempre, subito dopo aver pianto davanti a qualcuno mi
sentivo vulnerabile, piccola, insicura...
Avrei voluto essere uno struzzo, per poter seppellire la mia
testa sotto terra e non riemergere più; smettendo di vedere il mondo e me
stessa.
«Scomparire», sussurrai con un filo di voce, quasi certa che
Sam non mi avesse sentita, mentre affondavo sempre di più il viso contro il suo
collo.
«Ma se tu scomparissi io come farei, mmh?», mi chiese,
provandomi di aver sentito il mio folle desiderio e di non averlo apprezzato
neanche un po’: «Lo faresti davvero? Scompariresti, lasciandomi solo? Non ti
mancherei neanche un po’?»
«Quando si muore non si soffre di nostalgia per il mondo dei
vivi», dissi, dissotterrando il mio volto dalla calda protezione del suo collo,
così da poterlo vedere in viso.
«Non è ciò che c’insegna Emily Brontë nel suo romanzo»,
ribatté, ricordandomi le noiose lezioni di letteratura sul romanzo “Cime
Tempestose” che ci eravamo dovuti sorbire a Marzo.
«Catherine era una stupida, non si è accontentata di ciò che
aveva e per questo ha avuto una vita triste», ribattei.
«Ti senti meglio?», mi chiese, asciugandomi con le dita le
ultime lacrime che avevo sulle guance.
Annuii e poi gli sorrisi: «Che ne dici di una giornata
cinema?»
Gli brillarono gli occhi e in quell’istante, chissà per
quale motivo, mi tornò in mente l’imbarazzo di poco prima e il mio folle
desiderio di non coprirmi, per continuare a sentire quel caldo torpore che il
suo sguardo sul mio petto nudo mi causava.
Sam mi era sempre piaciuto, non era un’esemplare di
bellezza, ma in fondo non lo ero neanche io. Portava gli occhiali, aveva una
piccola gobbetta sul naso, il viso squadrato e gli occhi scuri. Dall’anno
scorso aveva sempre un accenno di barba e, quando ci abbracciavamo mi piaceva
sentirla sfregare contro la mia fronte o guancia. Era molto magro e longilineo,
tanto che a scuola per prenderlo in giro lo avevano sempre chiamato “Mr.
Lampione”. Ma a me piaceva tanto stare con lui, ridere, scherzare...
Una volta, in seconda superiore ci eravamo baciati, ma
eravamo entrambi troppo impauriti per cambiare la nostra amicizia con qualcosa
di diverso: non volevamo rischiare di perdere il nostro rapporto d’amicizia,
eppure, per certi versi era come se fossimo fidanzati da anni.
Non ci interessavano le altre persone o avere una relazione
romantica con qualcuno, il mio primo bacio era stato proprio quello scambiato
con lui in seconda superiore e sapevo che per lui era lo stesso e poi quello
che era accaduto poco prima, quando mi aveva visto seminuda...
Ero innamorata di lui perché era l’unica persona che mi
facesse stare bene, a parte Peter, senza chiedermi nulla in cambio, tranne lo
stesso affetto e amore che lui riversava su di me.
«Vado a prendere dei film a noleggio, allora. Che genere?»,
mi chiese, baciandomi la guancia, facendomi così sentire con fin troppa
chiarezza la sensazione della sua barba ruvida a contatto con la mia pelle
morbida ancora umida dalle lacrime.
«Voglio qualcosa di strappalacrime e romantico... e poi uno
di avventura e azione... oppure un fantasy... mmh... no meglio azione», mentre
decidevo giocavo con le sue dita, stringendole tra le mie, per poi lasciarle
pochi secondi e tornare ad afferrarle poco dopo; intrecciavo le nostre mani in ogni
modo possibile e, assorta in quella danza che conoscevo da anni, mi resi conto
troppo tardi di esser stata muta per troppo tempo.
Alzando lo sguardo incontrai quello di Sam, che scrutava il
mio viso con dolcezza mista a tristezza.
«Promettimi che non lo farai mai più, che la prossima volta
verrai da me, invece di chiuderti in bagno da sola: ci siamo capiti?», mentre
parlava aveva spostato lo sguardo sui tagli sul mio avambraccio e la tristezza
nei suoi occhi aveva cancellato interamente la dolcezza di poco prima.
Non era la prima volta che mi chiedeva di non farlo più, ma
speravo vivamente che fosse l’ultima, non volevo più deluderlo, non lui, non il
mio Sam. Finché avrei avuto lui con me ad aiutarmi a resistere non avrei più
fatto nulla di così sconsiderato e stupido.
«Te lo prometto, a patto che tu mi stia vicino e che non mi
lasci mai»
La strano torpore di prima era tornato e, questa volta,
seguii quella strana vocina nella mia testa, che mi diceva: “Bacialo”.
Mi sporsi verso di lui, appoggiando la mia bocca sulla sua,
sentendo più forte l’odore della sua pelle e il sapore di caffè che aveva sulle
labbra.
Prima che potessi rendermi davvero conto di ciò che stavo
facendo era tutto finito, Sam si era allontanato e nei suoi occhi lessi lo
stesso panico che in seconda superiore lo aveva portato a chiedermi di non
farlo più, perché lui non voleva.
«Che cosa fai?!», mi chiese, alzandosi di scatto in piedi,
quasi facendomi cadere a terra per la sorpresa, dato che mi trovavo ancora
sulle sue gambe.
Non sapevo cosa dire, ero letteralmente senza parole.
Non che mi aspettassi chissà che scena romantica e
passionale... sì, invece, era proprio quello che mi aspettavo, o in cui, più
probabilmente, speravo.
A me era piaciuto quel piccolo timido bacio, possibile che
lui invece ne fosse stato così tanto disgustato?
Ci fissavamo come se fossimo stati due sconosciuti: io non
riconoscevo lui e lui non riconosceva me.
«Io... volevo solo...», iniziai a dire, ma in realtà non
sapevo come continuare la frase.
La mia testa era in un blackout assoluto.
«Non voglio che tu mi baci, Victoria... perché poi dovresti
baciarmi? Puoi avere di molto meglio che uno come me!», disse Sam, cominciando
a fare aventi ed indietro per la mia stanza; come una tigre in gabbia, un fiero
felino che aspetta solo il momento migliore per attaccare.
«Ma mi hai vista, Samuel? Chi diavolo vorrebbe mai
baciarmi?», dissi, con voce alterata, mentre mi paravo davanti a lui: «Se è te
che voglio baciare non puoi farmi delle scenate tutte le volte che ci provo!»,
gridai, dandogli una leggera spinta all’indietro.
«Io e te siamo migliori amici, tu non vuoi che le cose
cambino!», urlò a sua volta, facendomi male al petto ad ogni sua parola, mentre
il cuore mi batteva all’impazzata.
«Come puoi tu sapere cosa voglio e cosa no?», dissi,
fissandolo con lo sguardo più contrariato che avevo in repertorio.
Di solito io e lui non litigavamo mai, eppure in quel
momento sapevo di aver ragione ed ero pronta a difendere i miei sentimenti a
tutti i costi.
«Tu non vuoi me, Victoria!», gridò, prendendomi il viso tra
le mani: «Tori, tu sei una bellissima persona, sia dentro sia fuori e non ti
meriterei nemmeno come amica, quindi non complicare ancora di più le cose, per
favore!»
Lo baciai di nuovo, cogliendolo di sorpresa ma lui, ancora
una volta, si ritrasse: «Smettila»
«Voglio un bacio vero».
La mia voce suonò patetica perfino alle mie orecchie, ma ero
pronta a supplicarlo se necessario.
Sam si morse il labbro, scrutandomi con attenzione, prima di
gemere piano e di afferrarmi per la vita. Le nostre labbra si scontrarono con
forza, iniziando una danza che, senza bisogno di accompagnamento musicale, era
fluida e sensuale. Tenni gli occhi chiusi, assaporando con gli altri sensi quel
dolce contatto che avrei voluto avere con lui già da tempo. Affondai le mani
tra i suoi capelli, poi le feci scorrere giù, lungo la schiena, per poi farle
risalire sotto la maglietta che indossava. Avevo le dita fredde, mentre la sua
schiena era più che bollente: il contrasto fece gemere entrambi. Gli sfilai la
t-shirt e lui mi sorrise, prima di fare lo stesso con la mia. Questa volta
eravamo entrambi nudi dalla vita in su e, per quanto mi sforzassi di procedere
con calma, avrei voluto toglierci tutti i vestiti e gettarlo sul mio letto. Era
una vita che aspettavo quel momento e l’idea che la mia prima volta fosse con
lui mi rendeva più felice che mai. Ci baciammo di nuovo, questa volta però
faticai a non gemere, soprattutto per il fatto che le mani di Sam stavano
toccando i miei seni fin troppo sensibili.
Senza pensarci due volte allungai la mano verso la patta dei
suoi pantaloni, pronta a slacciarli in un nanosecondo, ma una mano di Samuel mi
bloccò.
«Cosa stai facendo?»
Alzai un sopracciglio, sentendo lo stomaco contrarsi al
suono roco ed affannato della sua voce: «Secondo te?»
Il mio tono ironico non gli piacque e fece un passo
indietro, con espressione contrariata: «Non possiamo».
Aggrottai la fronte, sentendomi ferita per il suo rifiuto:
«Perché no? È perché sono brutta?»
Sam sbarrò gli occhi: «Cosa?! NO! tu non sei brutta, Tori,
sei bellissima, la ragazza più bella che io abbia mai conosciuto in tutta la
mia vita. Io... vorrei tanto farlo, ma prima ti devo parlare di una cosa
importante».
Avevo sorriso quando aveva detto che ero bella, ma ora
quell’espressione felice non c’era più: «Te ne vai?»
La mia voce era un sussurro quasi inudibile.
Era stupido da parte mia ma, per quanto mi sforzassi, la mia
paura più grande rimaneva sempre quella di essere abbandonata dalle persone che
mi stavano intorno.
«No che non me ne vado, te lo prometto».
Mi diede un bacio, un semplice sfioramento di labbra, troppo
soffice e delicato forse per poterlo definire un vero e proprio bacio, ma
abbastanza dolce e sincero da poter essere ricordato per sempre come il
migliore di tutta la mia vita.
«Dopo ne riparliamo, ok? Ora vado a prendere un po’ di film
a noleggio, tu invece prepari i popcorn, va bene?»
Sorrisi ed annuii: «Ti aspetto», lo rassicurai e lo
accompagnai alla porta, sentendomi inquieta, anche se il pensiero di averlo per
me tutto il giorno mi rendeva euforica.
Mentre andavo in cucina per preparare ciotole infinite di
popcorn, la porta del bagno si aprì e ne uscì mio fratello con un’espressione
soddisfatta in volto.
Notando la mia presenza mi fece un ghignetto sornione: «Per
le prossime due ore ti consiglio di non entrare: il bagno è una camera a gas»
Risi di gusto, scuotendo la testa con un’espressione
fintamente disgustata, mentre entravamo entrambi in cucina.
«Che prepari?», mi chiese, quando vide che accendevo il
microonde.
«Popcorn, ne vuoi?»
«Giornata cinema? No, grazie, devo andare a lavorare, prendo
soltanto un po’ di succo», rispose mordendo una vecchia e ormai molliccia fetta
biscottata: «Bisogna fare la spesa».
«Sì, Sam è andato a prendere dei film...Vai tu o vado io per
la spesa?», gli chiesi, mentre prendevo i popcorn confezionati e, seguendo le
istruzione sulla confezione gli scuotevo prima di porli nel microonde.
«Vado io dopo il lavoro, tu goditi le ultime settimane di
vacanza prima dell’inizio della scuola», mi fece l’occhiolino e scomparve anche
lui, come Samuel, oltre la porta d’ingresso.
Rimasta sola preparai circa tre confezioni di popcorn e,
nell’attesa presi il cellulare per giocare a Candy Crush. Avevo scoperto il
gioco l’estate precedente e, quando non avevo nulla da fare mi mettevo ad
abbinare caramelle, sperando di avanzare di livello, ormai ero quasi al
duecentesimo ed ero fiera di me stessa, anche se Sam mi aveva detto di essere
molto più avanti di me...
Mi sedetti sul divano, circondata da popcorn, tentando in
tutti i modi di non guardarli nemmeno, così da non cadere in tentazione e
mangiarli.
Di solito Sam non ci metteva mai così tanto per noleggiare
tre o quattro film, speravo solo che non si fosse lasciato tentare dal suo
vecchio amico Dan e non si fosse fatto una canna con lui...
Anche se, non avendo io mantenuto la promessa di smettere di
tagliarmi lui avrebbe potuto sfruttare l’occasione per non mantenere a sua volta
la promessa di smettere di fumare.
Sperai vivamente che così non fosse e, dando retta alla
vocina preoccupata nella mia testa, decisi di andargli incontro.
Presi le chiavi di casa, indossai una semplice felpa leggera
e degli shorts che mi arrivavano appena sotto il sedere, ma che coprivano
perfettamente la cellulite.
Scesi le dieci rampe di scale, inveendo contro l’ascensore
che, immancabilmente, era guasto e, una volta in strada, girai verso sinistra,
dirigendomi alla videoteca più vicina, dove andavamo di solito a noleggiare
film.
Arrivata alla fine del primo isolato (prima di arrivare a
destinazione ne mancavano ancora due) mi bloccai, notando davanti a me le luci
lampeggianti della polizia e di un paio di ambulanze.
Era normale nel mio quartiere assistere a rapine o suicidi,
quindi non mi preoccupai esageratamente mentre mi avvicinavo alla banca ad
angolo, chiedendomi se fossero riusciti a prendere il ladro o se lo fossero
lasciato scappare.
Alcune persone erano raggruppate a semicerchio intorno all’edificio
e mi avvicinai ad esse.
Alcune piangevano, altre gemevano sconvolte, io mi limitai
ad osservare due uomini in divisa che bloccavano contro la loro volante un uomo
con un passamontagna in fronte. Da dove mi trovavo vidi il viso del ladro,
riconoscendo in quei lineamenti spigolosi un vecchio amico di bevute e di canne
dei miei genitori.
Scossi la testa, sconsolata di vedere certe scene e,
guardando il punto che stava indicando coll’indice una signora, vidi un altro
uomo che non conoscevo venire arrestato da altri due agenti.
Gli infermieri brulicavano intorno ad una donna a terra a
pochi passi da me, quella donna assomigliava incredibilmente alla madre di una
mia compagna di classe, ma sperai con tutto il cuore che non fosse lei. Altri
infermieri invece mi coprivano interamente la vista di una seconda persona a
terra.
«Quanto orrore, quanto orrore», continuava a ripetere una
nonnina vicino a me, che riconobbi come l’anziana signora che viveva
nell’appartamento sotto il mio.
Annuii alle sue parole, anch’io colpita da tanta violenza
gratuita.
«Era così giovane, gli hanno sparato solo perché ha
scansato quell’altro signore... povero ragazzo...», disse la nonnina,
posandosi entrambe le mani sul cuore.
A quelle parole mi allarmai: e se il ferito fosse stato mio
fratello? O Sam?
Se Peter fosse morto come avrei fatto io ad andare avanti
senza un lavoro fisso?
Afferrai la spalla dell’anziana signora, forse con fin
troppa forza, facendola voltare verso di me.
Potei così constatare che stava piangendo.
«Cos’è successo?», le chiesi, sperando che mi dicesse che
quella persona a terra non era Peter.
«Una rapina in banca, cara», disse, poi i suoi occhi si
allargarono ulteriormente, facendomi preoccupare: «Ma tu sei la sorella di
Peter».
Annuii: «È Peter?», chiesi, indicando la persona coperta
dalla mia visuale dagli infermieri.
«No, cara».
Tirai un sospiro di sollievo e il peso opprimente
all’altezza del petto scomparve all’istante.
«È quel bravo ragazzo... com’è che si chiama già...?»
Non la stavo più neanche ascoltando, ormai rassicurata di
avere ancora in vita il mio fratellone che creava nel bagno delle vere e
proprie camere a gas.
«È il fratello di quella cara ragazza che mi aiuta sempre
con la spesa, Fiona si chiama... sì, lei è Fiona mentre lui... cavolo, ho il
nome sulla punta della lingua, ma...»
«Samuel», sussurrai, guardando con occhi allucinati gli
infermieri che si spostavano, mostrando il corpo a terra del mio migliore
amico.
«Sì, esatto!, Proprio lui... lo conosci?»
Ignorai nuovamente la signora e corsi verso il mio Sam che,
semi cosciente aveva il volto contratto in una smorfia di dolore.
«Samuel!», urlai, correndo verso di lui, inginocchiandomi al
suo fianco.
Presi il suo viso tra le mani, ignorando il sudore che gli
imperlava la fronte gliela baciai, mentre gli scostavo i capelli dal volto.
«Sam? Sam?», chiamai, ignorando le domande degl’infermieri
che mi stavano intorno ammucchiati o le grida della polizia che incitavano
tutti a star lontani da quel luogo.
«Tori», la sua voce era troppo fioca, ma riuscii a leggere
il labiale e sorrisi: «Sì, sono io».
«Non piangere» sussurrò, mentre continue smorfie di dolore
gli contraevano il viso.
Piangere? Stavo piangendo? Nemmeno me ne ero resa conto.
Gli infermieri mi dicevano di allontanarmi, ma io non li
ascoltai e lo baciai di nuovo, questa volta sulla bocca, piano.
«Non mi lasciare», gli dissi e lui mi sorrise.
Avrei preferito non sentire ciò che mi disse, soprattutto
perché sapevo che quelle parole non avrebbero cambiato nulla, eppure lui, prima
di chiudere gli occhi tra le mie braccia sussurrò:
«Ti amo».
Gli infermieri mi dissero che era solo svenuto e che
l’avrebbero portato subito all’ospedale.
«Lei è parente?», mi chiesero.
Scossi la testa e, quelli di loro non impegnati nel trasportare
i due feriti all’interno delle ambulanze, mi guardarono per poco, prima di
scrutarsi tra loro e poi, quello più anziano disse: «La facciamo salire lo
stesso, potrebbe svenire da un momento all’altro».
Il viaggio in ambulanza lo passai continuamente girata verso
la rete che divideva me e Sam, osservando i tre infermieri intorno a lui; uno
si occupava di fargli battere il cuore e della sua respirazione, il secondo
fissava un laccio emostatico intorno alla gamba ferita e l’ultimo provava a
fermare l’emorragia che aveva all’altezza della spalla sinistra.
Tutto quel sangue era impressionante, tanto che
rischiai di vomitare un paio di volte, mentre l’uomo accanto a me guidava come
un pazzo, come se ne valesse della sua stessa vita.
Una volta all’ospedale persi di vista Sam, che venne portato
con urgenza in sala operatoria, mentre io dovetti rimanere in sala d’attesa.
Non avevo il cellulare con me, ma un’infermiera mi portò
quello di Sam, col quale chiamai Fiona, dicendole di venire subito
all’ospedale; chiamai anche mio fratello, ma non rispose, così gli lasciai un
messaggio in segreteria telefonica.
Ogni pochi secondi mi ritrovavo a fissare l’orologio che
avevo al polso e, solo dopo un’ora mi decisi a prendere una rivista e leggerla,
nel vano tentativo di distrarre me stessa dalla preoccupazione.
Avevo un nodo alla gola, come se fossi sul punto di
piangere, ma le lacrime non uscivano e tutto ciò che riuscivo a fare era
singhiozzare.
Donne e uomini intorno a me mi fissavano ad ogni sussulto
delle spalle e mi rendevano ancora più nervosa.
Ogni volta che arrivavano dei dottori o infermieri mi alzavo
per chiedere notizie di Sam, loro mi fissavano, mi chiedevano se fossi parente
e alla mia risposta negativa mi liquidavano dicendo che potevano parlarne solo
con dei parenti.
Io intanto diventavo sempre più impaziente e preoccupata,
soprattutto quando vidi arrivare una mia compagna di scuola e capii che quella
che avevo visto a terra semi cosciente era proprio sua madre.
Fiona intanto non arrivava, ricevetti un messaggio sul
cellulare di Sam, nel quale lei mi avvertiva di aver trovato problemi di
traffico.
Mezz’ora dopo, con ben un’ora e quarantacinque minuti di
ritardo da quando avevano portato Samuel in sala operatoria, Fiona arrivò.
Con una calma che da lei proprio non mi aspettavo, si
avvicinò ad una delle tante infermiere e chiese notizie di Samuel.
«È una parente?», le chiese la donna, con voce arrogante.
«Sono la sorella».
Le due si allontanarono e rimasi nuovamente sola.
Mi risedetti e, sbirciai poco distante la mia compagna di
classe, Emily, che, tra le lacrime, abbracciava un uomo che dedussi essere suo
padre.
Quando una dottoressa venne a dire loro come stava la donna
sentii tutto, e l’orrore mi rese come una statua di marmo per qualche secondo,
insensibile al dolore.
«Mi dispiace, ma sua moglie aveva una commozione celebrale e
ha perso molto sangue, abbiamo fatto il possibile, ma ormai era troppo tardi».
Emily pianse ancora più forte e i miei singhiozzi
privi di lacrime, che ero riuscita a far cessare poco prima, tornarono a
scuotermi.
Quando tornò Fiona, mi disse che stavano facendo il
possibile e che ancora non si sapeva nulla di preciso.
Rimanemmo a lungo sedute, una vicino all’altra, in attesa di
qualche altra notizia.
La mia fronte era imperlata di sudore freddo e, per quanto
ci provassi, non riuscivo a non stringere forte, tra le dita, il cellulare di
Samuel.
“Combatti, Sam, combatti”, ripetei per qualche minuto, prima
di iniziare a pregare.
Non ero mai stata una persona religiosa, ma ero pronta ad
andare in chiesa tutte le domeniche se fosse servito a salvare il mio migliore
amico.
“Ti prego, non me lo portare via, non lui. Come farei a
sopravvivere senza il mio Sam? Gesù, ti prego, non lui...”
Continuai a singhiozzare senza lacrime per qualche secondo
poi, sentii con fin troppa chiarezza una sensazione di torpore in tutto il
corpo e dentro, da qualche parte nella mia anima, capii che lui non c’era più.
Una lacrima, bollente rispetto al freddo della mia pelle
pallida, mi scese dall’occhio sinistro fino a fermarsi ed asciugarsi sulla
guancia.
Quando, pochi secondi dopo, un dottore si avvicinò con un
volto stravolto e un’espressione compassionevole mi resi conto che non c’erano
davvero più speranze.
Non sentii ciò che disse, non provai nemmeno ad ascoltarlo,
mi bastò sentire Fiona piangere forte accanto a me per capire che non potevo
restare, se no sarei impazzita.
Dissi a Fiona che andavo a prendere una boccata d’aria, che
non riuscivo a stare chiusa in quella stanza, ma in realtà me ne tornai a casa
in autobus, ignorando tutto e tutti, persa in un mondo diverso; un mondo dove
il mio migliore amico non c’era più.
Arrivata al mio palazzo salii, uno dopo l’altro, tutti i
gradini, fino al pianerottolo che ospitava il mio appartamento e quello di
Fiona.
Affondai la mano nella tasca dei pantaloni, afferrando le
chiavi e pescai quella che apriva la porta alla mia sinistra, quella della casa
di Sam.
Entrai nell’appartamento come un automa, il corpo totalmente
intorpidito e le ginocchia che mi cedevano ad ogni passo.
La camera di Samuel era proprio uguale a come me la
ricordavo, interamente blu, con mobili chiari e un poster dei My Chemical
Romance appeso alla parete.
Mi inginocchiai accanto al letto, affondando le ginocchia
nel tappeto peloso che lui amava tanto, per poter poggiare il capo contro le
coperte fredde che profumavano di lui.
Solo in quel momento riuscii a riversare tutto il mio dolore
nelle calde lacrime che mi scorrevano in viso; singhiozzavo, gemevo, mordevo e
scuotevo ripetutamente la testa.
“Non è vero, non è vero”, pensavo, sfregando il viso contro
le coperte: “È solo un incubo, solo un incubo... ora mi sveglierò e Sam sarà lì
con me...”
Aprii gli occhi, gonfi di lacrime, ma la realtà non cambiò
affatto.
“Me l’avevi promesso Sam: avevi detto che non te ne saresti
andato, invece l’hai fatto...”
Le ginocchia mi dolevano,così mi alzai, le gambe
continuavano a cedermi, ma ignorai la mia debolezza e cominciai a cercare tra i
cassetti di Samuel.
Stavo cercando il suo album fotografico, quello pieno di
foto mie e sue, quando tra le mani mi capitò una lettera indirizzata a me.
La sollevai, rigirandomela tra le dita, chiedendomi cosa
potesse contenere.
Tirai su col naso e mi asciugai le lacrime con la manica
della felpa che indossavo, prima di strappare la busta, trovando al suo interno
un foglio di carta color lilla e la scrittura fitta di Samuel che la imbrattava
d’inchiostro.
Cara Victoria,
so già che non avrò mai il coraggio di
consegnarti questa lettera; è per questo che la conserverò in un cassetto, così
da avere la vaga speranza che un giorno o l’altro tu la trovi e la legga.
Mi è venuto in mente di dirti la verità
già da un po’ di tempo, ma non trovavo mai le parole giuste per dirti
quanto io tenga a te, o la delicatezza necessaria per spiegarti che non potremo
mai stare insieme, non come vorremmo entrambi almeno.
A volte sogno ciò che non potrò mai
avere: una bella casa a due piani, te come mia moglie e un paio di bambini che
girano per casa.
Lo sogni anche tu, amore mio? Un futuro
migliore, con più luce...
Peccato che sia solo un sogno e sognare
o sperare non basta per cancellare la verità.
Continuo a girarci intorno con le
parole, ma il fatto è che mia madre, come ben sai, era drogata e alcolizzata, e
mi ha trasmesso fin dalla nascita il virus dell’HIV. Ho scoperto di essere
siero positivo all’età di dodici anni e, per molto tempo ho pensato di essere
un mostro; tutte le volte che pensavo di non dover più toccare nessuno, così da
non rischiare di contagiare qualcun altro, arrivavi tu che mi chiedevi di
giocare, di andare a vedere un film o di passare semplicemente del tempo
insieme.
Tu sei stata l’unica luce della mia
vita, c’eri sempre e sempre mi hai aiutato, come io ho sempre cercato di
aiutare te.
All’inizio, quando ci siamo baciati in
secondo superiore pensavo di averti passato il virus, ero corso da mia sorella
con le lacrime agli occhi dicendole cosa era successo e che temevo di averti
contagiata.
Quando mi ha rassicurato che attraverso
la saliva non c’è contagio ci sono rimasto male.
L’avessi saputo prima ti avrei
baciato come ho sempre sognato di fare: tenendoti stretta tra le mie
braccia ed esplorando quella tua bella bocca carnosa come se fosse
l’ultimo bacio della mia vita.
So che tu pensi di non esserlo, ma te
lo voglio ripetere ancora una volta: tu sei bella. Bella come la rugiada la
mattina, tu sei delicata e fredda proprio come la rugiada e sono fiero di
essere l’unico in grado di scaldarti, di essere il tuo sole.
Vorrei avere più spazio in questa
lettera,vorrei scriverne un po’ ogni giorno per poi consegnarti un volume
intero che parla di quanto io ti ami e di quanto vorrei poterti dare ciò che
meriti.
Ma non posso, e non perché non ti
voglia o non abbia intenzione di combattere.
Non posso perché sono malato e non
voglio farti soffrire.
Non so se ti ricordi, ma un giorno,
quando eravamo più piccoli, mi chiedesti perché la vita ci porta via le persone
a cui vogliamo bene, ti risposi che non lo sapevo; ora invece voglio dirti
quello che avrei dovuto dirti quella volta: la vita è una roulette russa, Tori,
non è né colpa sua né colpa nostra se, premendo il grilletto, moriamo. Non devi
pensare alle persone perse, amore mio, pensa a quelle che hai e al fatto che ti
vogliono bene.
Ora smetto di scrivere, tra poco
arriverai con la torta che hai preparato per il mio compleanno e voglio godermi
la tua compagnia il più a lungo possibile.
Ti amo, Tori.
Sam.
Mi sedetti sul letto, le gambe alla fine avevano ceduto del
tutto e rimasi a fissare la parete davanti a me.
Era malato e non mi aveva mai detto nulla...
Era di questo che voleva parlarmi quando sarebbe tornato,
dopo aver preso i dvd?
Strinsi quella lettera al petto e lasciai che le lacrime
continuassero a scivolarmi lungo il viso.
Mi aveva scritto che dovevo pensare alle persone che mi
volevano bene quando mi sentivo giù, ma per quanto ci provassi non ci riuscivo.
Non mi ci volle molto prima di finire tutte le lacrime. A
quel punto rimasi ferma a contemplare la parete davanti a me, fino a quando una
fredda ed indifferente calma si impadronì di me.
A quel punto mi alzai, piano e, con la lettera in mano,
andai a casa mia dove, con altrettanta calma aprii l’armadietto dei medicinali.
Non pensavo a nulla, la mia mente era un vorticare confuso
di pensieri privi d’importanza.
M’interessava solo trovare i sonniferi che prendevo un tempo
per addormentarmi e chiudermi in camera mia.
Trovato ciò che cercavo mi fermai in bagno per prendere la
mia lametta e poi, con un nodo all’altezza dello stomaco entrai in camera mia.
Con Sam se n’era andata la mia unica speranza di essere
felice e non avevo intenzione di vivere chissà quanti anni di tristezza prima
di morire.
Preferivo il suicidio.
Posai la lettera sul comodino di camera mia e la fissai per
qualche istante poi le diedi un bacio proprio dove Sam aveva firmato.
«Anche io ti amo».
Presi un pezzo di carta e scrissi una breve e coincisa
lettera a mio fratello:
Peter,
mi dispiace per tutto il dolore che ti
sto causando, ma non ce la posso fare a continuare. La mia vita non era
destinata a vedere la luce, ma spero per te di riuscire a raggiungere tutti i
tuoi obiettivi.
Non piangere.
Ti voglio bene, Peter.
Victoria
Presi alcuni respiri profondi ed aprii la boccetta dei
medicinali.
Mandai giù sette pastiglie di sonnifero, mi sedetti e spinsi
la punta della lametta contro i polsi, questa volta non
perpendicolarmente alle vene, ma parallelamente.
Il sangue sgorgava, ma non me ne rendevo nemmeno conto.
Sentivo soltanto le orecchie tappate, gli occhi gonfi per le
lacrime e una triste e desolante calma che mi permise di sdraiarmi e di
chiudere gli occhi.
Sperai che Peter, trovando il biglietto, non mi odiasse più
di quanto io odiassi me stessa.
Il mio ultimo pensiero era rivolto a Sam e al bacio che ci
eravamo scambiati, se l’avessi incontrato nell’aldilà gli avrei chiesto di
darmene un altro e di non lasciarmi mai più.
Poi il buio mi avvolse.
Fine