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Autore: Albornoz    31/07/2014    0 recensioni
Il racconto di un uomo durante una passeggiata sotto le stelle visitando luoghi di una vita. Polvere e Ombra, possibile che in noi non esista altro?
Una One Shot inviata tanto tempo fa per un corso di scrittura senza ricevere risposta...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Polvere e Ombra


Polvere e ombra. "Ricorda ragazzo: Siamo polvere e ombra." diceva mio padre citando uno dei saggi che tanto lo ispiravano, ma di cui spesso non capiva i messaggi, atteggiandosi con arroganza all'intellettuale che non era. Inoltre, da contadino qual'era, non è che quelle massime gli servissero poi così tanto. Pardon... allevatore. Il vecchio dava di matto quando lo si chiamava contadino. Quale sia la differenza, tutt'ora mi sfugge. Che tu badi agli animali o alle piante, quando rientri a casa la sera con le unghie nere e la schiena curva la fatica è la medesima, così come l'odore di sterco. Ma a mio padre correre appresso alle mucche è sempre sembrato più nobile che zappare la terra.
C'è da ammettere che il vecchio ha sempre avuto il bernoccolo per gli affari. Sua l'idea di abbandonare la grande e fumosa città, e la vita da manovale, per venire qui sulla Costa. Mi raccontava spesso del panorama che si trovarono davanti, lui e mia madre, arrivati sul bordo della scogliera dalla quale si poteva ammirare tutta la baia. Pines' Bay, un nome piuttosto scontato data l'enorme foresta di pini che, dalla scogliera, arrivava fino ad una grande pianura erbosa seguendo la striscia sabbiosa della spiaggia. Il numero di case allora si poteva contare sulle dita di una mano. Immagino poi che case, baracche allestite alla buona da altri contadini e pescatori.
Mi stringo nel soprabito mentre guardo quella che era stata casa mia. Quel posto, ora una bella villa, ne aveva viste nel tempo.
Il vecchio scelse quella posizione in mezzo alle pianure, ignorando ogni protesta di mia madre che avrebbe preferito una sistemazione sul mare, per due motivi: primo, la praticità, perché di certo non si può allevare le bestie sulla sabbia, e secondo il fatto che lì vicino sorgesse l'unico pino isolato dagli altri, il che venne interpretato dal vecchio come un segno. Sta di fatto che sotto quel pino io sono venuto al mondo. Non è una metafora, una stramberia poetica o roba simile, io ho visto la luce per la prima volta sotto quelle fronde appuntite. Il fattore, nostro vicino, e la moglie Amanda udirono le urla di mia madre ed accorsero. Trovarono la mia genitrice accasciata ai piedi del albero mentre inveiva, in maniera a dir poco colorita, contro quel povero diavolo del marito. Fortuna volle che la buona Amanda, madre di cinque figli, avesse una vasta esperienza come levatrice. Mentre lei e la figlia, credo si chiamasse Tina, mi agevolavano la nascita, il fattore, che invece vantava una grande esperienza nella produzione di alcolici, offrì un bicchierino al mio imbambolato padre.
Fin dai miei primi anni il vecchio prese l'abitudine di segnare la mia altezza sulla corteccia del pino. Ma io non ero l'unico a crescere. La nostra fattoria cresceva di pari passo e il vecchio cominciava ad avere una considerevole mandria. Anche per questo bisognava ringraziare il fattore o, più precisamente, il toro che tirava l'aratro del fattore e che, in modo molto accondiscendente, aveva ingravidato la nostra mucca e molte mucche a venire. Presto mio padre si ritrovò con più animali di quelli che poteva gestire da solo. Io ero ancora troppo piccolo per cavalcare e mia madre, ormai impratichitasi con la gravidanza, aspettava mio fratello Richard.
Tuttavia trovare manodopera non costituì un problema. In molti, seguendo le orme dei miei genitori, erano giunti e continuavano ad arrivare dalle città. Alcuni accettavano qualsiasi mansione in cambio di carne, latte e pelli. Altri portavano con loro le proprie attività. Un sarto, un macellaio, persino un medico e un maestro. Con questi venivano anche i soldi. Dapprima pochi, poi sempre di più, quei pezzetti di carta cominciarono a passare di mano in mano. E fu così che da quattro case si passò a venti, poi a trenta e così via. Un ospedale, perché dove c'è la civiltà ci sono malattie da curare. Una chiesa, perché dove ci sono le anime c'è sempre qualcuno che le vuole salvare. Una banca, perché dove ci sono i soldi c'è sempre qualcuno che li vuole gestire. Ricordo che avevo otto anni quando arrivò l'elettricità.
Più la città si espandeva più aumentava la sua fame di legno e terra, finché della foresta non rimase che un parco poco distante dal mare. Fu allora che mio padre scoprì una nuova professione: quella del proprietario terriero. Egli infatti era arrivato a vantare la proprietà dell'intera pianura dove pascolavano i nostri capi, anche se più per necessità che per diritto, e restringendo i pascoli avrebbe potuto ottenere delle terre da affittare. Inutile dire che presto i pascoli furono spostati altrove per fare spazio ad una vasta zona residenziale. Anche la fattoria cambiò diventando la villa bianca che ora svetta alle mie spalle, mentre mi dirigo verso il centro della città.
E' una notte insolitamente fredda. Le stelle ammiccano gelide sopra di me e la Luna, loro regina, mi sorride mestamente. Mi calco il cappello sulla testa. No, candida sovrana, non sono degno del tuo sorriso. Sopra di me dovrebbe sostare in eterno una nuvola nera.
Sollevo lo sguardo e mi ritrovo davanti alla scuola comunale. Quanti anni passati tra le sue mura. Vi sono entrato con il grembiulino e ne sono uscito con la giacca di pelle. In quegli anni ho conosciuto la maggior parte delle persone che mi hanno accompagnato fino a stanotte.

Nacque come un compito in classe. Ognuno doveva parlare del lavoro del padre, ma quando arrivò il mio turno non seppi che dire. Era passato diverso tempo dall'ultima volta che il Vecchio era partito per i pascoli e, in confronto alle occupazioni degli altri genitori, "proprietario terriero" non suonava granché. Quindi, non restandomi alternative, dalle mie labbra uscì: "Mio padre è ricco, non ha bisogno di lavorare." I miei compagni di classe scoppiarono a ridere, tanto sembrava strana la mia affermazione, mentre la maestra mi rimproverò.
Fu il giorno in cui ottenni il mio soprannome: "Conte". Uscì fuori come una beffa da campetto. Durante la pausa pomeridiana mi avvicinai ai miei compagni che giocavano a palla ed uno, il figlio del calzolaio, mi derise dicendo: "Ehi, Conte! Non sei troppo ricco per giocare con noi?" Venni a sapere in seguito che molti in paese chiamavano così il vecchio. Probabilmente il ragazzino aveva sentito quel nomignolo dal padre. Fatto sta che rimasi di sasso. Stavo sperimentando per la prima volta la discriminazione. Era un concetto del tutto: gli stessi bambini con cui fino al giorno prima giocavo, ora facevano fronte unito contro di me. Frustrazione. Tristezza. Rabbia. Una tempesta di emozioni mi spinse ad avventarmi contro quel bambino. Pugni. Calci. Morsi. Graffi. Poi la vittoria. Il figlio del calzolaio ai miei piedi, dolorante e spossato quanto me ma ormai sconfitto. E l'ultimo residuo di rabbia esplose in un affermazione: "Ricorda qual è il tuo posto, calzolaio!"
Ripensandoci ora, forse anch'io stavo scimmiottando mio padre, ma ciò non sminuisce la crudeltà di quell'affermazione. Avevo finito col ribaltare i ruoli diventando il nuovo re del campetto. Il re a cui tutti si stringevano. Una cerchia particolare si formò intorno a me. Bambini a cui lo sconfitto aveva fatto dei torti e che volevano ingraziarsi il nuovo sovrano. Bambini che nel gruppo trovavano una nuova forza e, seguendo il mio esempio, si diedero dei soprannomi. Sarto, Banchiere, Macellaio, Pescatore. Conte. Il suo suono era improvvisamente cambiato, saliva vibrando piacevolmente nella gola, dandomi forza.
-Conte. - sputo fuori come se imprecassi. Una mano corre sotto il soprabito, sfiorando il fazzoletto rosso accuratamente ripiegato nel taschino del completo, e porta alla bocca una sigaretta. Il fumo mi invade la bocca soffocando il sapore di bile lasciato da quel maledetto soprannome. Una, due, tre boccate mentre attraverso il campetto di brulla terra illuminata da un unico neon. Spire grigie si innalzano sopra di me, mani cineree tese come a voler ghermire il cielo e privarlo delle stelle. Come quella volta. Già... quella volta, sotto simili stelle, un Conte più giovane e arrabbiato con una tanica di benzina in mano.
Era cominciato tutto il pomeriggio. Una parola di troppo, uno spintone di troppo e nella yogurteria era scoppiato il caos. Non era la prima volta che capitava e, proprio per questo, il proprietario non ci pensò due volte a buttare fuori me e i miei amici intimandoci di non tornare. I miei quattro compari, seppur con qualche protesta, si sbrigarono a levare le tende ma io no. Non si rimproverava il Conte, non si diceva no al Conte. Né quando rubava le mele da un albero, né quando fumava durante l'ora di educazione fisica. Poco importava se era un adulto a farlo. Quindi rientrai e con sfrontatezza mi sedetti al bancone sotto lo sguardo furioso del proprietario. Questi urlò, imprecò, schioccò la cinghia sfilata dai pantaloni. Io rimasi impassibile ed una volta che l'uomo si fosse fermato per riprendere fiato, dissi: "Non urli, siamo in un locale pubblico, e con quella cinghia..." ammiccai sorridendo diabolico alla fascia di cuoio che stringeva in pugno. "può anche andarsi ad impiccare."
Grosso sbaglio. Enorme, megagalattico sbaglio. Avevo liberato la bestia dopo averla tormentata. L'uomo mi si avventò contro e subito capii che non avrei vinto, ma non mi sarei arreso senza combattere. Mi dimenai, scalciai, tirai pugni eppure nulla potei fare con la mia forza da quindicenne contro quel Golia che mi mise sulle sue ginocchia e fece conoscere al mio didietro il sapore del cuoio. Una dopo l'altra, le sferzate cominciarono ad assorbire la mia energia ed attutire la mia irrequietezza fin quando, da Conte, mi fui ridotto ad un quindicenne in lacrime. Corsi via, gli schiocchi della cinghia e le risate dei presenti ancora nelle orecchie. Arrivai fino in cima alla scogliera, caddi in ginocchio e piansi. Le calde lacrime mi solcavano il viso come lava. Urlai al cielo tutta la mia frustrazione. Solo a sera le lacrime si fermarono, lasciando spazio ad una fredda collera. Gliel'avrei fatta pagare. Avrei dimostrato a tutti quanto temibile poteva essere la mia ira. Nessuno pestava i piedi al Conte e rimaneva incolume.
Aspettai che le tenebre calassero e, presa la tanica nel garage di casa, mi diressi alla yogurteria. Rimasi un poco lì di fronte contemplando il locale, la mia mente che ripercorreva gli eventi del pomeriggio. Dentro di me qualcosa si mosse. Perché stavo esitando? Avevo paura delle conseguenze che avrebbe avuto quel gesto? Che avessi capito di aver meritato la punizione del pomeriggio? No. Nella mia giovane mente non c'era spazio per i ripensamenti. Ricacciai indietro quei dubbi appellandomi alla rabbia che covava dentro di me ed entrai.
Scassinare la serratura fu un gioco da ragazzi, non era la prima volta che lo facevo. Il locale era buio e deserto. D'un tratto mi bloccai spaventato da un ombra più grande delle altre che per un secondo mi era parsa appartenere al padrone e invece si era rivelata come il jukebox che con gli amici ero solito riempire di monetine.
Evitati gli ultimi tentativi della mia coscienza di farmi tornare a casa, mi misi al lavoro. L'odore della benzina mi inebriava, stordiva i miei sensi, mi rendeva euforico mentre spargevo il contenuto della tanica ora sui tavoli, ora sul bancone, infine tracciando un tragitto che portava fuori dal edificio. Buttai il contenitore semivuoto oltre il bancone e tornai in strada. Il tempo parve dilatarsi. La corsa del mio cuore, così come il mio respiro, rallentò. Le dita scesero nelle tasche dei jeans, afferrarono uno dei cerini che portavo sempre con me e lo accesero contro la stoffa dei pantaloni. Rimasi un attimo a fissare la fiamma, come incantato, e poi lasciai la presa.
Il fiammifero cadde con una lentezza snervante, che per un momento sperai che la fiamma si spegnesse prima di toccare il suolo. Ma così, purtroppo, non fu. Il fuoco corse veloce, macinando metri in pochi secondi, fino a sparire oltre la porta. In un primo momento pensai deluso che una tanica sola non bastasse a dar fuoco ad un intero edificio ma poi arrivò il calore. Le fiamme si alzarono bruciando il legno, disfacendo la plastica e arroventando il ferro, trasformandoli in una nube densa che saliva verso il cielo. Gli allarmi antincendio si attivarono e dalle bocchette cominciò ad uscire acqua. Vana resistenza, le fiamme ormai dominavano nel locale. Un sorriso di trionfo balenò sul mio volto, ma venne presto cancellato. Ero troppo vicino quando la pressione dell'impianto a gas divenne troppa ed eruppe verso l'esterno scatenando l'inferno. Venni investito in pieno dall'onda d'urto, sbalzato all'indietro, e finii contro il muro dall'altra parte della strada. Dolore. Bianco, nero, poi nulla.
Mi risvegliai abbagliato da un candido soffitto. Le orecchie mi fischiavano. L'odore di disinfettante mi pizzicava le narici. Dolore. Tutte le mie membra erano doloranti, ma quel male impallidiva in confronto a ciò che stava avvenendo nella mia testa.
Ero stato fortunato, così dissero i medici, avevo solo qualche livido e un bel bernoccolo dietro la nuca. L'aria mi aveva spinto ad una distanza di sicurezza prima che venissi toccato da fiamme e schegge. Mia madre, scoppiata a piangere dopo avermi abbracciato, urlò al miracolo. Secondo lei Dio si era frapposto tra il suo bambino e l'esplosione. Mio fratello mi sorrise sollevato, sdrammatizzando con un: "Hai la pellaccia dura fratellone."
Di mio padre nemmeno l'ombra.
Lo rividi soltanto dopo un paio di giorni, quando fui dimesso. Era nel suo ufficio e parlava fitto con un poliziotto. Vidi un rotolino verde passare dalle mani del vecchio al taschino dell'ufficiale. Questi si voltò e s'incamminò verso l'uscita, non prima di avermi squadrato ben bene. Lo seguii con lo sguardo fino alla soglia di casa. Un formicolio dietro la nuca mi fece voltare trovandomi a tu per tu con mio padre. Ne avevo combinate parecchie in passato e conoscevo bene la sua ira, ma sapevo che quella volta non me la sarei cavata con una paternale ed un paio di manate. Ciò che accadde però mi lasciò di stucco. Egli rimase a fissarmi. Mai mio padre mi aveva guardato a quel modo: il suo sguardo era un misto di rabbia, tristezza e delusione. Disse solo poche parole, perlopiù sussurrate e se mi lasciò da solo, impalato nel mezzo del corridoio con lo sguardo perso nel vuoto e quelle parole che mi echeggiavano nella testa.
-Sei la vergogna di questa famiglia.- sussurro buttando il mozzicone della sigaretta. Tutt'ora quelle parole producono delle stilettate al mio petto. Parole dure, non ponderate, dettate dalla furia del momento. Ma questo l'ho capito solo più tardi. Allora quelle parole mi folgorarono distruggendo la mia autostima. Per la prima volta provai vergogna verso me stesso.
Passai intere giornate in silenzio, evitando tutti, anche i miei amici più stretti. Appena suonava la campana dell'ultima lezione mettevo lo zaino in spalla e scappavo sentendo gli sguardi accusatori degli altri trafiggermi la schiena. La mazzetta che mio padre aveva elargito al poliziotto non poteva nulla contro le chiacchiere e ormai tutti in città conoscevano il mio ruolo nel fatto. Non avevano le prove, misteriosamente scomparse, ma sapevano e giudicavano. Tutti additavano tenendo le distanze dal piromane della yogurteria. Tutti, tranne uno.
Sento le labbra tirarsi in un sorriso mentre seguo con le pupille l'intricata corsa dell'edera sul muro della vecchia biblioteca. Poco distante, nascosto tra l'alta siepe e l'edificio, c'è ancora il mio rifugio: una galleria naturale di rami e foglie poco visibile dall'esterno, io stesso l'avevo scoperta per puro caso recuperando il pallone pochi mesi prima. Lì, in quelle giornate solitarie, spensi molto tempo sdraiato sull'erba contemplando i disegni formati dall'intricata pianta sopra di me. Più di una volta mi capitò di addormentarmi cullato dal pacifico frusciare delle fronde e proprio durante uno dei miei pisolini ricevetti una visita gradita quanto inaspettata.
D'un tratto, ricordo, mi ero sentito tirare un lembo dei pantaloni e come un animale impaurito ero scattato, rintanandomi in fondo al rifugio.
Inizialmente non distinsi bene il volto del mio ospite. I miei occhi, ancora appannati dal sonno, errarono nella penombra finché non misi a fuoco un paio di occhiali e il viso sorridente dietro ad essi. Sarto. Il magro, longilineo, aggraziato Sarto. L'intelligente Sarto che a scuola ci passava i compiti. Il saggio Sarto, che aveva sempre una parola di conforto per ognuno di noi e anche per altri che fossero riusciti a superare il velo della sua timidezza. E proprio per portarmi una parola di conforto mi aveva seguito di nascosto ed era strisciato nella mia tana.
Fu facile per lui farmi parlare. Gli bastò mettersi seduto vicino a me ed aspettare. A nulla valsero le mie proteste e i miei tentativi di scacciarlo. Non si mosse di un millimetro nemmeno quando minacciai di picchiarlo, sapeva che non l'avrei mai sfiorato. E improvvisamente io esplosi, raccontai tutto: da quando ero rientrato nella yogurteria all'umiliazione subita, dalla corsa fino alla scogliera all'incendio. Le parole non si fermavano, uscivano dalle mie labbra senza freno, e così gli raccontai anche di mio padre, delle sue parole e del tempo passato solo con il mio dolore.
Lui rimase in silenzio, contemplando per tutto il tempo una foglia che aveva staccato dal soffitto, rimirandola come se potesse scorgere l'intero disegno divino su di essa. Quando finii mi tirò per la maglietta e mi cinse in un abbraccio. Sapeva che in altre circostanze non glielo avrei permesso, avrei denigrato quel gesto di genuino affetto come un sintomo di effeminatezza. Ma in quel momento, nascosto dalle fronde con il cuore colmo di tristezza, mi lasciai andare affondando il viso nella stoffa della sua camicia. Sentivo Sarto che canticchiava vicino al mio orecchio, non compresi le parole, troppo attutite dai miei singhiozzi. Quando ci staccammo aveva la camicia sgualcita e bagnata ma il sorriso era rimasto lo stesso. Dal canto mio ero più tranquillo, dopo giorni ero finalmente sereno.
Da quella volta fummo sempre in due sotto quelle foglie. Non avevo ancora il coraggio di farmi vedere in giro e Sarto accettò di buon grado l'idea. Ogni giorno portava con se libri, riviste, carte e qualcosa da mettere sotto i denti. Insieme leggevamo, ridevamo, chiacchieravamo, oppure restavamo stesi, spalla a spalla, fissando il soffitto immersi nei nostri pensieri.
Ma tutto ciò non poteva durare a lungo. Un pomeriggio vidi Sarto arrivare barcollando: gli occhiali storti e il naso sanguinante. Mi disse che erano stati in tre. Li aveva beccati mentre maltrattavano mio fratello e aveva cercato di intervenire. Il resto potevo immaginarlo. Mi lasciai guidare e, una volta arrivati al parco, li vidi. Tre ragazzi, in cerchio, tormentavano Richard che si era rannicchiato tra loro. Bulli. Non fu il pallone che avevano sottratto a mio fratello o le continue pretese di una "quota" a farmelo capire, bensì puro e semplice istinto: Un lupo che ne riconosce altri. Anch'io prima di allora mi ero lasciato andare a quei gesti e non avrei permesso che mio fratello ne cadesse vittima. Mi avvicinai, spinsi da parte uno dei tre aguzzini e mi frapposi tra loro e il loro bersaglio, che venne prontamente soccorso dal fido Sarto. I tre mi riconobbero subito e impallidirono. Con la pubblicità che mi ero fatto non potevo aspettarmi di meno. Il più grosso si fece forza e mi sfidò, disse che avrebbero ottenuto la loro quota settimanale a costo di doverci picchiare tutti, intimandomi di andare a "giocare con il fuoco" lontano da li. Compresi che non si trattava di un episodio isolato. Quei tipi dovevano tormentare Richard da molto tempo e, improvvisamente, mi tornarono alla mente tanti piccoli dettagli visti ma ignorati. Che cieco ero stato a non accorgermi di quei silenzi in cui si chiudeva, di quei lividi diversi da quelli che era solito farsi giocando a calcio... "Ma ora basta!" mi dissi e sentii una nuova energia colmarmi. Involontariamente sorrisi, lo stesso sorriso sadico che aveva danzato sulle mie labbra di fronte all'incendio ora si mostrava ai tre bulli. Risposi che, se non si fossero tolti di mezzo, la prossima volta sarei andato a giocare col fuoco vicino alle loro case. Sparirono. Come dissolti, lasciandosi dietro solo il pallone. Ed io mi sentii rinascere. Ero di nuovo forte, di nuovo competitivo. Non avrei permesso che un membro della mia famiglia venisse gettato nella polvere. Avrei protetto il buon nome della mia famiglia e i suoi membri a costo di sporcarmi le mani. Tutti mi guardavano con timore? Bene, l'avrei sfruttato. Non capivo che, così facendo, avrei commesso due volte lo stesso errore.
I miei passi riecheggiano sui sampietrini e su gli edifici che fiancheggiano il viale deserto. Quante volte in trent'anni ho percorso questo viale? Ricordo bene che ci passavo spesso quando andavo a studiare al Black's, la bottega del padre di Sarto. Un edificio semplice, con un'ampia vetrina dove fanno vanto di sé le migliori opere dell'artigiano ed una grande insegna. Quest'ultima è l'unica cosa a non essere mai cambiata. So per certo che il vecchio Black ne avesse ordinata una nuova, con su scritto "Black & Son", ma non ebbe mai l'occasione di affiggerla. La Morte se lo portò via nel sonno, lasciando il giovane Black come l'unico erede.
La sera dopo il funerale portammo quella targa in un luogo isolato e la bruciammo. Non volevamo buttarla né ci sembrava giusto che rimanesse nel retro della sartoria a marcire e prendere polvere, quindi non ci rimaneva che quello: un grande falò che si rifletteva sugli occhiali di Sarto e sulle lacrime che scendevano sotto di essi. Non lo abbracciai come aveva fatto lui anni prima, mi limitai a posare una mano sulla sua spalla provando imbarazzo solo per quel gesto. Che scena pietosa... Lui era lì, bisognoso di conforto, e io mi vergognavo? Dio, che pena!
Dopo quella notte non volle più che lo chiamassimo Sarto. Disse che lo trovava infantile e superfluo dato che aveva deciso di seguire le orme del padre, abbandonando il sogno di diventare avvocato. Dopo quella notte tornò ad essere Jonathan Black.

Un destino simile toccò a ciascuno di noialtri. William ereditò la banca, Jim l'azienda ittica, io liberai mio padre dall'incubo della burocrazia e assunsi Ronald comprando la macelleria della sua famiglia e rifornendola con i prodotti derivanti dai miei allevamenti. Ma i soldi corrompono l'uomo e con me trovarono terreno fertile. Ad appena venticinque anni ero non solo ricco, ma anche potente. Possedevo metà della terra su cui era edificata la città e avevo tutta la possibilità di comprarmi l'altra metà. Con William e Jim al mio fianco capii di avere in pugno l'intera baia e che potevo farne ciò che volevo. Cominciai con l'alzare i prezzi degli affitti. Case, locali, negozi, nessuno escluso. Del dieci, venti, trenta percento inventandomi ogni sorta di scusa. "Lei signore ha il privilegio di avere il bagnasciuga a due passi da casa, ecco perché quella piccola sovrattassa" oppure "La sua vetrina supera il metro e mezzo di ampiezza. Deve decidersi: un venti percento in più o un negozio più piccolo."
Dall'altra parte della città William aumentava le tasse, spesso inventandosene delle nuove, in quella che ormai sembrava essere diventata una gara di avidità mentre Jim, approfittando della sua supremazia sul mare, aumentava a dismisura i prezzi del pescato, l'unico che si poteva trovare in città. Più che una gara con Jim c'era una partita a tennis dato che, se da una parte lui perdeva i clienti, questi inevitabilmente venivano a saccheggiare le mie macellerie. Presto imparammo ad alternarci ed osservare i concittadini che si affannavano nei modi più fantasiosi. In molti vennero a protestare ma invano. Nessuno poteva toccarci. Non c'era denuncia che non potevamo scoraggiare ne contestazione che non potevamo gestire. E se qualcuno tentava di farsi giustizia da solo riceveva la visita notturna di Ronald. Ma, ahimè, con tutto quello che stavamo guadagnando non ci accorgevamo più di ciò che perdevamo. Amici, famiglia... amore.
Sospiro sedendomi sul bordo della fontana che domina il centro della piazza. Una semplice struttura a più piani, una specie di gigantesca torta dalla cui cima zampilla acqua, priva degli elaborati ornamenti che ci si aspetta rendano più artistica e godibile la fontana, niente dèi o semidèi nudi o cherubini che orinano nella vasca. Un rumore mi desta dai miei ragionamenti su cosa ci trovi la gente di artistico in un cherubino che piscia. Dei passi che, dalla via opposta a quella da cui sono arrivato io, si avvicinano alla piazza. Controllo l'ora. Le lancette del mio orologio segnano le quattro del mattino, un ora più che normale per i pescatori, i fornai e... le pasticciere.
A quel pensiero il tempo si dilata e mi sembra che passi un'eternità prima di scorgere la figura che fa il suo ingresso nella piazza. E' alta, statuaria, bellissima. Capelli lunghi e ricci, neri come ali di corvo, che ben si sposano con la sua pelle abbronzata. E quegli occhi... Di qui non posso scorgerli ma ne conosco benissimo l'aspetto.

Verdi come l'erba primaverile, questo pensai la prima volta che la vidi, intenta a giocare con la farina vicino a suo padre nella pasticceria che tutt'ora sta in fondo alla piazza. Eravamo entrambi bambini ma ne rimasi subito incantato. Per me era la più bella bimba che avessi mai visto, poco importava se allora al suo sorriso mancasse qualche dente o che avesse il vestitino e le mani bianchi di farina. Le mani che stringevo quando correvamo in mezzo alle mucche e alle galline, che accarezzarono i lividi causati dall'esplosione passando come lenitive sulla mia pelle, le stesse mani che avevo amato baciare e sentirmi toccare durante le notti passate insieme.
Suo il fazzoletto rosso che sfioro mentre prendo un'altra sigaretta.
Ora quelle mani, non più mie, frugano nella borsetta mentre gli occhi, non più miei, scrutano nell'oscurità del vicolo dietro la pasticceria per trovare la serratura della porta di servizio. Posso immaginare le sue labbra che si arricciano mentre lotta con la serratura che non ne vuole sapere di aprirsi ma che dopo un po' è costretta a cedere. Una luce illumina il suo volto che, poco prima di entrare, si volta verso di me. Bella, ma non più mia. Io l'ho persa. Ho preferito la compagnia dell'avarizia alla sua. Ho preferito donne più facili di quell'unica pronta ad impegnarsi con me. Lei ora è di un'altro, come testimonia l'anello di fidanzamento che, brillando, ammicca verso di me poco prima che lei sparisca oltre la porta. E' stata ricompensata con l'unico uomo che credevo migliore di me.

E' passato poco più di un anno da quando ci siamo separati ed eccola, non più di due sere fa, sotto braccio al mio migliore amico sulle scale di casa mia. Jonathan mi aveva avvertito che sarebbe venuto a presentarmi la sua fidanzata ma mai mi sarei aspettato di vedere lei, timorosa e con lo sguardo basso. Dovevo capirlo quando nelle nostre rare chiacchierate la descriveva ma non avevo capito, forse non volevo capire. Ma davanti a quella visione non mi seppi trattenere e attaccai. Colpii quell'unica persona a cui mi ero ripromesso di non fare mai male. Un paio di occhiali volò sul selciato poco lontani da noi che finimmo a terra avvinghiati. Ma avevo fatto male i conti, quello che avevo davanti non era più il debole mingherlino Sarto, era Jonathan Black, un uomo adulto e prestante che, pur limitandosi a difendersi, stava avendo la meglio sulla mia furia incontrollata Poi due mani, un tempo delicate, mi tirarono via con forza e lo aiutarono a rimettersi in piedi. Urlai, inveii contro di lui chiamandolo traditore ma nei suoi occhi non scorsi rabbia, solo una triste risolutezza che unita allo sguardo accusatore di lei si stava facendo largo dentro di me come un bisturi. Dopo aver sputato una boccata di sangue disse che comunque avrebbe apprezzato la mia presenza alle nozze e, insieme alla sua futura moglie, si era allontanato.
Io? Io ho passato gli ultimi giorni con la bottiglia in mano perché quando si è assaliti dai sensi di colpa quale miglior medicina può esserci del whisky, o del brandy, o della semplice e più economica birra? Dio? La chiesa? Uno difficilmente ritracciabile e l'altra poco risolutiva. No. Ho preferito cercare di annegare le fitte nell'alcol. Fino a stasera quando, finita la mia scorta casalinga, annebbiato e barcollante sono uscito per rifornirmi. Nessuno sembrava riconoscere in quell'ubriacone ben vestito il tanto odiato Conte. Fino a quella figura in fondo a questo vicolo sudicio, ora illuminato ad intermittenza da luci blu, bianche e rosse. Quella figura che dall'ombra aveva sollevato un braccio, in mano un oggetto di metallo brunito. Degli scoppi ed eccole, le pallottole che mi straziavano le carni. L'ombra si era dileguata ed io avevo chiuso gli occhi crollando al suolo.
Passo il cordone di poliziotti che si affaccendano nel vicolo e lo vedo: un uomo che viene posto su una barella, il completo elegante macchiato di rosso, lo stesso rosso del fazzoletto nel taschino.
Non ce la faccio. Non posso rimanere a guardare mentre i medici mi intubano. E' finita. Se io sono qui è già finita. Corro. Come quel quindicenne in lacrime, corro fino alla scogliera e cado in ginocchio. Sotto di me la città si sta svegliando mentre il cielo già cambia colore.
Cosa faranno alla notizia della morte del tiranno? Canteranno e balleranno in cerchio? Mi useranno come mostro nei racconti per bambini? Nessun eredità e nessun titolo potranno salvarmi. Vedo già Jonathan che si affanna dicendo che no, quel Conte non era cattivo e sarebbe potuto cambiare. Oh, amico mio... Quanto vorrei poter fare un passo indietro, correre incontro a te e a quella donna che tanto ho amato e abbracciarvi, baciarvi sulla fronte dandovi la mia benedizione, affiancarti sull'altare mentre lei incede verso di noi... Vorrei tornare a casa, in quella bianca villa, da mio fratello per dirgli quanto gli voglio bene e di quanto mi piacerebbe lavorare insieme. Poi correrei a stringere le mani dei miei genitori e dirgli quanto ho appreso, ringraziandoli per essere rimasti con me. E poi guarderei mio padre e, chiedendogli scusa, direi...
-Pulvis et Umbra sumus... non sai quanto ti sbagliavi... papà. -
Queste parole lasciano le mie labbra mentre chiudo gli occhi ed il primo raggio di sole mi accarezza il volto.

Apro gli occhi... Bianco.







Ebbene, eccoci qui.
Come già detto, la precedente era in origine una sorta di verifica finale per un corso di scrittura on-line (rivelatosi una bufala mostruosa).
Lo posto nella speranza di ricevere recensioni. Dopo un bel po' di lavoro non poteva certamente rimanere in una cartella del desktop a, passatemi il termine, prendere polvere e sono curioso di capire se sia un'opera apprezzabile.
Detto ciò, spero che sia piaciuto e/o che abbia dato spunti su cui riflettere.

Un saluto
A.

 
  
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